Tanti auguri Zelda, principessa non più in difficoltà

La damigella che è riuscita a spezzare la gabbia del cliché in cui era rinchiusa.

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica
6 min readFeb 22, 2021

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Un primo piano della principessa Zelda, tratta dalla serie di videogiochi The Legend of Zelda.

Trentacinque anni fa Shigeru Miyamoto metteva la firma sul primo capitolo di una delle saghe videoludiche più amate di tutti i tempi: The Legend of Zelda. Conta ormai 18 capitoli principali, ognuno in grado di conquistare miriadi di fan — che poi, dopo averli completati, hanno passato anni a chiedersi quale fosse l’ordine cronologico giusto in cui disporli. Una roba che Star Wars scansati proprio. Nel festeggiare questo compleanno, dato che qui a Frequenza Critica ci piace guardare le cose da diversi punti di vista, voglio puntare i riflettori sul personaggio titolare meno protagonista della storia dei videogiochi: la principessa Zelda.

Presente, in un modo o in un altro, in quasi tutti i capitoli principali della serie, la portatrice della triforza della saggezza ha faticato a ritagliarsi un ruolo forte all’interno delle vicende narrate (precisiamo, per poi approfondire dopo: un ruolo forte che non comprendesse il cambio di identità), riuscendoci solo dopo anni e anni di tentativi più o meno goffi. Assieme a Peach, la principessa in semi-perenne rapimento che chiede puntualmente aiuto a un idraulico italiano per poter fuggire dalle grinfie di un mostro gigantesco (ah, se solo i giapponesi sapessero quanto è difficile trovare un idraulico disposto ad aiutarti nel momento del bisogno), Zelda è stato a lungo il prototipo del cliché della damigella in difficoltà nel mondo dei videogiochi.

Il perenne bisogno di essere salvate

Quello della damigella in difficoltà è un cliché vecchio come il mondo. Le sue radici (quelle note, quantomeno) affondano fino ai miti classici: ricordate la bella Andromeda, incatenata nuda a uno scoglio, salvata prontamente da Perseo? Si tratta di un espediente narrativo usato e abusato da scrittori e sceneggiatori, perché fornisce una semplice scusa per mettere in moto gli eventi di una storia. La tal donna viene rapita/imprigionata/pietrificata e tocca all’eroe correre a salvarla. Suona familiare?

Una ragazza viene colpita con un pugno da un uomo.
Double Dragon (1987)

Se videogiocate da un po’ di tempo sarete sicuramente incappati in storie del genere più e più volte. Sono due le idee alla base di questo cliché che lo rendono del tutto fuori tempo massimo, per non dire retrogrado, per non dire sbagliato: da una parte si continua a propinare l’idea del sesso debole, dall’altra (e qui sta il vero problema) il personaggio femminile perde, tradizionalmente, ogni possibilità di agire, di modificare attivamente la propria condizione, svilendosi fino a raggiungere lo status di oggetto — qui, oggetto da salvare e spesso, di conseguenza, premio per l’eroe trionfante. Non fatemi entrare nella turbolenta area della raffigurazione delle donne nei videogiochi perché altrimenti non ne usciamo più: ci sarebbe troppo da dire, rispetto a troppe cose a dir poco imbarazzanti.

L’innocenza (perché non siamo qua a fare un processo alle intenzioni) con la quale questo cliché ha generato altri topos di fortuna pari o superiore è indice di quanto queste idee siano radicate nel profondo. Tanto da diventare invisibili. Pensate alle cosiddette “donne nel frigorifero”, buffo termine coniato per identificare l’epidemia di personaggi femminili uccisi per giustificare una reazione da parte del protagonista di turno. Avete presente il primo episodio della serie The Boys? Ecco, quella roba lì.

Zelda e la fuga dal labirinto

I primi passi di Zelda nel mondo dei videogiochi — e, di conseguenza, nel nostro — sono all’insegna della canonica passività da damigella in difficoltà. Il problema di fondo, qui, è che ancora prima di Ganon, a mettere in gabbia la nostra cara principessa è il cuore della formula della serie, che prevede la ripetizione di una certa storia in circostanze, tempi, luoghi e modi diversi. È come se il cliché fosse una parte fondamentale, pressoché insostituibile, della storia: come fuggire da questo labirinto?

Una giovane ragazza viene portata in salvo su un cavallo bianco.
The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998)

Nel primo The Legend of Zelda, in Zelda II: The Adventure of Link e in A Link to the Past il rapimento della principessa — o il suo imprigionamento in uno stato di stasi, un’alternativa classica — è una delle circostanze di partenza della storia. Bisogna attendere l’arrivo di Nintendo 64 e del celebre Ocarina of Time perché in Zelda si veda un cambiamento — uno dei più radicali visti nella serie, oltretutto. In questo caso Ganondorf non muove per primo i propri pezzi sulla scacchiera: è la principessa, ancora bambina, a intuire le intenzioni del re gerudo e a richiamare al dovere Link per cercare di prevenire il disastro imminente.

Quando poi, arrivato comunque lo scacco di Ganondorf al regno di Hyrule, la principessa si trova davvero in pericolo, si salva grazie a un travestimento che l’accompagnerà per buona parte della seconda sezione del videogioco: fingendosi un combattente della tribù sheikah di nome Sheik assiste attivamente (qui sta la parola chiave, ricordiamolo) Link nella sua missione. Almeno finché la sua identità reale non viene rivelata: a quel punto il copione si ripete ancora una volta, con l’antagonista che arriva e rapisce la principessa.

Tetra in The Wind Waker
Tetra in The Legend of Zelda: The Wind Waker (2002)

Anche The Wind Waker non è stato da meno. Il cartoonesco capitolo per GameCube utilizza ancora una volta un’identità alternativa per la principessa Zelda, che viene introdotta nella storia nei panni di Tetra, avventuroso capitano di una nave pirata. La ragazza non è consapevole delle sue origini reali, ed è qui che sta il nodo della faccenda; quando la verità viene a galla, Zelda viene privata della possibilità di agire e messa al sicuro nel castello. Di lì a poco — ma tu pensa! — arriva Ganondorf e, di nuovo, la rapisce: un passo in avanti, due passi indietro.

Una principessa contro l’oscurità

Il vero cambio di marcia è arrivato solo in tempi molto recenti quando, per accompagnare il debutto sul mercato di Switch, Nintendo ha pubblicato The Legend of Zelda: Breath of the Wild. L’ultimo capitolo principale della serie (escludiamo dal conteggio Hyrule Warriors, di cui abbiamo già parlato sulle pagine di IGN Italia, e il remake di Link’s Awakening) è stato rivoluzionario su più fronti: ha stravolto la struttura classica sia dal punto di vista del gameplay sia, per certi versi, della storia. La principessa Zelda è stata a sua volta oggetto di un profondo cambiamento.

L’impressione è che finalmente gli sviluppatori siano riusciti ad elaborare la formula base della storia di The Legend of Zelda, liberando dalla sua prigione di passività la protagonista femminile senza stravolgere l’impianto narrativo classico. Zelda, in questa sua ultima versione, è un personaggio con carattere e background più elaborati rispetto a quanto visto in passato — e, nonostante si continui a vivere l’avventura dal punto di vista di Link, la sua è una presenza viva, anche se fisicamente assente dall’azione. Attraverso vari flashback veniamo a conoscenza della sua storia (stavolta, non solo di nome), ne scopriamo la fragilità, capiamo il peso che porta sulle spalle e comprendiamo come, di conseguenza, non si senta all’altezza del ruolo. Ne tocchiamo quindi la natura più umana — non regale, non divina: umana. Orecchie a punta a parte, si intende.

Ma il vero ribaltamento del paradigma stabilito nei precedenti tre decenni avviene nel momento in cui non è più Ganon a imprigionarla, ma l’esatto opposto: Zelda sacrifica sé stessa per salvare il proprio regno, tenendo in ostaggio la Calamità all’interno del castello di Hyrule. La soluzione è brillante proprio perché conserva inalterati i ruoli classici: è Link il protagonista di questa avventura e deve correre ad aiutare la principessa. Ma, appunto: aiutare è un verbo ben diverso da salvare. È un uovo di Colombo, senza dubbio, ma questo non fa che aumentare a dismisura l’importanza di questa scelta, perché ci insegna — o ci ricorda, nel migliore dei casi — quanto poco basti per far spuntare una prima crepa in un’idea sbagliata, se la si affronta nel giusto modo.

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Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica

Chiacchieratore seriale, passa buona parte del suo tempo a parlare ad altri della sua passione per i videogiochi.