The Last of Us Parte II: l’ultimo che è uno tra tanti

The Last of Us Parte II porta con sé i soliti problemi di un certo tipo di videogiochi e a me questo non sta più bene.

Luigi "abyssent" Peccerillo
Frequenza Critica
12 min readJul 25, 2020

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È successo un’altra volta. Odio i videogiochi, odio la condizione di indecisione perenne in cui mi ingabbiano. Perché un gioco mi piace ma alla fine non mi piace? Perché muoio dalla voglia di giocarci ma una volta finito non mi lascia assolutamente nulla? No, non odio i videogiochi. Odio un certo tipo di videogiochi. Forse l’ho sempre fatto e me ne sono accorto solo di recente. Ma quand’è che è iniziato? Ci penso e trovo subito la risposta: Red Dead Redemption 2. Questo Giano Bifronte moderno che mi attrae e mi respinge con le sue due anime opposte: da una parte possibilità e libertà, tutto ciò che amo; dall’altra menzogne e costrizioni, tutto ciò che odio. E’ stata una secchiata d’acqua gelida in faccia per farmi riprendere da una sbronza colossale.

Ma Red Dead Redemption 2 mi è piaciuto, forse l’ho amato genuinamente o forse non ero pronto a lasciarmi andare. Però mi ha allenato, mi ha messo in guardia, mi ha fornito gli anticorpi. E come ho detto è successo un’altra volta. The Last of Us Parte II è il nuovo colpevole. L’accusa? Sempre la stessa: tentato omicidio della mia capacità decisionale. L’ho giocata con gusto l’ultima fatica Naughty Dog; trenta ore filate. Poi ho tolto il disco dalla console e con una scrollata di spalle mi sono liberato di ciò che avevo vissuto negli ultimi giorni. È successo ancora. Ma questa volta ero preparato, ero pronto a scandagliare tutto ciò che avevo visto e a prendere finalmente una decisione: The Last of Us Parte II non mi è piaciuto.

Nei videogiochi è usanza comune creare ambienti limitati, sotto forma di aree o corridoi, nei quali l’interazione viene ridotta al minimo. Tali sezioni fungono da innesco a una cutscene o da ponti che collegano due cutscene. Ciò viene fatto per non abbondare col minutaggio delle sequenze filmate evitando quindi di dare al pubblico la sensazione di guardare un film piuttosto che giocare un videogioco. Ed è qui che sorge per me il primo problema di quella categoria di giochi che si definiscono cinematografici.

Una breve parentesi: il termine videogioco cinematografico è un ossimoro, perché il videogioco esiste in quanto sistema di input e output e come tale dà vita a un flusso in tempo reale e continuo di immagini, mentre il cinema è fatto di immagini in differita: il film che noi vediamo non viene creato direttamente davanti a noi ma è il frutto di una selezione e un assemblaggio fatti attraverso il montaggio. Il videogioco può simulare il montaggio cinematografico (come in Virginia o Paratopic) proiettando il giocatore in un nuovo spazio-tempo, ma per via del feed in tempo reale la sensazione è più vicina a un salto spazio-temporale fantascientifico piuttosto che al cambio di scena che avviene in un film. O può, per via della sua natura completamente digitale e digitalizzata, inglobare il cinema ed esprimersi utilizzando il linguaggio cinematografico, che è quindi complementare al linguaggio videoludico senza però mai viaggiare sullo stesso binario di quest’ultimo. Lo stesso può fare con la scrittura, se si pensa a un videogioco come Planescape: Torment o in generale a quei videogiochi che adibiscono parte della loro comunicazione ai testi scritti.

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Ritornando ai “videogiochi cinematografici” e alla presenza di quelle sezioni di cui sopra, trovo che il problema sia il proverbiale voler tenere un piede in due scarpe. C’è la voglia di stupire facendo cinema — perché la narrazione predominante è che la maturità espressiva del videogioco si raggiunga travestendo quest’ultimo da film — e la necessità di fare un videogioco. Nel volere intersecare i due linguaggi, cinema e videogioco, si finisce per fare un cinema inconsistente e un videogioco noioso.

In primo luogo perché il videogiocatore è un pessimo regista: gli è concesso troppo e troppo poco allo stesso tempo. Pensate al classico caso in cui dovete seguire il vostro compagno prima di arrivare al punto in cui partirà una cutscene, la prima interazione in The Last of Us Parte II è di questo tipo: controlliamo Joel a cavallo e dobbiamo seguire Tommy fino in città. La scenografia è preparata per meravigliare il giocatore: il sole alto in cielo che stampa i suoi raggi sullo schermo, la fitta foresta rigogliosa intorno a noi. Ma il fatto che io sia il regista mi consente di abbassare la telecamera e fissare il terreno piuttosto che la natura costruitami attorno; mi consente di girarmi col cavallo e fissare il garage alle mie spalle; di sbattere contro un albero. Non devo per forza farlo, ma posso farlo. O può succedere accidentalmente che sbagli a premere un tasto e accada qualcosa di buffo; in ogni caso ho il potere di rovinare la scena allestita dagli sviluppatori e nel farlo arriverei lo stesso al punto X.

Se anche decidessi di comportarmi tenendo conto di quello che vorrebbero gli sviluppatori, non potrei muovere il mio occhio come la cinepresa si muove sul set cinematografico. Non posso dare vita alla mia visione della scena, perché sono limitato dal mio avatar che è l’unico strumento di cui dispongo: il risultato finale non sarà mai completo e gratificante come quello di una scena cinematografica. Se invece guardo una sezione del genere dal punto di visto videoludico non posso che constatarne la banalità, dato che l’interazione è limitata al muovere il proprio avatar in un percorso più o meno stabilito. The Last of Us Parte II fa un uso smodato di queste situazioni, specie nel prologo.

Non mi aspetto che il videogioco mainstream implementi soluzioni come quelle di Virginia o Paratopic, due titoli già citati precedentemente. Piuttosto è interessante l’approccio introdotto da Red Dead Redemption 2, nel quale è possibile sostituire la classica inquadratura in terza o prima persona con una camera cinematografica, ciò consente di controllare l’inquadratura da diverse angolazioni e quindi superare il limite del nostro avatar. Una maggiore ricerca su uno strumento del genere potrebbe attenuare il problema del “pessimo regista” durante le sezioni di cui sopra.

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Rimanendo con gli occhi puntati sulla parte cinematografica, mi chiedo in che misura questa possa attrarmi. Come ho già detto, la narrazione in voga nel mercato mainstream vuole che il videogioco assuma le sembianze di un film per ottenere una fantomatica benedizione ed entrare nelle case con la compiacenza degli utilizzatori, che possono quindi gonfiare il petto soddisfatti di giocare qualcosa di “maturo” e “artistico”. Non c’è quindi da meravigliarsi che la parte cinematografica non è mai oggetto di critica seria (attenzione parlo di regia, non di sceneggiatura), perché il cinema è maturo e quindi buono a prescindere, così come è automaticamente buono e dignitoso il videogioco che lo contiene (a meno che non abbia qualcos’altro di repellente).

Ma se è vero che il cinema è qualcosa di complementare al linguaggio videoludico, in videogiochi come The Last of Us Parte II finisce per assumere una posizione predominante a livello comunicativo, perché il videogioco è pensato, costruito e venduto per somigliare a un film. Attenzione, non voglio far intendere che un videogioco come TLoU Parte II non comunichi attraverso la sua parte ludica, ma il modo in cui è presentato al pubblico è chiaramente con l’accento posto sul suo essere crossmediale, dove alla parte filmica è delegato il compito principale di far provare qualcosa al giocatore che vada oltre l’intrattenimento dato dal gameplay. Ci arriveremo dopo.

Quand’è che per me una regia è interessante? Quando da sola riesce a comunicarmi qualcosa, quando le inquadrature e i movimenti di macchina riescono a sostituirsi alle parole, quando intravedo l’autore nella regia o quando questo riesce nascondere la sua mano. E così via. Ritornando a noi, se guardo con attenzione l’impianto filmico di questo tipo di videogiochi, tra cui appunto TLoU Parte II, non posso che notare che non vi è quasi mai una regia che possa definire interessante. Questi si aggrappano più a una regia da blockbuster, scolastica e piatta, piuttosto che a un cinema ricercato e autoriale, e l’intero impianto filmico finisce per essere una mera impalcatura che sorregge la sceneggiatura. Questo tipo di regia non trova nemmeno dignità nella sfera crossmediale, nel suo presunto spiccare rispetto agli altri videogiochi dello stesso tipo, semplicemente perché il videogioco in generale propone di meglio.

Prendo come esempio un piccolo gioiello che ho giocato di recente: Horace. Nonostante sia un gioco 2D, l’autore Paul Helman riesce a creare una regia deliziosa: ricorre spesso ai primi piani, attraverso i quali cattura i cubettoni di pixel che compongono la faccia del robottino Horace e crea diapositive che scaldano il cuore o rattristano. È questo che io definirei un film interessante se fosse un film. Nel caso di The Last of Us Parte II la tragedia è duplice, perché da una parte parliamo di un film che per me ha poco da dire, dall’altra questa sua natura finisce per essere una condanna per la sua ottima parte videoludica. È anche chiaro che quest’ultima sia stata diluita in modo considerevole per velleità narrative e filmiche, al punto da portare in alcuni momenti a un riciclo e un appiattimento delle situazioni di gioco. Nel mio caso il videogioco non è sopravvissuto al film.

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Se scendo più in profondità nell’opera, mantenendo sempre come luce guida il rapporto tra videogioco e cinema, scopro che entrambi mi urlano cose diverse e finiscono per non dirmi nulla. Non è inusuale infatti per i videogiochi che comunicano principalmente attraverso il loro impianto filmico, non curarsi di indirizzare nella stessa direzione la comunicazione che scaturisce dal gameplay. Anche questo è un problema di carattere generale, e TLoU Parte II ne è vittima, non senza colpe perché è una strada che ha deciso di intraprendere autonomamente. In una famosa intervista, l’autore Neil Druckmann afferma che The Last of Us Parte II non è fatto per essere “divertente” e dice:

We believe that if we’re invested in the character and the relationships they’re in and their goal, then we’re gonna go along on their journey with them and maybe even commit acts that make us uncomfortable across our moral lines and maybe get us to ask questions about where we stand on righteousness and pursuing justice at ever-escalating costs.

Our aesthetic approach to violence is to make it as grounded and real as possible, and we watch — sometimes uncomfortably — a lot of videos from the world, right? The world that we know, and trying to say, ‘Okay, we don’t want to make it sexy. How do we make it real? How do we make it uncomfortable because art at times should be uncomfortable?

In pratica il giocatore dovrebbe chiedersi se quello che sta facendo il suo avatar sia giusto o sbagliato e la rappresentazione cruda e reale della violenza dovrebbe portare il giocatore a sentirsi a disagio. Ma vediamo cosa accade in realtà. The Last of Us Parte II racconta di persone che hanno deciso di sacrificare la propria esistenza sull’altare della vendetta e della violenza, in una discesa inesorabile all’inferno. Anche se si riesce a risalire, a ritrovare quel piccolo residuo di umanità nella propria anima, il prezzo che si è pagato per arrendersi al proprio lato bestiale resta altissimo. Una storia che in maniera del tutto didascalica vuole metterci in guardia dal seguire certi istinti, vuole prima mostrarci la violenza e i suoi effetti devastanti, per poi esorcizzarla. Tutto ciò è scritto nella sceneggiatura e mostrato tramite cutscene.

Cosa accade invece mentre giochiamo? Che siamo attori e spettatori di una spettacolarizzazione della violenza, che diventa persino catartica nel momento in cui vediamo il nemico che ci ha dato tanto filo da torcere esplodere in mille brandelli di carne. Le azioni del nostro avatar, la brutalità delle uccisioni, la verosimiglianza delle animazioni, più che provocare repulsione e dubbi scaturiscono attrazione e generano plausi. È il gioco stesso a compiacersi nel mostrare una violenza tecnicamente realizzata allo stato dell’arte; è il pubblico che cercando e condividendo video che riproducono concatenazioni di uccisioni brutali, banalizza la violenza e si diverte con essa; è il giornalismo videoludico che mettendo in risalto da una parte il prodigio tecnico-ludico e dall’altra la profondità concettuale, istituzionalizza agli occhi delle masse la dissonanza tra la violenza vanesia del gioco e quella corrosiva della narrazione.

Ma posso continuare, uscire fuori dal videogioco, e prendere in considerazione la sua natura di prodotto commerciale per sottolineare ancora una volta il cortocircuito comunicativo all’interno di TLOU Parte II. Come bonus per aver preordinato il gioco mi è stato fornito un codice per sbloccare sin da subito un potenziamento per la pistola. Persino il marketing sottintende un uso “poco serio” del videogioco e fa cadere qualsiasi maturità pretende di avere la comunicazione portata avanti dal gameplay. Un’opera che vuole mettere in guardia il fruitore dai demoni generati dalla violenza, fornisce allo stesso, secondo logiche commerciali, uno strumento per facilitarlo nell’attuare la violenza. Ci troviamo quindi di fronte a un gameplay che risulta essere adulto nei contenuti, ma poco maturo nella sua espressività. Non mi soffermo molto sulle forzature logiche che questa dissonanza comporta, se non per fare un esempio veloce: Ellie si fa largo tra centinaia di nemici, li ammazza senza pietà, ma la sua psiche resta completamente inalterata. Quando poi, durante una cutscene, uccide con la stessa ferocia un personaggio rilevante nella storia, matura una forte depressione.

Ancora una volta emerge la natura filmocentrica di questo tipo di videogiochi: è la sceneggiatura a decidere come e quando il nostro avatar passa dall’essere un strumento con il quale avanzare nel gioco all’essere un mezzo di comunicazione. Non aiuta il fatto che TLoU2 cerchi di dare un’identità ai nemici: questi si chiamano per nome e usano linguaggi artificiali per comunicare, insomma si comportano come persone reali. Ciò nonostante, perpetuare violenza verso di loro non ha alcuna conseguenza: il videogioco superficialmente li pubblicizza e li vende come un rivoluzione tecnologica, mentre la sua anima codarda e autoreferenziale vuole che restino bersagli da abbattere. Non hanno diritto a impattare i sentimenti del giocatore e del suo avatar. Quello spetta ai personaggi i cui nomi compaiono in uno script cinematografico.

(Un esempio opposto: in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain l’uccidere i soldati nemici invece che risparmiarli comporta un mutamento estetico del nostro avatar, una manifestazione della sua dannazione).

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Parto dal tweet qua sopra per parlare di un’ultima cosa. Il tweet in questione è stato oggetto di un’accesa discussione quando il giornalista Jason Schreier ha risposto sminuendo il paragone The Last of Us Parte II - Schindler’s List con una battuta. Ciò ha richiamato l’attenzione dello stesso Neil Druckmann, che vedendo messa in discussione la sua vena autoriale, ha rimproverato Jason e invitato tutti a una discussione più matura e seria attorno al suo gioco maturo e serio. C’è un’altra narrazione predominante, questa volta non limitata ai videogiochi, secondo la quale basta inserire un contenuto adulto e altisonante per dare automaticamente all’opera una specie di spinta che le permetta di arrivare prima rispetto a tutte le altre. I contenuti quindi devono essere estremamente didascalici, devono essere immediatamente percepibili dal fruitore medio, che così può dirsi realizzato di aver vissuto la più profonda delle esperienze. Ai più sembra sfuggire una piccola sottigliezza: l’arte non risiede nel contenuto, ma nel processo da cui questo scaturisce.

Prendiamo ad esempio il sopracitato John Wick. Parliamo di un film di vendetta, dove il protagonista mosso dal suo odio si fa largo tra una marea di sgherri fino ad affrontare l’antagonista (ricorda qualcosa?). Fine, il film è tutto qui. Ma come è possibile che pur mostrando qualcosa di così banale, John Wick sia un bel film? Perché è consapevole di essere banale, imbelletta la sua banalità e la mostra allo spettatore in un modo completamente personale e senza prendersi mai troppo sul serio. E per questo risulta unico, interessante, bello. Ma agli occhi del fruitore medio un’opera che ruota attorno a una vendetta goliardica è certamente inferiore a un’altra che presenta lo stesso argomento in maniera aulica, anche se quest’opera è soltanto una tra tante.

Forse bisogna partire da qui: piuttosto che tentare di inseguire Schindler’s List, alcuni videogiochi dovrebbero capire che essere John Wick non è male.

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Luigi "abyssent" Peccerillo
Frequenza Critica

Nato nell’agglomerato urbano di Neo-Caserta, passa il suo tempo in un tumulo digitale tra videogiochi, film vecchi e dischi tristi.