Yokosuka Monogatari

Shenmue, tardo autunno del 1986.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
8 min readNov 2, 2020

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Ryo Hazuki era un bravo guaglione. Tutto scuola e dojo, rincasando nella sua tenuta familiare nel piccolo centro di Yokosuka, assiste al turning point della sua esistenza di teenager giapponese di fine anni ’80: suo padre viene pestato a morte da dei loschi figuri. Chi è stato, perché, dove si trova quel cinese dallo sguardo affilato che ricorda Tao Bai Bai di Dragon Ball?

Shenmue principia con il più classico dei trope di vendetta, un ragazzo che deve spiccare il volo dal nido paterno, arti marziali e yakuza. Ciò che invece è prerogativa assoluta dell’opera di Yu Suzuki è la rappresentazione videoludica di questo percorso di emancipazione di Ryo. Il medium videoludico — isolando dal discorso quei generi che mirano ad avere velleità simulative — è caratterizzato dalla necessità di compiere astrazioni nel processo di riproduzione del reale. Non è questa la sede per prendere di petto questo aspetto (a cui accenno, seppure a latere, in questo articolo), tuttavia è necessario premettere alcuni punti.

Nel videogioco è prassi che specifici segmenti d’azione siano premessi ma non mostrati o al massimo semplificati, in ossequio alla necessità di depennare ciò che non svolge un ruolo diretto (o indiretto, creando contesto) alla giocabilità del titolo. È del tutto auspicabile che certi “passaggi” siano stralciati: pensate, ad esempio, al ruolo che svolge il montaggio nella costruzione filmica. Va da sé che sia il contesto rappresentativo a stabilire se l’integrità della finzione scenica sia salvaguardata o meno. Questo è il motivo per cui “si accetta” che Snake raccolga gli oggetti camminandoci sopra, mentre non sarebbe ammissibile che Arthur rovisti in un cassetto senza aprirlo e svuotarne il contenuto.

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Anche un videogioco come Metro 2033, che pure riconosce una certa importanza a un tipo di immaginario realistico post-apocalittico, fa uso di astrazioni.

Con Shenmue, Yu Suzuki abdica a gran parte delle astrazioni in voga nel videogioco d’azione e avventura, e sceglie, scientemente, di mostrarle, restituendo un feeling simulativo all’esperienza di gioco che rimane, però, di chiara matrice di genere. Come ha fatto il team capitanato dal creativo nipponico a trovare la giusta alchimia fra queste due anime così dissonanti? E, soprattutto, qual è la ragione dietra una scelta così demodé?

Il tempo della provincia giapponese

29 Novembre 1986, 4:00 pm. Una giornata piovosa; la morte di nostro padre.

30 Novembre 1986, 8:30 am. Una giornata assolata; il primo giorno alla ricerca di indizi sulla morte di nostro padre.

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Ryo valica la porta della Hazuki Residence.

Tempo astronomico, tempo orario, tempo atmosferico, tempo dell’azione: la propensione di Shenmue a legarsi all’elemento temporale è chiara sin dall’inizio. Una schermata nera, indicante luogo e momento della giornata, appare al nostro valicare quartieri e locali, uno dei primissimi oggetti nel nostro inventario è un orologio, l’anziana signora di casa Hazuki ci raccomanda di non tornare a casa troppo tardi, digitando un numero al telefono potremo conoscere le previsioni atmosferiche per la giornata.

Il tempo non influisce unicamente sulla giornata del nostro Ryo, ma scandisce i ritmi di questo piccolo paese e dei suoi abitanti. Ogni personaggio non giocabile ha la sua routine giornaliera, con un orario in cui esce da casa, si dirige al lavoro (magari al proprio negozio) o si cimenta nelle proprie attività quotidiane; gli anziani sostano nei parchi o passeggiano per la via principale, i bambini scorrazzano la mattina fino a rincasare prima di sera; alle luci dei neon notturni, qualche ubriacone ciondola ai margini della strada e loschi figuri si dirigono nelle bettole e nei club che hanno appena aperto.

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Potrà capitare di imbattersi in un gattino rimasto orfano e di prendersene cura, nel tempo, insieme a una bambina.

La vita di Yokosuka segue il suo ritmo da periferia dell’impero e il giocatore deve adeguarsi a esso. Al che, alcuni di voi che non hanno ancora provato l’opera di Suzuki potrebbero tornare con la mente alla saltuaria esigenza, ventilata o lamentata in qualche opinione rinvenuta sul web, di dover attendere un preciso orario in-game prima di proseguire nella main quest del titolo. Bene, io sono qua per ribadire un punto cruciale: questa esigenza non è che una conseguenza, per giunta marginale e poco rilevante, del design imbastito da Suzuki. La ragione di questa mia affermazione è presto detta: una vera distinzione, in Shenmue, fra contenuto principale e secondario non esiste.

Muniti unicamente di un diario in cui annotare le informazioni più rilevanti, il giocatore è lasciato totalmente libero di svolgere la propria indagine in un mondo ricreato in ogni dettaglio e che segue le proprie regole. Cominciano, dunque, ad amalgamarsi le due anime succitate: da una parte un ragazzo che si troverà coinvolto in inseguimenti e lotte di quartiere contro sgherri ed esperti di arti marziali; dall’altra una fase investigativa, fatta di orari di apertura di esercizi commerciali, porte che si aprono e domande rivolte a individui che ragionevolmente potrebbero essere più informati di altri. Ed è nel momento in cui questo ritmo senza sconti di Shenmue si adegua in maniera così naturale ai proponimenti, alla curiosità e all’intraprendenza del giocatore che scocca la scintilla.

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Cerchiamo dei cinesi? Magari il posto migliore è provare un’agenzia di viaggi o un ristorante cinese. Dove si trovano? Magari chiediamo al banchetto degli hot dog della via centrale. La fase investigativa in Shenmue non è aleatoria o generata proceduralmente.

Ecco il senso pieno del tempo in Shenmue: il giocatore viene trascinato nel placido fluire della vita di Yokosuka, adeguando il ritmo e le azioni della propria giornata alle esigenze che il compito attuale di Ryo impone. Organizzare la giornata, dopo l’immancabile sveglia delle 8:30, rientra nell’immedesimazione del ragazzo di provincia che Shenmue persegue: a seconda del punto dell’indagine a cui si è giunti, si modula la schedule quotidiana. Non si tratta semplicemente di attendere “l’ora promessa”, si tratta di vivere Yokosuka attraverso gli occhi di un diciottenne alle prese con una realtà più grande di lui. La gestione del tempo modella, allora, il lato interpretativo di Shenmue.

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Ci alziamo, ci rivolgiamo allo studente del dojo, Masayuki, scambiando qualche opinione sugli avvenimenti del giorno prima, controlliamo la stanza di nostro padre per trovare qualche indizio (magari innescando un filmato segreto); poi ci incamminiamo, non prima però di aver fatto un colpo di telefono a Nozomi per vedere come sta; proviamo a fare qualche domanda sugli ultimi avvenimenti ai cittadini che incontriamo lungo la strada (ognuno avrà qualcosa di unico da dire, coerentemente con gli ultimi sviluppi di trama), andiamo al parco dove per caso si attiva il trigger di un evento; ma sono già le 12:00, un paio d’ore alle macchinette e alla sala giochi non ce le leva nessuno; ma ieri abbiamo trovato una strana pergamena in casa, scritta in cinese… mmmh, forse il venditore di chincaglie antiche saprà qualcosa; oh, uno spiazzo per allenarsi, perché non approfondire le nostre tecniche? Ma ehi, manca poco all’ora pattuita, è il caso di incamminarsi! Ah sì, il vecchio venditore di antiquariato aveva effettivamente qualcosa da raccontarci su quelle pergamene…

Non si tratta di perdere tempo o compiere attività collaterali alla trama (come potrebbe dirsi, ad esempio, per un gioco della serie Yakuza); si tratta di scendere fra le strade di Yokosuka, la quale racconta una propria storia, diversa da quella di Ryo, frammentatasi nelle singolari esperienze dei cittadini che la compongono. Una storia che spetta al giocatore scoprire, un tassello alla volta, attraverso iniziative a cui Shenmue non obbliga ma che incentiva. Esistenze che si consumano nel tempo, lì fuori e che tocca a noi intercettare.

L’organicità di Shenmue

Più volte, durante la mia partita, mi sono sorpreso della spontaneità con cui il mondo di Yokosuka si adeguasse ai miei tentativi. Alcune volte, compiendo azioni che ritenevo fossero indispensabili per portare avanti la storia, mi sono ritrovato a svolgere attività collaterali che in qualche modo ampliavano il lore e mi permettevano di racimolare esperienze del tutto opzionali; altre volte, imbeccato da qualche intuizione che pensavo sarebbe stata infruttuosa o non assecondata dal gioco, mi ritrovavo ad “aprire” sezioni della “trama principale”, dunque indispensabili, senza che in nessun modo il gioco mi avesse guidato a farlo.

Ancora una volta è proprio il tempo a spingere il giocatore a fare uso della sua intraprendenza; ancora una volta, a ogni azione Shenmue contrappone una reazione.

Altra evidenza della centralità del tempo in Shenmue (nonché delizioso segreto): facendo passare troppi giorni senza concludere il gioco, allo scoccare del dì fatale, avremo un bad ending con tanto di game over.

La forza della narrazione imbastita da Yu Suzuki non poggia, allora, sulla tipologia dei risvolti o sulla complessità dell’intreccio — in realtà caratterizzato dal ripetersi di un medesimo schema — quanto sulla libertà accordata al giocatore sul come innescare i diversi step che compongono la vicenda. Impersonare Ryo nella sua indagine restituisce una sensazione di indipendenza, rinvigorita dal realismo del mondo in cui si applica, tale da convincere il giocatore che ogni suo tentativo potrebbe sortire effetto. Tutto ciò è alla base dell’organicità che caratterizza il rapporto fra le azioni del nostro avatar e la realtà che lo circonda; rapporto che mai appare artificiale o indotto (scriptato, direbbero i dotti), ma sempre scaturito dalla volontà del giocatore, dalla sua libera interpretazione delle possibilità a disposizione.

Non è importante rilevare qui che gli effettivi bivi concessi in Shenmue siano pochi, né che, andando alla radice, la libertà di cui parlo sia la maggior parte delle volte apparente: allo stesso modo in cui a rendere coinvolgente la decisione in un GDR è l’illusione della scelta più che la scelta in sé, così può dirsi di Shenmue, ove a fare la differenza è il modo con cui la storia reagisce agli apparentemente liberi proponimenti del giocatore.

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Nella mia esperienza, tutta la sezione nel dojo di famiglia è occorsa in maniera naturale, senza nessun tipo di suggerimento (fosse anche quello del diario). Pur essendo un passaggio obbligatorio della trama, la percezione è stata quello di un contenuto opzionale, guadagnato tramite una personale iniziativa e curiosità.

Per tutti questi motivi, è quanto mai fuorviante inferire una distinzione fra main e attività collaterali in Shenmue; piuttosto, ciò che viene a crearsi è un’alchimia inestricabile in cui persino attività routinarie — come il lavoro al molo della seconda parte del gioco — riescono a confluire in un indistinto, nel quale l’evento (di trama principale o meno) può avvenire in ogni momento, anche mentre sovrappensiero si sposta l’ennesima cassa in un hangar, nell’ennesima giornata di lavoro.

Ecco che allora diventa vincente la decisione di Suzuki di fare a meno delle astrazioni maggiormente d’uso nel mondo del videogioco action-adventure. La riproposizione dei gesti, la realisticità di ogni singolo movimento, l’inevitabile sequela di passaggi che contrassegna ogni azione, anche la più mondana: tutto contribuisce a calare il giocatore in una storia che è prima di tutto vita di tutti i giorni di un ragazzo di provincia, che si trova tuttavia coinvolto in eventi più grandi di lui. Irretendo il giocatore in dinamiche slice of life, il director nipponico bandisce il parossismo epico che contrassegna gran parte delle narrazioni videoludiche: è proprio negli interstizi della quotidianità che può incunearsi l’happening che spariglia le carte.

Ma è tempo di rincasare, sono quasi le 23:00. Il nostro tempo volge al termine e domani una nuova mattina nella provincia giapponese avrà inizio: un giorno come tanti, un giorno unico.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.