Come sta la Germania?

Edoardo Toniolatti
Il Segnale
Published in
7 min readMay 6, 2017

I numeri, le storie e le sensazioni che decideranno il voto di settembre

In queste settimane dominate dal secondo turno delle Presidenziail francesi, l’altro grande argomento di discussione sono i primi cento giorni di Donald Trump alla Casa Bianca — ricorrenza che ne ha fatta passare in secondo piano un’altra, per certi versi analoga: i primi cento giorni dall’inizio dell’era di Martin Schulz nella SPD. Sono passati infatti poco più di tre mesi da quel 24 gennaio in cui Sigmar Gabriel si è fatto da parte, spianando la strada verso la candidatura dell’ex Presidente del Parlamento Europeo.

Tre mesi iniziati alla grande: entusiasmo alle stelle, sondaggi pazzeschi, una hype incontenibile e uno Schulz-Zug (“treno Schulz”) lanciato a bomba contro il probabile quarto mandato di Angela Merkel.

Ora le cose paiono decisamente ridimensionate. La battuta d’arresto del voto in Saarland, le interminabili discussioni sulle coalizioni possibili, il timore nell’elettorato di uno slittamento eccessivo a sinistra, le prime inversioni di tendenza nelle previsioni di voto — tutti elementi che modificano in certa misura il quadro che ci toccherà osservare da qui a settembre.

Una cosa, però, Schulz è certamente riuscito a farla: impostare le linee generali della sua campagna, identificare un tema riconoscibile intorno a cui costruire il suo messaggio, e sfruttare il momentum di picco della sua forza per portarlo dalla periferia al centro del dibattito politico. Altrimenti detto, Schulz ha capitalizzato la spinta che aveva per dettare i termini dell’agenda politica: e ha deciso che, in questo momento, al cuore dell’agenda politica c’è la questione sociale.

La missione, dunque, è ascoltare le paure e le preoccupazioni di chi si sente più esposto agli effetti della crisi, di chi si vede a rischio povertà; d’altra parte, come recita l’onnipresente slogan che accompagna il fresco capo del partito in ogni sua apparizione pubblica, “è tempo per più giustizia. È tempo per Martin Schulz.”

È probabile che assisteremo a una nuova contro-inversione di tendenza nei sondaggi dopo il voto in Renania Settentrionale-Vestfalia, dove la candidata e Governatrice SPD uscente, Hannelore Kraft, è in vantaggio di una decina di punti percentuali; ed è quindi realistico che Schulz recuperi un po’ di quello slancio che ha caratterizzato la prima fase della campagna, quella immediatamente successiva alla sua nomina. Uno slancio che lo ha messo al centro dello scenario politico, e con cui è riuscito a costringere gli altri attori a prendere posizione in relazione a ciò che dice lui — che è poi ciò che succede quando, per abilità, caso o fortuna, sei riuscito a diventare il perno intorno a cui gira il sistema. È dopo che Schulz ha proposto di correggere l’Agenda 2010 che Angela Merkel si è trovata a doverla difendere, e anzi a proporne un prolungamento nell’Agenda 2025; è dopo che Schulz ha evocato “le persone normali che lavorano duramente” come sua preoccupazione principale che la Linke ha iniziato a sentirsi pressata da sinistra, e ha dovuto cominciare a rispondere seriamente alle domande dei cronisti su una possibile coalizione di governo. Una settimana di pazienza — in Renania si vota il 14 — e vedremo se e quanto di quello slancio tornerà.

Proprio nei giorni in cui Schulz la impostava come suo tema principale — anzi, forse proprio per quello — la questione sociale è però diventata protagonista di una serie di articoli e reportage apparsi sui media tedeschi, con l’obiettivo di trovare una risposta sufficientemente esaustiva a una delle domande da cui, probabilmente, dipenderà l’esito del voto di settembre: ma come stanno, veramente, i tedeschi?

Certo è che i soldi ci sono: le casse pubbliche non sono mai state così piene.

I dati diffusi a fine febbraio confermano che nel 2016 la crescita economica ha consentito di registrare un surplus positivo superiore ai 23 miliardi di euro, bilancio più alto mai registrato dai tempi della riunificazione.

E anche il lavoro c’è: un lungo articolo uscito a fine febbraio sulla Zeit mostra in maniera piuttosto evidente come il trend verso l’aumento della precarietà si sia arrestato da una decina d’anni, e anzi sia cresciuto stabilmente il numero di “contratti tipici”, a tempo indeterminato e con tutte le garanzie e tutele del caso. La disoccupazione è ai minimi storici: la quota di chi ha una formazione professionale ed è senza lavoro è al 4,6%, la più bassa dai tempi della riunificazione, mentre quella dei diplomati è addirittura scesa al 2,4%. Di rado la paura di non trovare un impiego è stata più infondata di adesso.

Il grafico sul “boom del lavoro normale” apparso sulla Zeit

I magazine Spiegel e Stern, però, hanno pubblicato — a un paio di settimane di distanza l’uno dall’altro — due reportage che problematizzano un po’ questo quadro così roseo, andando a cercare cosa c’è dietro e quali sono i costi nascosti della German Jobwunder.

È vero infatti che non ci sono mai stati così tanti posti di lavoro disponibili come oggi, è vero che il tasso di disoccupazione giovanile è il più basso d’Europa, ma un quinto degli occupati lavora per meno di dieci euro all’ora, in molti casi meno di 36 o 40 ore alla settimana (il “tempo pieno”), e quindi guadagna solo due terzi del reddito lordo medio. E per rappresentare meglio anche visivamente queste tendenze contrapposte, lo Spiegel è uscito in doppia edizione con due copertine diverse, una dorata e una nera, a simboleggiare il fatto che le cose vanno bene come praticamente mai nella storia ma anche, e allo stesso tempo, peggio di quanto uno potrebbe aspettarsi. Come titola il lungo reportage con cui si apre il settimanale, siamo di fronte a una geteilte Republik, una repubblica divisa. Un Paese in cui, dicono i ricercatori, la quota degli abitanti a rischio di povertà è aumentata dall’11% degli anni Novanta all’attuale 16%: giovani, soprattutto, che lavorano sì, ma spesso con contratti atipici, che offrono meno soldi e minori garanzie.

Le due copertine dello Spiegel: “Ai tedeschi va bene” (copertina dorata), “Ai tedeschi va male” (copertina nera)

Lo Stern, invece, dedica un lungo servizio alla hart arbeitende Mitte, la classe media che lavora duro e pur trovandosi a viaggiare sulla locomotiva d’Europa non se ne sente parte, non se ne sente inclusa.

Circa 40 milioni di persone fanno parte della classe media, secondo l’Institut der deutschen Wirtschaft (Istituto dell’Economia Tedesca) che ha sede a Colonia: e come ovvio, il parametro principale per la definizione sono i soldi.

Il reddito medio mensile per una famiglia tedesca, calcolato nel 2014, è di 3218 euro netti. Per un single si parla di 1758 euro, per una coppia con due figli di 3690 euro: dunque, secondo l’IW per far parte della classe media chi vive da solo deve guadagnare fra 1410 e 2640 euro al mese, la coppia con due figli invece fra 2950 e 5540. Cifre che, se paragonate a quelle di altri Paesi europei, dipingono una nazione decisamente in salute, e invece ecco la sorpresa: la sensazione diffusa, nella classe media, che si stesse meglio prima. Che nei prossimi anni andrà sempre peggio, e che le disuguaglianze aumenteranno — come pensa il 49% della classe media, dice un sondaggio commissionato dal settimanale all’istituto demoscopico Forsa. Il timore che la pensione non basterà, e sarà necessario cercarsi un lavoro pure quando si sarà vecchi, che ad esempio attanaglia Karin, parrucchiera; o la delusione di André, dirigente di un’agenzia interinale, che con la sua compagna riesce a metter da parte solo 400 euro al mese, e quando va bene.

Soprattutto, il 60% di chi si riconosce nella classe media ritiene che i suoi bisogni e le sue preoccupazioni siano stati completamente persi di vista dalla politica, che non se ne interessa più: e parliamo pur sempre di quasi 22 milioni di persone. Un oceano di gente che dati alla mano sta bene, eppure guarda al futuro con ansia crescente. Un paradosso.

La copertina dello Stern

È difficile, in questo scenario, non ripensare a Gerhard Schröder e all’onda riformista che condusse all’Agenda 2010: come allora, anche oggi sarà decisivo riuscire ad intercettare la voce che sale dalla neue Mitte, il “nuovo centro” che compariva nel titolo tedesco del manifesto programmatico della “terza via” (con in calce, oltre a quella del Cancelliere della SPD, anche la firma di Tony Blair).

Come allora, si tratta di un “centro” sociale ed economico, non politico; e come allora è nuovo, ha bisogni e preoccupazioni che le leadership politiche stanno ancora cercando di scoprire e di interpretare. È la nuova classe media, che — come suggerisce lo Stern — deciderà le elezioni: e lo farà, forse per la prima volta in modo così marcato, non solo e non tanto in base alla propria situazione materiale, ma soprattutto a partire dalla percezione che ne ha.

In fondo, abbiamo visto che, se c’è un periodo storico in cui i dati dovrebbero garantire ai tedeschi una granitica sicurezza sulla stabilità del proprio futuro, è proprio questo; eppure, è anche quello in cui maggiore è l’incertezza, maggiore la paura che arrivi il giorno in cui non si è più in grado di farcela.

Nello scarto apparentemente paradossale fra queste due facce della medaglia, fra numeri e sensazioni, si giocherà la partita decisiva delle elezioni di settembre. Ne uscirà vincitore chi dimostrerà di saper maneggiare quello scarto con più abilità e sapienza: perché per una volta, nell’autunno tedesco, accanto al vecchio adagio sempre valido bisognerà forse coniarne uno nuovo. Certo che It’s the economy, stupid!, ma stavolta also your perception of it.

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