Il seme e la pianta
Pensieri raccolti e sparsi dopo 5 settimane brasiliane.
I primi giorni ho ricevuto tanti abbracci, altrettanti pugni. Di quelli allo stomaco, hai presente?, quando il respiro perde un battito e in cambio rimane un brivido. E anche voglia di piangere, sì; e poca di pensare.
Voglio essere come un terreno arato, dicevo. A volte la vita prende in parola.
Subito arrivano le spaccature, le crepe sulla scorza; prima era dura (devo pur sempre tenere una certa distanza, mettere al riparo il cuore). Scivolano i giorni, la vita spesa insieme ammorbidisce la crosta: un pasto condiviso, mangiato al volo, con le mani; una sfida tra le baracche, scalzi e col pallone sgonfio; salutarsi con un a domani!.
E tutto fluisce; si sciolgono le lingue, gli sguardi (l’altolà).
Inizio a percepire ogni momento — piccolo, quasi insignificante — come una lezione precisa e profonda, un pezzo che trova il suo spazio giusto in mezzo alla baraonda che mi agita, che mi anima.
Ogni tanto, poi, il cuore è così gonfio che sfiata un poco — quanto basta — e la testa (non è più abituata) entra in gioco. E tutto questo vapore, che sbuffa e scervella, che fa? Fa condensa, elementare. Perché diventa semplice anche piangere, quando vedi il male.
Ma poi è la gioia pura, naturale, dei bambini che si rincorrono. Mi acciuffano la barba, urlano, divertìti, Como Papà Noel! Como Papà Noel!
Non porto regali, però, a volte una caramella; e loro, carini, gioiscono della mia presenza. Alle volte fa così tanto, anche solo quella.