Il microcosmo artificiale

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Des Esseintes, nell’edizione illustrata di “À rebours” (1931)

Jean Floressas des Esseintes sognava “una raffinata tebaide, un confortevole deserto, un’arca immobile e tiepida in cui rifugiarsi lontano dall’incessante diluvio dell’umana stupidità”: nauseato dalla banalità dei suoi coetanei, dai loro giudizi, dalla noia paralizzante che lo opprimeva in ogni momento della sua esistenza, non riusciva a provare alcun interesse verso la società; “odiava, con tutte le sue forze, le nuove generazioni, queste schiere di orribili cafoni che provano il bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano sui marciapiedi senza giustificarsi”; si rifugiò così, come un eremita, in una villa nella campagna parigina, immergendosi nell’oceano dei ricordi, abbandonandosi alla corrente dei pensieri partoriti dalla sua mente inquieta.

Le Comte Robert de Montesquiou-Fézensac — Portrait original monochrome. http://delius-dessinateur.blogspot.it

Fu il conte Robert de Montesquiou-Fézensac, nobile discendente di una delle più illustri famiglie di Francia, esteta ed asceta decadente dalla proverbiale insolenza, ad ispirare Huysmans che, con il gusto provocatorio della contrapposizione esagerata, sottolineava per tramite del sensibile e raffinato duca des Esseintes, l’estraneità del proprio sentire alla temperie della fine del XIX secolo, la propria repulsione per i valori degradanti della nascente società industriale, la necessità di rispondervi affinando il gusto estetico, ricorrendo alla sofisticazione dell’intelletto, all’artificio, “segno distintivo del genio umano”, autosuggestionando la mente al punto di ricreare illusoriamente la vita esterna, fino a “sostituire il sogno della realtà alla realtà” stessa.

La stanza da pranzo di des Esseintes ha l’aspetto della cabina di una nave, con il soffitto a volta composto di travi a semicerchio, il pavimento d’abete, bussole, compassi, binocoli, canne da pesca, una finestrella a oblò, un enorme acquario con meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, che si impigliavano talvolta nelle erbe finte. Così egli, senza muovere un passo e senza fatica, “si procurava rapidamente, quasi istantaneamente, le sensazioni di una lunga traversata”; “muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti”.

La ricerca di protezione attraverso la costruzione di un microcosmo artificiale volta alla creazione di uno scibile nuovo ed alternativo alla “vita reale” è il tema principale di Κυνόδοντας (kynodontas, dente canino), opera seconda del regista greco Yorgos Lanthimos, vincitore nel 2009 della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes, trionfatore al Montreal Festival of New Cinema, Cavallo di Bronzo a Stoccolma, Golden Hook al Festival of Mediterranean Film di Spalato.

Una scena del film.

In una grande villa immersa nel verde, con un’ampia piscina, pareti bianche e siepi altissime, vivono come reclusi tre ragazzi, un maschio e due femmine, senza nome né età dichiarata (all’incirca ventenni), figli di una coppia attempata, che ha deciso di riservare loro una vita completamente isolata dal mondo esterno.

La condizione in cui i genitori-educatori allevano i figli è paradossale; nella completa arbitrarietà, tutto si muove su confini sottilissimi tra tortura e sogno, in una dimensione assieme fatata e sconcertante: essi si occupano dell’istruzione dei ragazzi, del loro tempo libero, facendo sì che il timore verso l’esterno cresca di pari passo con la dipendenza dalla loro protezione.
Il padre, direttore di fabbrica, è l’unico a poter uscire dalla dimora. Fatta eccezione per un telefono ben nascosto nella stanza dei genitori, non esistono modi per comunicare con l’esterno.

I giovani non conoscono altro modo di vivere, si muovono e parlano come eterni fanciulli, il loro annientamento è completo; persino il lessico è mediato: i ragazzi apprendono nuovi vocaboli ascoltando delle audiocassette. Accade così che il mare sia una poltrona in cuoio con braccioli di legno, che l’“autostrada” sia un vento molto forte e l’escursione un materiale molto duro utilizzato per fabbricare i pavimenti. E che, se a tavola viene chiesto di passare il telefono, con educazione e diligenza uno dei figli porgerà il sale.

Ogni forma di comunicazione che non sia ritenuta appropriata, ovverosia tutto ciò che non attenga strettamente alla vita di famiglia e all’ambiente in cui i ragazzi vivono, viene demolita: sarà possibile essere autonomi e varcare il cancello di casa soltanto quando cadrà loro un dente canino (kynodontas): ovviamente questo equivale al mai.
I giovani, prigionieri in un eden sinistro dove splende sempre il sole, sono mantenuti in uno stato di ingenuità e regresso, in un’infanzia prolungata e, a prima vista, sembrano non rendersi conto della situazione in cui vivono; ma il malessere inconscio, l’aggressività, si insinuano attraverso piccoli comportamenti devianti rispetto all’ordine prestabilito del cosmo famigliare.

Per definizione, non esiste un “dentro” senza un “fuori”: il mondo esterno è descritto come un coacervo di pericoli mortali; da fuori arriva soltanto Christina, una collega del padre alla quale viene affidato il compito di soddisfare meccanicamente i bisogni sessuali del figlio maschio: sarà proprio questa donna ad introdurre involontariamente la contaminazione nell’ambiente asettico creato all’interno della villa, spingendo la figlia maggiore ad un gesto estremo dovuto alla consapevolezza dell’inganno subito ed all’urgenza della conoscenza di ciò che le era stato negato.

C’è un limite oltre il quale l’oppressione non è più tollerabile: la ragazza capisce che il suo canino non cadrà, lo devasta con le proprie mani e si rifugia nel bagagliaio della macchina di suo padre. Il mattino dopo l’uomo, come ogni giorno, si reca in fabbrica, parcheggia l’auto di fronte all’edificio e scompare al suo interno. Il piano seguente è un close up sul bagagliaio: lo spettatore attende che lo sportello si apra e che la ragazza finalmente conquisti la sua libertà. Cut. Il film termina qui.

Alcuni fatti di cronaca hanno messo in luce drammaticamente la volontà prevaricatrice di alcuni spietati aguzzini: è il caso di Wolfgang Priklopil, che in Austria nel 1998 rapì la piccola Natascha Kampusch, di dieci anni, tenendola prigioniera per più di otto anni in uno scantinato; o di Joseph Fritzl che nel 1984 rinchiuse la figlia, all’epoca diciannovenne, in un appartamento sotterraneo, per ventiquattro anni, violentandola ripetutamente e facendole partorire sette figli durante la prigionia.

Dietro a Kynodontas non ci sono fatti di cronaca, non c’è la volontà di denunciare un particolare aggressore, ma si nasconde una visione impietosa della società, una parabola agghiacciante sul modo in cui un leader — a qualsiasi livello — possa arrivare ad alterare la percezione di un gruppo sulla realtà, alimentandola di menzogne, erigendo muri, confondendo la manipolazione con l’idea di protezione.

La distorsione sistematica del significato delle cose, la censura, la privazione delle libertà fondamentali, il dominio dell’assurdo, sono ben nascosti dall’apparenza di un quotidiano ordinato ed armonico, perché (e questo è il tratto più insidioso) tutto è condotto in nome del nostro bene.
I regimi totalitari, le religioni, i sistemi economici, con le loro regole, imposizioni sociali, costruzioni mentali, attribuiscono significati arbitrari ad avvenimenti e situazioni, appropriandosi della mente, annichilendo progressivamente la persona, relegandola a fanciulla eterna, da indirizzare, limitare, addestrare, oscurando le visioni “altre” della realtà.

La storia delle brutalità evocate dal termine totalitarismo indurrebbe a non utilizzarlo in senso metaforico drammatizzante, eppure vi è qualcosa di preoccupante nell’attuale società dei consumi, non totalitaria, ma totalizzante.

“Il termine totalitario non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una riorganizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti (…). Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”, ecc.” — H. Marcuse —

Le facoltà dell’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse sono ristrette, uniformate, appiattite ad opera di un potere repressivo che condiziona, incanala e riduce il pensiero, il comportamento, la cultura, la sessualità, il linguaggio nella monodimensionalità.
Gli uomini, che dovrebbero essere capaci di distinguere i veri dai falsi bisogni, finiscono per manifestare le stesse esigenze imposte da una società effettivamente efficiente, che propone livelli di vita elevati; quest’ultima si impegna a recuperare ed assorbire ogni dimensione culturale e artistica ancora in essa non integrata: è la cosiddetta sublimazione repressiva. “Personaggi in un certo senso sovversivi come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l’idiota” non scompaiono, ma vengono trasformati in “donna fatale, eroe nazionale, beatnik, casalinga nevrotica, gangster, stella del cinema, capo d’industria carismatico”, non costituendo più immagini di un modo di vita alternativo, ma ibridi integrati e funzionali all’ordine costituito.

Quello che ne risulta è un’atrofizzazione delle condizioni mentali necessarie per afferrare le contraddizioni e per proporre una trasformazione qualitativa, un’opposizione: la coscienza felice va a prevalere. La ragione si identifica con la realtà: ogni dissenso dall’ordine costituito è considerato un disturbo nevrotico.

Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. Non è l’ambito delle scelte aperte all’individuo il fattore decisivo nel determinare il grado della libertà umana, ma che cosa può essere scelto e che cosa è scelto dall’individuo (…). La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali su una vita di fatica e di paura — se, cioè, alimentano l’alienazione.

Questo richiama la lunga digressione di Dostoevskij sulla leggenda del Grande Inquisitore, ne I fratelli Karamazov.
L’espediente retorico utilizzato da Dostoevskij per discutere il tema della dialettica tra libertà e soggezione vede Iván Karamazov — ateo, cinico, sagace, profondamente convinto come gli esistenzialisti del secolo successivo dell’assurdità del mondo, ribelle ad un Dio che permette l’assurdo, che tollera le crudeltà mostruose di cui l’uomo è capace di macchiarsi — narrare questa leggenda al fratello minore Alëša: Cristo, tornato a manifestarsi sulla terra nella Spagna del XVI secolo, dominata dai roghi e dalle persecuzioni condotte in suo nome dalla Santa Inquisizione, viene imprigionato dal Grande Inquisitore, che lo interroga a lungo conducendo un monologo sul problema del valore della libertà umana.

Tu vuoi andare nel mondo, e ci vai con le mani vuote, con non so quale promessa di libertà che quelli, nella loro semplicità e nella loro ingenita sregolatezza, non possono neppur concepire, e ne hanno timore e spavento — giacchè nulla mai fu per l’uomo e per la società umana più insopportabile della libertà!”

L’Inquisitore sostiene che l’uomo abbia paura della scelta e che, impossibilitato a scegliere tra Bene e Male, egli preferisca affidarsi a chi soddisfa i suoi bisogni materiali e lo sottomette con l’autorità, ovverosia all’Inquisitore stesso.
Pur nella convinzione che la libertà per l’uomo sia un dono inutile e terribile, l’Inquisitore non esita ad assumersene la responsabilità, per tutti: nella volontà di eliminarla, in realtà concentra nelle sue mani una spaventosa libertà, ed anche se tutti fossero ridotti all’acquiescenza rispetto al suo sistema, lui stesso non sarebbe liberato dalla libertà, ma verrebbe schiacciato dalla sua oppressione.

Cristo rimane in silenzio fino al termine del monologo e bacia l’Inquisitore che, profondamente commosso gli apre le porte della prigione, ordinandogli di allontanarsi e di non farsi vedere più, persistendo però nella volontà di conservare su di sé il peso del grande inganno “a beneficio” degli uomini; così anche Alëša bacia il fratello miscredente, mostrandogli compassione ed amore, non cedendo alla sua provocazione.

Il Grande Inquisitore ha l’ambizioso progetto, pretestuoso ed ingannevolmente compassionevole, di ripetere la creazione divina in modo più adeguato alle esigenze dell’uomo medio, che ha fame e sete non di verità, ma di stabilità, sicurezza, di certezze.

Gli daremo una queta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono. Oh, noi li persuaderemo, alla fine, a non essere orgogliosi, giacché Tu li hai sollevati in alto, e così hai insegnato loro a inorgoglirsi: dimostreremo loro che son deboli, che non son altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca è la più soave di tutte. Essi si faranno timidi e s’avvezzeranno a girar gli occhi a noi e a stringersi a noi tutti spaventati, come pulcini alla chioccia. Ad ogni movimento che faranno, proveranno un terrore di noi e insieme un orgoglio della potenza e dell’intelligenza nostre, tanto grandi da aver saputo ammansire un così indocile gregge di migliaia di milioni. Una pusillanime trepidazione dell’ira nostra s’impadronirà di loro, le loro intelligenze s’intimidiranno, i loro occhi diverranno facili alle lacrime, come quelli dei bambini e delle donne: ma con altrettanta facilità, a un nostro cenno, passeranno all’allegria e al riso, alla più limpida gioia, e alle beate canzoncine infantili. Sì, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita un assetto come di giuoco infantile, con canzoni da bambini, cori e danze innocenti. Oh, noi permetteremo loro anche il peccato: sono così fragili e impotenti; e loro ci vorranno bene come bambini, per il fatto che noi permetteremo loro di peccare”.

Il popolo è un bambino, docile, sottomesso, che vuole avere e non essere; siamo di fronte ad un’umanità debole, vile, paurosa, viziosa, abbietta, incapace di vivere assieme agli altri uomini senza una figura da adorare, a cui inchinarsi ed obbedire.

Francisco de Goya, Saturno devorando a un hijo (1819–1823), Museo del Prado, Madrid.

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Bibliografia
J.K. Huysmans, Controcorrente, trad. Fabrizio Ascari, Milano, Mondadori, 2009.
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione: l’ideologia della società industriale avanzata, 7^ ed., Torino, Einaudi, 1968.
F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. A. Villa, Torino, Einaudi, 2005.

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Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.