La struttura familiare giapponese e il concetto di Amae.

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La famiglia del soggetto hikikomori è generalmente normocostituita, senza separazioni, divorzi o altre problematiche interne.
In paesi come la Corea ed il Giappone,

il fatto che un giovane viva con la famiglia fino anche all’età di 30–35 anni non rappresenta un valore negativo né di immaturità, ma un senso di devozione filiale.

Si può trovare una spiegazione a questo fatto nella cultura confuciana, che sostiene l’amore filiale e l’attaccamento alla famiglia ma, innanzitutto, profondo e radicato è il concetto di amae, sostantivo del verbo ameru, che significa “dipendere da”.

È stato soprattutto lo psicoanalista giapponese Takeo Doi (1920– 2009) a descrivere l’idea di amae. Nel suo libro Anatomia della dipendenza, pubblicato per la prima volta nel 1971, egli afferma che questa nozione non è una prerogativa esclusivamente giapponese, ma che i giapponesi sono l’unico popolo a possedere un ampio vocabolario che lo descriva a fondo.
L’amae è espressa dal rapporto tra la madre ed il bambino, che si consolida nei primi mesi di vita del neonato; tale rapporto implica che madre e bambino costituiscano un tutt’uno. È un’emozione che il lattante esperisce quando comincia a differenziare sé stesso dal corpo della madre, ma allo stesso tempo sente la sua vicinanza come indispensabile per la sua sopravvivenza. Questa dipendenza viene alimentata nel corso della crescita; se per l’occidentale è buona norma abituare, ad esempio, il bambino a dormire nella propria cameretta, in Giappone questo è ritenuto quasi crudele: esiste la camera dei bambini, ma fino all’età di circa dieci anni viene usata per lo studio ed i giochi e la notte si dorme tutti assieme nella camera dei genitori.

L’educazione è permissiva, indulgente, tollerante, il comportamento materno è di completa dedizione ed iperprotettivo; il bambino, crescendo, assorbirà la consapevolezza della bontà della madre, del suo sacrificio, maturando un sentimento di obbligo nei suoi confronti, che successivamente verrà trasferito in ogni relazione sociale.

La famiglia giapponese è caratterizzata da una madre psicologicamente e fisicamente presente e vicina e da un padre assente, sempre al lavoro, con un ruolo piuttosto marginale. Si trovano conferme anche dal punto di vista religioso: al pari di quanto le religioni giudeo-cristiane sono basate molto sulla figura del padre, il buddismo e lo scintoismo lo sono sulla madre.

Questo aspetto della vacanza del padre tocca molto da vicino anche l’occidente. Durante le guerre mondiali la massa degli uomini europei è rimasta a lungo lontana per combattere. Già nel secolo precedente, durante le guerre d’indipendenza, era accaduto che la vita familiare e sociale fosse stata retta dalle madri, mettendo fine al particolare rapporto padre-figlio durato dalla bottega medievale alla piccola impresa ottocentesca. Fino ad arrivare ai giorni d’oggi in cui molti parlano di una “società senza padri”, formulazione provocatoria ma indicatrice di una tendenza attuale: sono moltissime le famiglie monoparentali derivanti da separazioni e divorzi, o i figli di ragazza-madre per abbandono o scelta programmatica, per non contare le famiglie in cui la presenza del padre c’è, ma è soltanto simbolica, scenografica.

In Giappone la moglie assolve tutti i compiti: dalla gestione della casa e, naturalmente, dei figli, a quella delle finanze trasferite integralmente dal marito che, quando è presente, diventa spesso un estraneo ingombrante, arrivando anche a paradossi come quello dell’individuazione della RHS, Retired Husband Syndrome, che affliggerebbe le mogli di uomini andati in pensione che non riescono ad accettare la presenza quotidiana del marito in pensione, poiché durante la sua assenza durata per molti anni, hanno sviluppato uno stile di vita che viene completamente scardinato al momento del ritorno della figura maschile.

Questo legame tra genitore e figlio è talmente implicito da diventare criterio di giudizio di tutti gli altri vincoli interni alla società giapponese.

I giapponesi abitano contemporaneamente tre mondi della dipendenza:
* il regno genitore-figlio pervaso dall’amae;
* il luogo di lavoro, in cui la dipendenza è un elemento implicito del contratto sociale;
* il mondo degli estranei, dove la dipendenza reciproca non esiste.

La madre appartiene al mondo dell’uchi, del dentro: la simbiosi, l’empatia, l’intima complicità, l’armonia che va a crearsi tra madre e figlio, dovrà essere trasferita soto, fuori, nelle relazioni esterne, in una forma diversa, che manterrà sempre una salda forma di riserbo, chiamato enryo. È come se ci si attenesse a un doppio registro psichico: uno per l’interno e uno per l’esterno.

L’assenza del padre è fisica, ma la figura patriarcale che egli rappresenta è sempre ben presente, forte, invadente: è attorno ad essa che si creano le aspettative nei confronti del figlio, che dovrà portare sempre il padre come esempio, specialmente se primogenito e maschio, futuro capofamiglia della generazione successiva. Quando i genitori saranno anziani e deboli, a lui spetterà il compito di aiutarli ed assisterli: le due generazioni possono scegliere di vivere separatamente quando sono giovani ed in salute, ma i loro legami emotivi di lealtà, dovere e dipendenza rimarranno fortissimi per tutto il ciclo della vita.

È dagli anni ’60 in poi, quando l’economia giapponese cominciò a crescere e la generazione postbellica andò a vivere nelle nuove città-dormitorio ricostruite dopo i massicci bombardamenti americani, nuclei urbani ad altissima densità di popolazione, che la tradizionale famiglia allargata consanguinea giapponese (sistema dello ie 家, o del lignaggio) si è trasformata, disgregata ed i padri hanno lasciato le case per dedicarsi completamente al lavoro.
Le famiglie moderne tendono a essere di tipo nucleare, con sempre meno bambini rispetto al passato (il tasso di natalità si è abbassato fino a 1,3 figli per donna).

Lo ie era molto più di un semplice nucleo che abitava insieme: tendeva ad assomigliare a una vasta corporazione tribale largamente ramificata, a un clan, regolava i matrimoni ed i mestieri. Il crollo progressivo del concetto di ie ha portato a proiettarlo sulla vita aziendale: questo spiega l’attuale devozione servile di molti giapponesi per la propria azienda, prima che per la propria famiglia.

Il successo economico è divenuto la priorità assoluta per gli uomini, tanto che la mascolinità, la virilità stessa in Giappone è intesa come la capacità di essere uomini forti, calmi, concentrati sul proprio lavoro, con un controllo costante sui propri sentimenti, fino all’alessitimia.

I padri giapponesi attuali sono i salaryman illustrati nel brevissimo cortometraggio 走れ! “RUN!” (2003), uomini d’affari “sposati” alla ditta per la quale lavorano, che dormono sei ore a notte e recuperano il sonno perso durante il tragitto di andata e ritorno dal lavoro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la posizione di salaryman era vista come stabile, capace di assicurare una condizione sociale ambita e rispettabile. Nell’accezione moderna l’espressione si associa a lunghi orari lavorativi, basso prestigio nelle gerarchie aziendali e assenza di significative fonti di entrata al di fuori del reddito fisso, schiavitù salariale e karōshi 過労死, morte per eccesso di lavoro.

Potrebbe essere plausibile pensare che i ragazzi che entrano in hikikomori si rifugino anch’essi in un mondo senza emozioni esattamente come i padri rinchiusi nella loro alienazione, ma c’è una diversità sostanziale […]: quei giovani — contrariamente ai loro padri — stanno probabilmente cercando di ritrovare quel mondo perduto di emozioni, stanno forse tentando di ascoltare, quel corpo saggio che è di sua natura sovversivo e lo vuole intenzionalmente dimostrare, producendo sintomi ribelli (Sheper-Hughes, 2000).

La maggioranza dei ragazzi hikikomori, comunque, trova terribilmente complicato percorrere la spaccatura tra le emozioni autentiche e l’artificio sociale che il “mondo reale” che li circonda esige.
Secondo Saitō, la stretta relazione amae intrecciata tra madre e figlio non fa altro che acuire le ansie dell’esule sociale e lo pone in una specie di perverso circolo vizioso.

Hisako Watanabe, psichiatra infantile al Centro medico dell’Università Keio a Tokyo, afferma:

Non è nel ragazzo hikikomori che risiede la maggior parte dei problemi. È nell’infelicità delle madri.

La dottoressa ritiene che le radici del disturbo possano essere rintracciate nella tensione intergenerazionale e negli adulti, la cui infanzia è stata traumaticamente sconvolta dall’esperienza della sconfitta del 1945.

Oggi, invece della Guerra del Pacifico, è la guerra economica che cerchiamo di non perdere.

Per una nuova generazione di giovani giapponesi che non hanno mai conosciuto la guerra, il trauma viene riprodotto attraverso ciò che la Watanabe descrive come trasmissione trans generazionale dell’oppressione, soprattutto nelle famiglie di livello elevato.

Queste hanno sacrificato completamente la felicità dei figli e hanno fatto di loro il proprio sacrificio agli dei per il Giappone, un dio di nome Giappone.

I genitori dei ragazzi hikikomori sono confusi, ansiosi, incapaci di comprendere o di affrontare il comportamento dei figli reclusi, e ciò che è più importante e sconvolgente è la loro solitudine di fronte a questo problema. Trovare aiuto nella comunità, dove i vicini non si rivolgono nemmeno la parola, sembra impossibile. Nei distretti rurali quasi disabitati, dove al contrario tutti sembrano conoscere tutti, è raro che un segreto non venga scoperto: essere visti mentre si esce da una clinica o da uno studio medico può scatenare voci e pettegolezzi ignominiosi.
La paura di essere scoperti avvolge tutto in una spirale di silenzio e vergogna e spesso fa rinunciare i genitori a cercare aiuto: shikata ga nai
仕方が無い, ‘non c’è niente da fare’, è la più comune reazione alle avversità.
Gli psicoterapeuti spesso evidenziano come gli adulti siano incapaci ad esprimere sentimenti sinceri (soprattutto i padri) e siano riluttanti a parlare apertamente, in modo diretto.
La vergogna non è sempre stata vissuta come uno stato d’animo conflittuale: nel Giappone tradizionale infatti rivestiva un suo ruolo sociale, era compresa, approvata e perfino utile per rafforzare i valori della comunità.

La cultura della vergogna giapponese si contrappone a quella occidentale di matrice cristiana, indicabile come cultura del peccato. Nel primo tipo un’azione sbagliata non pesa come tale fino a che “la gente” non ne viene a conoscenza: in quel momento subentra la vergogna, che spesso veniva eliminata con il suicidio; nel secondo caso un’azione è reputata sbagliata anche se nessuno ne verrà mai a conoscenza. Si tratta di distinzioni che spesso si intersecano e lasciano spazio ad eccezioni, ma il punto è che quella giapponese è una società in cui ciò che pensa “la gente” è tutto.
Si pensi che il termine “violenza domestica” ha cominciato ad essere utilizzato dai media giapponesi sono al termine degli anni Novanta: fino ad allora la violenza tra le mura domestiche era stata nascosta dalla cultura della vergogna.

Malgrado nessuno ne parli in pubblico non è raro che i ragazzi hikikomori, isolati, arrabbiati, frustrati, picchino i genitori; nella maggior parte dei casi la madre è la vittima principale, al punto di divenire una schiava del figlio.
È una violenza traboccante di tristezza, alimentata dal senso di colpa per voler punire la famiglia ritenuta responsabile della propria condizione.

I terapeuti sostengono che nei confronti della violenza sia necessario porsi con un atteggiamento di rifiuto: punirla, ma indagare anche su cosa nasconde. Un sistema per calmarla è l’uso della cautela per non risvegliare il loro senso di inferiorità; un altro stratagemma è la preparazione di un rifugio in cui la famiglia possa fuggire quando la situazione diventa insostenibile: questo è estremamente inconsueto per la nostra visione.

Carla Ricci illustra meglio questa tecnica citando il testo di una cartella clinica che registra il caso di una madre che da dieci anni subisce violenze da parte del figlio hikikomori. Il figlio, che dopo molti anni è uscito dalla stanza, abita in una casa vicina a quella dei genitori in una situazione di hikikomori parziale: la madre vi si reca giornalmente per portargli il pranzo, ed è in quelle occasioni che il figlio le esercita violenza.
Il terapeuta decide di ricoverarla in ospedale: sarà quello il suo rifugio, nel quale potrà tranquillizzarsi; da quel momento lei si negherà al figlio anche se lui insisterà per vederla. Anche al ritorno nell’abitazione la madre non risponderà più alle telefonate del figlio e continuerà a negare la sua presenza. Partendo da questo espediente si è trovato un modo per rigettare la violenza, per non subirla, per non tollerarla. Lo stratagemma funziona: dopo 5 mesi di terapia la violenza cessa ed i rapporti tornano ad essere regolari.

Con l’intento di contribuire offrendo un sostegno, da alcuni anni sono in commercio diverse pubblicazioni; la più importante è il manuale scritto dal Professor Saitō Tamaki, il cui titolo è Come salvare i vostri figli da Hikikomori: il volume contiene tutte le risposte alle domande che i genitori rivolgono solitamente al medico durante la terapia o gli incontri famigliari, suddivisi in venti capitoli che analizzano ogni aspetto, dal modo di comunicare, alla prevenzione della violenza, alla posizione dei fratelli, al sostegno economico.
Per quanto questo testo rappresenti un importante tentativo di aiuto alle famiglie, è necessario che vengano formati specialisti, che venga sensibilizzata l’opinione pubblica, che certi modi di sentire culturalmente plasmati dalle persone si emancipino, consentendo a chi si trova di fronte a questo problema di poter contare su tutto il supporto possibile senza dover fare i conti con la vergogna.

BIBLIOGRAFIA
Andolfi M. (2001), Il padre ritrovato, Milano, Franco Angeli.
Bertoni M., Brunello G. (2014), Pappa Ante Portas: the Retired Husband Syndrome in Japan, link: http://ftp.iza.org/dp8350.pdf
Doi T. (1991), Anatomia della dipendenza: un’interpretazione del comportamento sociale dei giapponesi, Milano, Raffaello Cortina.
Ricci C. (2008), Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, Milano, Franco Angeli.
Tamaki S. (2002), Hikikomori Kyushutsu Manyuaru, Tokio, PHP.
Zielenziger M. (2008), Non voglio più vivere alla luce del sole: il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta, Roma, Elliot.

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Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.