Il microcosmo: da luogo di rifugio a luogo di prigionia.

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Alla fine degli anni ’70 in Giappone alcuni psichiatri notarono le prime manifestazioni di una particolare forma di ritiro sociale in un numero sempre crescente di giovani soggetti che abbandonavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi e che non potevano essere diagnosticati come depressi o schizofrenici.
Tali comportamenti vennero interpretati inizialmente come fobie scolastiche e lavorative adolescenziali, ritenute di matrice tipicamente giapponese.

Fu il direttore del dipartimento psichiatrico dell’Ospedale Sofukai Sasaki di Chiba, Tamaki Saitō, a coniare nel 1998 il termine ひきこもり o 引き篭り,, hikikomori, fusione delle parole hiku — ritirarsi, assicurarsi un posto sicuro — e komoru — che comunica l’idea del chiudersi, di qualcosa che è nascosto, o è sparito e conseguentemente è difficile da vedere; lo tradusse in inglese con l’espressione social withdrawal, ritiro sociale.

La parola significa “stare in disparte, isolarsi, ritirarsi, chiudersi”.

Saitō individua tutta una serie di sintomi, alcuni basilari — come il ritiro sociale, la fobia scolare ed il conseguente ritiro scolastico — alcuni secondari, che si sviluppano secondariamente rispetto al ritiro sociale, innescando un circolo vizioso che accresce la disfunzione sociale: ne sono esempi l’agorafobia oppure l’antropofobia, rilevata da Saitō con un’incidenza del 67%. Essa, se di grado elevato, porta alla manifestazione di automisofobia (la paura di sporcarsi), sintomo spesso sostituito con il trascorrere del tempo con idee di persecuzione, idee ossessive e condotte compulsive. Si associano inoltre apatia, letargia, inversione del ritmo circadiano di sonno-veglia, umore depresso, pensieri di morte, propositi di suicidio, comportamento violento contro la famiglia, in particolare verso la madre, sentimenti di autosvalutazione e colpa.

Nei casi più gravi l’hikikomori non esce dalla sua camera né per lavarsi né per alimentarsi, chiedendo che il cibo sia lasciato di fronte alla porta di accesso alla stanza, stando sveglio soltanto durante la sera per giocare con i videogiochi, navigare in rete o leggere manga.

Rifiutano la vicinanza di altre persone, si sottraggono ad ogni contatto, cercando rifugio in un universo nel quale non si corrono rischi, almeno dal punto di vista relazionale, in un ambiente protetto da contrapporre al mondo reale nel quale sentivano di essere costretti a vivere.

Il fuori (in giapponese soto) viene sentito come un luogo logorante, insopportabile; il dentro (uchi), la propria camera, tranquillizza l’animo e offre un senso di libertà impossibile da percepire altrove: qui non si prova vergogna, la rabbia è consentita, non ci si sente rifiutati.

È un tipo di comportamento che si spinge molto oltre rispetto ad altre realtà adolescenziali. Mi riferisco, oltre che alle categorie sinora analizzate, anche ai cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training), acronimo utilizzato da alcuni enti governativi come termine di classificazione per i giovani celibi che non studiano, non lavorano, non hanno specifiche competenze professionali e vivono con il sostegno della famiglia, i quali tendenzialmente amano la comunicazione, fanno uso di internet, del cellulare, trascorrono la maggior parte della giornata fuori casa assieme ad altri giovani con i quali condividono la stessa filosofia di vita, o ai Freeter (da free, libero, e Arbeiter, lavoratore), altra condizione di matrice nipponica che descrive giovani che cercano lavori piccoli lavori part-time, precari, brevi, o rimangono in famiglia come disoccupati, anch’essi amanti della comunicazione multimediale. Entrambe queste “classificazioni” hanno trovato ampio riscontro in Giappone e la tendenza dell’opinione pubblica locale è stata a lungo quella di accomunarli ai NEET ed ai Freeter, con la differenza che verso hikikomori è percepibile un sentimento maggiore di disprezzo e di disapprovazione, alimentato peraltro da tre inquietanti fatti di cronaca avvenuti tra il 1999 e il 2000, tre omicidi, eseguiti da ragazzi che si erano ritirati dalla vita pubblica prima di compiere i delitti.

Il governo centrale del Giappone è apparso a lungo come disinteressato o paralizzato di fronte a questa piaga sociale: questo ha incoraggiato una moltitudine di sedicenti esperti a prescrivere qualunque tipo di cura; in tutto il Paese sono sorti diversi centri, molti dei quali gestiti da persone prive di preparazione clinica e senza supervisione medica. Fino all’inizio del 2004 nessuna rivista specializzata aveva pubblicato ricerche sulla natura di questa malattia, né erano stati diffusi studi rigorosi condotti sul campo in merito alle cause.

Solo nel 2003, vista l’attualità e la rilevanza sociale del problema, il Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali del Giappone ha definito parametri ed individuato alcuni criteri diagnostici specifici nella definizione dello stato di hikikomori:
· ritiro completo dalla società per un minimo di sei mesi;
· presenza di rifiuto scolastico e/o lavorativo;
· al momento dell’insorgenza non sono presenti diagnosi di schizofrenia, ritardo mentale o altre patologie mediche o psichiatriche rilevanti;
· tra i soggetti con ritiro o perdita di interesse per la scuola o il lavoro sono esclusi i soggetti che continuano a mantenere relazioni sociali al di fuori della famiglia.

Il Ministero ha specificato, inoltre, che non siamo di fronte a una sindrome, ovverosia ad un quadro sintomatologico che può essere dovuto a più malattie o eziologie.

Poiché il fenomeno è tendenzialmente sottoriportato, definire un numero delle persone coinvolte è difficile: i dati ufficiali disponibili parlano di più di un milione di adolescenti e adulti giapponesi (l’1% dell’intera popolazione), di cui oltre il 90% di sesso maschile, con preponderanza di figli unici o maschi primogeniti, con un’estrazione sociale solitamente medio-alta, all’interno di contesti famigliari per lo più regolari.

Esistono anche altre fonti, come quella dell’associazione di genitori HKJ, che denunciano un numero più elevato (pari a circa 1.600.000 ragazzi). L’attendibilità di questi dati appare limitata da diversi fattori: da una parte la reticenza delle famiglie a denunciare i casi, dall’altra la scarsa conoscenza del fenomeno stesso da parte della società, delle famiglie, delle istituzioni giapponesi. Vedremo meglio in seguito per quali motivi.

L’hikikomori non può essere confuso con il soggetto schizofrenico, poiché mancano le allucinazioni, i deliri e, nonostante il rifiuto della comunicazione, è possibile cogliere ciò che desidera o quello contro cui protesta.

Questi adolescenti vivono in una condizione prevalente di disinteresse nei confronti del mondo ma non presentano sentimenti di inadeguatezza e paura delle critiche, o di disapprovazione (come nel disturbo evitante di personalità, con il quale molti medici Giapponesi tendono ad assimilare il soggetto hikikomori).

Seppure la matrice del fenomeno sia indubbiamente nipponica, esistono crescenti testimonianze sulla diffusione del comportamento in altri paesi, come Corea, Cina, Stati Uniti, Spagna.
All’Istituto Minotauro di Milano, il cui presidente è il prof. Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta, docente di Psicologia Dinamica all’Università Bicocca di Milano, si sono rivolti i genitori di decine di ragazzi. Spiega Pietropolli Charmet:

In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni ‘60-70, le nostre anoressiche.
Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri “autoreclusi” condividono con loro più di un aspetto.

Continua Antonio Piotti, psicologo e psicoterapeuta dell’Istituto:

Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori.

Chiudersi dentro una stanza, chiudere la porta a chiave con l’idea di non uscire più, costruire una barriera invalicabile, un microcosmo intoccabile che se da una parte ti imprigiona, dall’altra ti libera e ti protegge dallo sguardo dell’Altro, continua conferma dei propri insuccessi e delle proprie inadempienze: questo è quello che fanno i ragazzi hikikomori.

Quando ci si chiude dentro, la famiglia, tutto il resto, diventano fuori.

Questa chiusura effettiva può essere definita un esito della modernità in Giappone: in passato, infatti, la camera non era chiusa da porte, ma divisa da linee di confine ambigue; attraverso l’uso del tatami e di pareti leggere scorrevoli, si manteneva un senso di permeabilità.

Chiudersi a chiave è un atto forte per il Giappone, mostra un comportamento sgarbato, non del tutto comprensibile.

Fino alla Seconda Guerra Mondiale esisteva una stanza in molte case giapponesi, che si chiamava zashikiro, una camera-prigione, buia, chiusa dall’esterno, che serviva per rinchiudervi un famigliare qualora fosse ritenuto pazzo dalla famiglia stessa, per nasconderlo ed isolarlo: lì vi rimaneva senza mai uscirne, per tutta la vita.

Chiudersi dentro significa autoetichettarsi come pazzi.

Ho trovato un lavoro: guardiano del faro di un sasso chiamato “Isola dei Serpenti”, una roccia di cui sono il solo abitante e in cui vivo isolato, eremita e distante.
Ma non più di quanto lo fosse tenermi inchiodato e seduto di fronte agli schermi, parassita di vita inferiore alle attese, protesi protese e due stampelle tese per permettermi di trascinarmi ancora.
E che importa se è stato il coraggio del vuoto, o solo paura di stare nel gioco del cedere a scelte forzate e violente, o la volontà di non scegliere niente?
Che importa se in fondo il mio sabotaggio del mondo mi porta a tenermi in ostaggio?
Io ho tolto il cerone e ho perso il mio nome, la rivoluzione è cessare l’azione e imparare umiltà risalendo lo zero.
Senza torcicolli per un luogo verso cui voltarmi, senza un luogo verso cui voltarmi.
E ho smesso di farmi domande, perché non voglio sentire menzogne.
E ho smesso di essere deluso: per essere deluso bisogna averci creduto almeno una volta sola.

Marnero, L’isola dei serpenti, in Naufragio Universale 12” LP, 2010

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Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.