2-Ci vada lei per me
La cosa più divertente di tutta questa storia è che io, in Madagascar, non ci volevo neanche andare.
Era l’autunno del 2015, io e Matilde ci eravamo appena sposati e dovevamo ancora decidere dove andare in viaggio di nozze. O meglio, io avevo già deciso. Volevo andare in India. Proprio in quel periodo, ci eravamo avvicinati entrambi alla Meditazione Trascendentale, che vede la sua capitale mondiale in Rishikesh. Questa tranquilla e mistica cittadina sulle rive del Gange è frequentata da persone che la raggiungono da ogni angolo del mondo, per vivere un’esperienza all’insegna della meditazione e dello yoga in uno dei tanti ashram. Compresi i Beatles, che nel 1968 trascorsero diverso tempo all’ashram di Maharishi, il guru che contribuì a diffondere la Meditazione Trascendentale in tutto il mondo.
Insomma, mi attirava proprio un viaggio di questo tipo: qualche giorno a Rishikesh e poi su, verso l’Himalaya. Il mio sogno di sempre, fin da quando ero bambino. Anche Matilde era convinta, al punto che avevamo già iniziato a pianificare l’itinerario e a chiedere preventivi. Studiando tutto quello che potevo su questa parte dell’India, dai romanzi di Terzani e di David Roberts alle guide di viaggio, poi era successa una cosa eccezionale. Era nata nella mia testa una storia, ambientata proprio lungo quello stesso itinerario che avremmo dovuto compiere noi. Una storia che aveva a che fare con un libro misterioso e un monastero sperduto tra le vette dell’Himalaya. Ma questa, appunto, è un’altra storia che ho già raccontato.
Fatto sta che a inizio 2016 Matilde mi confessò che non se la sentiva di andare in India. La capivo: devi sentirti pronto per l’India, non la puoi approcciare con superficialità o rischi di rimanerne segnato. Io non sapevo se ero o meno pronto, però ero certo che l’India mi stava chiamando. E quindi rinunciai a malincuore a quel viaggio che da mesi sognavo e pianificavo, a quel viaggio che in un certo senso avevo già raccontato prima ancora di compierlo.
Però accettai la posizione di Matilde, anche perché in alternativa mi proponeva una meta che solo a pronunciarne il nome evoca paesaggi esotici e natura selvaggia: il Madagascar.
Immaginai di essere Chatwin, seduto in un ufficio alla cui parete era appesa la mappa dell’isola africana.
«Ho sempre desiderato andarci» annunciavo al proprietario dell’ufficio.
«Anche io. Ci vada lei per me!», mi rispondeva lui.
E io allora ci sarei andato. A una condizione: che quel viaggio avesse cambiato la mia vita, così come la Patagonia aveva cambiato quella di Chatwin.
Qualche mese dopo, nell’agosto del 2016, io e Matilde atterravamo all’aeroporto di Antananarivo, la capitale malgascia. Lì ci aspettava suo fratello Vincenzo, che viveva a Sidney da due anni e non vedevamo dal giorno del matrimonio. Ci era sembrato naturale proporgli di aggregarsi al nostro viaggio, dal momento che anche lui, come la sorella, sognava il Madagascar fin da bambino.
Del resto, quello che avevamo deciso di fare aveva pochi dei connotati tipici dei viaggi di nozze. Avremmo attraversato il Madagascar verso sud, tagliando il centro dell’isola con un viaggio on the road di oltre una settimana, con escursioni in diversi parchi nazionali e trekking. Poi, solo alla fine del tour, ci saremmo riposati qualche giorno sulle spiagge tropicali del villaggio di pescatori di Anakao.
Fu un viaggio straordinario, in cui riuscimmo a entrare in contatto con la meravigliosa natura malgascia e soprattutto con la sua gente. Un popolo poverissimo, che nel migliore dei casi vive in condizioni di precarietà. E nel peggiore dei casi, non vive. L’aspettativa di vita media non supera i cinquantacinque anni, e oltre metà della popolazione dell’isola ne ha meno di diciotto. I bambini sono ovunque. Per le strade a chiedere il cadeaux, che spesso si traduce in bottiglie di plastica vuote, penne o sapone. Nelle risaie, nei mercati o nelle fabbriche di mattoni a cielo aperto, a lavorare. Nelle misere baracche che chiamano case, a morire di fame, sete o malattie che nel nostro immaginario occidentale richiamano il Medioevo. I bambini sono ovunque, tranne dove dovrebbero essere. A scuola.
Questa realtà ci colpì molto fin da subito. Per tutti e tre era il primo viaggio in un Paese così povero, uno dei più poveri al mondo del resto. Inoltre, eravamo molto sensibili verso queste situazioni, tanto che un paio di anni prima avevamo addirittura provato a lanciare una start-up con una vocazione sociale. Ma c’era di più.
La cosa più incredibile, quella che con maggiore potenza aveva colpito i nostri cuori in quei giorni, erano i sorrisi di quei bambini. Nonostante le evidenti condizioni di disagio in cui erano costretti a sopravvivere, sorridevano sempre. Sempre.
Avevamo deciso che, al rientro in Italia, avremmo pensato a cosa fare per aiutare quei bambini, quel popolo, quel meraviglioso Paese. Ma non sapevamo cosa. La risposta ci si presentò di persona proprio negli ultimi giorni. Ad Anakao, al Peter Pan Hotel, incontrammo due ragazzi, Jessica e Valerio. Erano in missione umanitaria a Tulear, dove stavano svolgendo un’esperienza di volontariato per un’associazione italiana che gestiva una scuola in quella città. Erano ad Anakao per godersi un paio di giorni di mare e mettere in stand-by la carica emotiva che quell’esperienza stava provocando nelle loro anime. Legammo subito con loro e prendemmo informazioni sull’associazione.
Rientrati in Italia fummo presto riassorbiti dalla quotidianità e storditi dal rumore di fondo delle nostre vite occidentali. Ma non ci dimenticammo dei bambini del Madagascar. Dopo qualche mese decidemmo di contattare l’associazione e ne incontrammo i responsabili, Nicole e Davide. Due ragazzi vicentini che, come noi, si erano innamorati del Madagascar e dei suoi bambini durante il viaggio di nozze. E che, come noi, al rientro in Italia si erano chiesti cosa fare per aiutarli.
Nel 2015 avevano fondato un’associazione no profit che, grazie al sostegno di tanti volontari e donatori, stava aiutando tanti bambini di Tulear ad avere un’istruzione scolastica di base, cibo e acqua potabile tutti i giorni, sostegno medico e sanitario. Ma soprattutto un futuro dignitoso, lontano dalla strada, dalle risaie, dalle fabbriche di mattoni, dalle discariche a cielo aperto.
Capimmo subito che avevamo trovato quello che stavamo cercando. Come prima forma di supporto, iniziammo a sostenere a distanza una bambina malgascia, dandole l’opportunità di frequentare la scuola gestita dall’associazione a Tulear. Poi, piano piano, ci appassionammo sempre di più alla causa e a fine 2017 entrammo nel consiglio direttivo.
Il 2018 fu un anno straordinario. Costruimmo undici pozzi in diversi villaggi rurali intorno a Tulear, garantendo in questo modo l’accesso gratuito all’acqua potabile a oltre diecimila persone. Avviammo un nuovo progetto scolastico, dando la possibilità a quasi cento bambini di frequentare una scuola pubblica. Riuscimmo addirittura a finanziare sei borse di studio, per dare la possibilità ad altrettanti ragazzi e ragazze di iscriversi all’Università di Tulear. Tutto questo fu possibile grazie alle tante iniziative di raccolta fondi e di ricerca di sponsor in Italia, attivando tutti i canali possibili. Il mio lavoro mi aiutò a coinvolgere in questi progetti alcune delle aziende che seguivo. Il mio entusiasmo mi aiutò a coinvolgere amici, parenti, colleghi. L’impegno, il tempo, l’energia che dedicai a tutte queste attività furono enormi, così come del resto lo furono quelli dedicati da tutti gli altri volontari dell’associazione.
Ma i risultati arrivarono e mi aiutarono a capire due cose.
Che stavo contribuendo concretamente con le mie azioni a cambiare la vita di migliaia di persone in Madagascar.
Che così facendo, la prima vita che stavo cambiando era la mia.
Proprio come mi ero augurato prima di partire.
Il Madagascar stava rispettando il patto che avevamo fatto.
A questo punto toccava a me alzare l’asticella.
Era il momento di tornare.