4-È la sua storia, non la mia

Massimo Lazzari
La fine della Terra
5 min readMay 18, 2019

È la prima volta che arrivi qui? Leggi il Capitolo 1

Non potrei essere più d’accordo con questa affermazione.

Chiunque ambisca anche solo a essere definito “scrittore” deve lavorare sulla “scrittura”, ancor prima che sulla storia. Crearsi un proprio stile, riconoscibile e originale, deve essere il mantra ogni volta che apre la pagina vuota e decide di dare forma alle idee che girano disordinate nella testa. Per riuscirci ci vuole allenamento e pazienza, e forse anche una buona dose di fortuna.

È chiaro però che ci deve essere anche la storia. E questo lo dico da lettore. Un racconto scritto in modo superbo ma privo di una storia che si insinui nel cuore di chi legge, dal mio modesto punto di vista, resta un mero esercizio di stile. Con questo non voglio dire che non merita di essere scritto, o letto. Voglio solo dire che non è quello che io voglio scrivere, o leggere.

Per fortuna, finora, non ho mai avuto problemi di carenza di storie. Anzi, forse ne ho perfino troppe in testa, e troppa irrequietezza per dare a tutte il tempo di sedimentare. Con il rischio che alcune di queste si stanchino di non essere prese in considerazione e, così com’erano venute, se ne vadano offese in cerca di qualcun altro più attento, o degno di scriverle. È lo stesso rischio che temo a proposito di questo libro. Le storie che si incrociano e che convergono verso la “fine della Terra” sono talmente tante che temo di non riuscire ad accordarle tutte sulla stessa lunghezza d’onda, a dar loro la dignità che meritano all’interno di questo libro.

In fondo una l’avevo già scritta, in un romanzo che poi ho irrispettosamente condensato nel primo capitolo di questo libro.

È la storia di Gregorio, il ragazzo che attraversa il Madagascar alla ricerca del padre scomparso, mentre la moglie lo aspetta a casa incinta.

Una storia di fantasia, ma che già all’epoca in cui la scrissi aveva qualche intenzionale contatto con la realtà, dal momento che vi comparivamo io, Matilde e Vincenzo, oltre ad altri personaggi realmente incontrati durante il nostro viaggio. Contatto con la realtà che ora diventa incredibilmente ancora più marcato, dal momento che sto per tornare in Madagascar mentre mia moglie resterà a casa, incinta di nostro figlio Gregorio.

Già queste, quella di Gregorio e la mia, sono due storie su cui ci sarebbe parecchio da scrivere. Ma ce ne sono tante altre, senza dubbio più interessanti.

C’è quella di Johnny, il driver malgascio che ci accompagnò nel nostro primo viaggio, e che avrò il piacere di incontrare di nuovo ad Antananarivo.

Un ragazzo saggio, equilibrato, che per quei giorni rappresentò la nostra finestra sulla cultura e la società del Madagascar. Un padre di famiglia, istruito e autodidatta, che pur di consentire alla figlia di studiare all’Università, trasporta turisti su e giù per l’isola in continuazione. Facendo lo slalom con il suo minivan tra i crateri delle strade malgasce con la stessa dignità che avrebbe se guidasse un auto blu sulle corsie preferenziali delle nostre città.

C’è poi la storia di Dario, il ragazzo lombardo che, insieme all’amico Valerio, dieci anni fa ha deciso di trasferirsi in Madagascar, ad Anakao, e costruire da zero il suo sogno.

L’isola che non c’è: quel Peter Pan Hotel in cui tutta questa storia ha avuto inizio. Dario è un personaggio incredibile, che davvero sembra uscito da un romanzo. Punk, anarchico, anticonformista fino al midollo, ha trovato in quel remoto villaggio di pescatori, lontano anni luce dal mondo in cui è cresciuto, il posto in cui diventare finalmente se stesso. In questi anni siamo rimasti in contatto e anche con lui ci incontreremo nuovamente tra poco. A sentirlo parlare della sua vita ad Anakao, pare di sentire Rimbaud quando con la sua famiglia si lamentava del poco stimolante e noioso ambiente di Harar, la città etiope in cui si era rifugiato ancora ventenne. E calzano a pennello le parole che Theroux scrive a proposito del poeta francese nel suo Dark Star Safari:

«Aveva amato l’Africa perché era l’anti-Europa, l’anti-Occidente, e lo è tuttora, a volte provocatoriamente, altre quasi per indolenza».

E poi ci sono le storie di altre persone che non hanno condiviso il mio primo viaggio in Madagascar, ma che giocheranno un ruolo da protagonisti in quello che sto per compiere.

Ci sono i tre ragazzi che mi accompagneranno: David, videomaker e documentarista; Elia, suo fratello, che gestisce la più grande community online di agricoltori in Italia; Yari, un loro amico che ha fondato una società di consulenza per il marketing su Instagram.

Tre ragazzi giovanissimi, molto lanciati in queste insolite e nuove professioni e con un tale entusiasmo per l’imminente viaggio che mi fa veramente riflettere sulla differenza tra la mia generazione e la loro. O forse tra me e loro tre, senza stare a generalizzare troppo.

C’è Auguste, il responsabile locale della nostra associazione, e sua moglie Florine, la referente locale del tour operator di viaggi solidali che io e Davide abbiamo fondato nel 2018.

Li sento regolarmente via Skype, Whatsapp o mail, ma non li ho mai incontrati di persona e non ho ancora avuto l’opportunità di conoscere meglio le loro vite al di fuori del lavoro comune. Il mio soggiorno a Tulear sarà dedicato anche a loro e ai loro bellissimi figli.

C’è Titi, il driver di punta del nostro tour operator, che ci accompagnerà da Antananarivo a Tulear.

Anche per lui vale la stessa cosa: tanti scambi “virtuali” in questi ultimi mesi, ma poca o nessuna conoscenza della sfera personale e famigliare. Anche in questo caso un gap che mi ripropongo di colmare lungo la polverosa strada verso il sud del Madagascar.

Ci sono Davide, Nicole e tutti gli altri volontari che prima di me hanno percorso quella stessa strada per scopi umanitari.

Non saranno fisicamente insieme a me certo, ma l’eco dei loro viaggi, delle emozioni che hanno provato la prima volta, delle aspettative e delle paure che albergavano nei loro cuori, delle lacrime che hanno pianto a Tulear. L’eco di tutto questo mi accompagnerà come un rumore di fondo. Sia perché l’ho letto nei loro diari di viaggio e l’ho ascoltato nei loro racconti. Sia perché, credo, saranno le stesse emozioni che proverò io, le stesse aspettative e paure che albergheranno nel mio cuore, le stesse lacrime che piangerò a Tulear.

E poi ci sono i veri protagonisti di questa storia, che ho volutamente lasciato in fondo all’elenco.

Il Madagascar e il suo popolo. I bambini che frequentano la scuola di Tulear. Gli insegnanti e il personale di servizio. Le loro famiglie. Le persone che vivono nei villaggi in cui abbiamo costruito i pozzi. I dipendenti dell’impresa di costruzioni. I ragazzi che stanno frequentando l’Università grazie alle borse di studio. E poi tutte le altre persone che incroceranno le loro vite con la nostra durante questo breve, ma sicuramente intenso, viaggio che mi accingo a intraprendere.

Tantissime storie, tutte degne di essere raccontate, anche se non sono ancora convinto che io sia degno di poterle raccontare. Certo, questa è la missione che mi sono autoassegnato. Ma dovrò ricordarmi sempre ciò che rispondeva Theroux a chi, nel corso del suo viaggio in Africa, gli chiedeva di raccontare la sua storia nel libro che ne avrebbe scritto.

«Deve scriverla lei, perché c’è senz’altro più di quanto mi abbia detto, e dato che lei la conosce tutta, è la suastoria, non la mia».

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Massimo Lazzari
La fine della Terra

Autore di La Storia dell’Acqua (2021), La Fine della Terra (2019), Il libro perfetto (2017), Quando guardo verso Ovest (2015) ed Esprimi un desiderio (2012)