La Baggina

Alfonso Fuggetta
La ringhiera
Published in
4 min readApr 20, 2020

In questi giorni tristi e difficili si è tornati a parlare del Pio Albergo Trivulzio, la residenza per anziani che noi milanesi conosciamo come “la Baggina”. È un nome che deriva dal fatto che il palazzo è collocato su quella che era conosciuta come la via Baggina, la strada che portava a Baggio, uno dei quartieri della periferia milanese. Per i milanesi, la Baggina è una istituzione storica perché rappresenta l’attenzione e la cura verso gli anziani, i nostri vecchi. Già ai tempi di Mani Pulite, con le inchieste di Antonio Di Pietro e le accuse a Mario Chiesa, l’averla associata a malaffare e corruzione fu per tutti noi un colpo al cuore e un dolore vero e profondo.

Per me, “milanese per caso” (sono nato a Milano pochi mesi dopo che mia madre arrivò dal Sud), la Baggina è qualcosa di più, un ricordo unico e commovente della mia vita ai tempi della casa sulla ringhiera.

Una delle aree di intervento più importanti della comunità parrocchiale di San Gregorio Magno e del suo oratorio era la cura degli anziani e dei bisognosi. Ci si occupava di assistenza domiciliare e di qualunque altra attività potesse sostenere e migliorare la vita dei nostri anziani, i nonni e i genitori che avevano ricostruito il paese dopo la guerra. A noi della comunità giovanile (avevo 15–16 anni) era assegnato per l’appunto il compito di visitare i ricoverati nelle residenze. Erano visite organizzate soprattutto in quelle giornate festive dove immaginavamo che la solitudine potesse farsi sentire più forte, come Santo Stefano o il lunedì dell’Angelo. Negli anni seguenti, queste iniziative sfociarono in un rapporto strutturato e continuativo di molti di noi con Fratel Ettore, religioso della vicinissima comunità di San Camillo, che creò un rifugio per anziani e senza casa nei tunnel sotto la Stazione Centrale di Milano. Le residenze dove andavamo con maggiore frequenza erano due. La prima si trova a Sesto San Giovanni. Si chiama La Pelucca e se ricordo bene ci fu segnalata da mio papà, operaio della Ercole Marelli che aveva il suo stabilimento principale proprio sul Viale Italia che dava accesso alle principali imprese della “Stalingrado d’Italia” come era allora chiamata Sesto.

Per tutti noi, tuttavia, il luogo simbolo dell’attenzione agli anziani era uno solo: la Baggina. Ci sono andato con i miei amici della comunità giovanile molte volte. Specialmente all’inizio mi univo al gruppo un po’ a malavoglia, per dovere, perché chiamato al compito che il Parroco Don Pasquale e il “nostro don” ci avevano assegnato. Ma ogni volta tornavo a casa commosso e turbato, con un gran senso di colpa per tutto quello che avrei potuto fare per cercare di lenire quelle solitudini e quelle sofferenze.

Di solito andavamo in 10–15. Qualcuno di noi (io ero uno di questi) portava la chitarra per intonare qualche vecchia canzone. Arrivavamo un po’ titubanti, vagolando per gli ampi stanzoni con le file di letti dove gli anziani giacevano straiati per la gran parte del tempo. Alcuni in pigiama stavano seduti ad un tavolo. In generale, ci vedevano arrivare tra il sorpreso e il confuso; probabilmente, si chiedevano chi fossero questi sconosciuti che piombavano all’improvviso nelle loro vite.

Quelli di noi più espansivi o sfacciati iniziavano a fare qualche domanda: come sta, che lavoro faceva, ha famiglia. Spesso all’inizio rispondevano per dovere e anche con un po’ di fastidio. Poi un sorriso, qualche parola cortese e magari una canzone della vecchia Milano riuscivano a rompere lo scudo di riserbo e di diffidenza: un po’ alla volta si aprivano di fronte a noi mondi di umanità, di solitudine, di sofferenza, di rimpianto e di nostalgia. E allora apparivano magnifici sorrisi, mondi di gentilezza, storie di vita vera. Quando li lasciavamo era immancabile la richiesta di rivedersi, di tornare a trovarli, di condividere un po’ della nostra giovinezza e voglia di vivere, di riaprire una finestra sulla vita là fuori dalla Baggina.

Ho dimenticato quei volti e quei nomi, ovviamente, ma non dimenticherò mai i sentimenti e la commozione che quei tuffi nelle vite altrui mi provocavano. Furono lezioni di vita che lasciarono segni indelebili in tutti noi che avevamo la fortuna di avere una famiglia e un luogo, l’oratorio, dove sentirci protetti e accolti, dove poter vivere una vita di comunità piena e ricca di esperienze entusiasmanti. Quegli incontri mi aiutarono a capire cosa fosse la vita fuori dalla mia fortunata bolla, cosa fossero la sofferenza, la solitudine, il senso di abbandono, la mancanza di un affetto o la perdita degli amori della propria vita. Pensavamo di andare per dare sollievo a vecchi abbandonati e invece quegli incontri erano un dono che loro facevano a noi, momenti di crescita unici che ci aiutavano a passare dalla giovinezza alla maturità, a vivere la nostra fede non in teoria, ma attraverso i segni e le ferite che la vita aveva lasciato nella carne di quelle persone.

Sentire parlare della Baggina così come siamo costretti a fare in questi giorni provoca rabbia e dolore. Come possiamo tradire quei vecchi, quelle storie di lavoro e di solitudine? Come dimenticare che noi siamo definiti e qualificati da come trattiamo e rispettiamo i nostri genitori e nonni? Come dimenticare che dobbiamo “onorare il padre e la madre”?

Torniamo a visitare le Baggine delle nostre terre. Torniamo a visitare i nostri vecchi. Per ricordare chi erano e soprattutto per capire chi siamo e chi vogliamo essere.

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Alfonso Fuggetta
La ringhiera

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