Pazienti e terapeuti: la relazione d’aiuto in una mano sola

Da quando ho scelto di esercitare una professione d’aiuto ho sempre riflettuto sulla relazione terapeutica sia per quanto riguarda i suoi aspetti teorici sia nelle sue varie declinazioni concrete. Ho conosciuto molti medici, alcuni molto bravi, addirittura divenuti maestri, altri un po’ meno, e sento, oggi più che mai, che questo terreno ha un impellente bisogno di essere dissodato, rinnovato e concimato in vista di una nuova semina.

Negli anni sono stato colpito dall’umanità mostrata da rinomati medici nel riconoscere i limiti che nascono nel mettersi in relazione con i pazienti, dettati spesso da motivi tecnici, per esempio insiti nell’imperfezione della propria scienza, oppure da motivi contingenti, come il tempo, la scarsità di risorse nel servizio pubblico, ma anche, spesso da motivi sociali quali un habitus che vede il medico issato sullo scranno di una scienza che rischia di essere sempre più dogmatica e indiscutibile quando non empatizza e simpatizza con la persona ammalata.

I trattati di psicologia medica, dai tempi del tradizionale P.B. Schneider hanno identificato diverse traiettorie di sviluppo o involuzione del rapporto medico-paziente. Nonostante ciò, ancora oggi non è possibile tracciare una teoretica esaustiva di questa particolare relazione e questo perché dietro al camice o al ruolo ci sono uomini in tutta la loro ricchezza culturale e umana, con le loro fragilità e con la loro forza che incontrano persone a loro volta uniche e originali.

Lo psicologo non sa in assoluto quale sia la migliore soluzione o il miglior stile relazionale da mantenere con il paziente e non pretende di insegnare al medico la giusta postura terapeutica, ma sa porre domande e sa ascoltare.

Innanzitutto l’ascolto. Momento che precede e accompagna l’analisi del bisogno e l’intero percorso terapeutico. Sottofondo naturale, atteggiamento e postura. Tale ascolto non si dovrebbe mai dare per scontato, al contrario andrebbe sempre verificato. In effetti un primo ambito di discussione potrebbe risiedere proprio nella domanda: cosa vuol dire ascoltare?

Ancor prima di arrivare alla cosiddetta analisi del bisogno si deve mettere in evidenza il tipo di ascolto che porgiamo e che riceviamo nella relazione terapeutica, ma si potrebbe affermare che tale problema riguarda tutte le relazioni.

In un secondo momento, che non possiamo collocare in senso temporale in quanto spesso è contemporaneo al primo, emerge l’analisi del bisogno.

E qui sorge un’ulteriore domanda: Il bisogno di chi? Ad un primo impatto appare ovvio pensare che intendiamo il bisogno del paziente, tuttavia questa risposta non è esaustiva poiché in questo momento così particolare, rappresentato dall’incontro terapeutico, i bisogni di paziente e terapeuta si intrecciano e spesso lo fanno in maniera inconsapevole. Non possiamo quindi negare la presenza di bisogni anche da parte del terapeuta. Partiamo dal presupposto che su registri diversi il bisogno, in una relazione, possa essere sempre reciproco. E perché non nella relazione terapeutica?

Il paziente ha bisogno di essere ascoltato, ma non solo, ha bisogno di essere accolto nel suo racconto e creduto. A volte, a sentire la psicoanalisi, il paziente ha bisogno di poter indugiare nello stato di malattia e ricerca un medico capace di garantirgli questa possibilità fino a che non decide di curarsi e di cambiare, così “salta” di professionista in professionista fino al momento della consapevolezza e della maturazione, oppure fino al momento della conquista della fiducia.

Non basta quindi l’attenzione, l’ascolto attivo o l’empatia. Il bisogno della persona che chiede aiuto deve essere decifrato nella garanzia di essere protetto, perlomeno nel momento in cui affida al medico tutte le sue speranze. E se il medico non garantisce questa protezione il paziente scommette ugualmente sulla protezione che spera di poter ottenere da colui che diventa, in quel momento, il custode della sua vita, della sua guarigione o della sua malattia.

Il terapeuta, dal canto suo, ha bisogno di sentirsi riconosciuto nella sua veste, di risultare convincente, efficace e autorevole. Spesso il terapeuta nutre un bisogno di infallibilità e prestigio dovuti al ruolo, ma anche alla ferrea convinzione che la sua scienza rappresenti la formula migliore sulla piazza. Ancora, il terapeuta dovrebbe nutrire il bisogno di essere onesto e sincero rispetto ai limiti della sua stessa scienza e come tutti è un essere umano che ha bisogno di vedere e accettare la propria fallibilità.

In questo modo il terapeuta, non solo lo psicoterapeuta, si affaccia sul panorama complesso dell’analisi del bisogno. Ritengo che, per quanto difficoltoso, questo passaggio debba essere compiuto da ogni professionista dell’aiuto: dal volontario, all’OSS fino al medico.

Pertanto per garantire un intervento onesto, l’operatore dell’aiuto dovrebbe porsi domande che assomigliano alle seguenti:

Qual è il mio bisogno nella relazione? Qual è il mio stile relazionale? Mi osservo? Misuro le parole? Quanto la teoria o le prescrizioni prendono il campo? Come utilizzo i miei strumenti? Attraverso quali alchimie?

A questo punto, iniziale, del percorso il terapeuta o il professionista della relazione d’aiuto, dispone metaforicamente i suoi strumenti sul tavolo: gli elementi della cura.

Utilizzerò mito e allegorie per illustrare un percorso ideale e visualizzare concetti che al contrario potrebbero apparire freddi e sterili. Ho scelto in questo caso di rappresentarli lungo un sentiero che procede per gradi, colorarli e dare loro un volto, seppure ideale. Le carte procedono lungo un’ascesa di ventidue gradini e ognuna racchiude profondi simboli, strettamente intrecciati con la nostra cultura e una saggezza millenaria. Potrebbero esserci di aiuto anche in questo caso e non solo nell’interrogare la sorte come fanno gli zingari.

Ma torniamo al terapeuta e al suo corredo iniziale di strumenti (I- Le Bateleur). Lo psicologo oltre all’ascolto e ad un atteggiamento di sincera presenza, utilizza le domande, le interpretazioni, il confronto e l’attenzione, l’accoglienza, l’accompagnamento, il calore emotivo quando lo possiede. Tutti questi strumenti sono utilizzati al fine di consentire la costruzione di un legame di attaccamento sicuro.

Il medico, oltre a tutte le possibilità appena citate, quando le padroneggia, utilizza gli strumenti della sua pratica: la prescrizione di esami, la farmacologia, la diagnosi.

Siamo ad un primo passo dell’analisi del bisogno. Siamo all’inizio della terapia e questa procede attraverso le domande che sappiamo porre al paziente e noi stessi.

È un momento in cui l’attesa del paziente rispetto ad una soluzione o ad una speranza è al culmine, è altresì il momento inziale che spesso prelude ad un ritorno alla realtà, a volte brutale, che spesso rinvia alla ricerca di soluzioni non immediate e alla fatica del lavoro terapeutico, sia per chi lo conduce sia per chi lo assume sulla propria pelle.

Tale ritorno, in clinica psicologica, è descritto come la “fine della luna di miele” e rappresenta un momento delicato poiché spesso coincide con la caduta dal piedistallo su cui il paziente ha posto il terapeuta e contemporaneamente con la scoperta dei limiti della terapia da parte del terapeuta. È un momento estremamente delicato poiché la “vanità”, se possiamo definirla molto limitatamente in questo modo, del terapeuta si scontra con la frustrazione del limite. Il rischio che si corre in questo momento del processo è la chiusura dogmatica e austera nell’accademia (II- La Papesse), nella difficoltà a mettere in discussione i “sacri testi”…

Questo è il momento in cui il terapeuta dovrebbe accentuare l’osservazione del proprio narcisismo terapeutico, dal momento che il contratto di affidamento o delega sulle sue capacità potrebbe colpire aspetti inconsci che mettono in discussione dimensioni quali l’efficacia, l’autorità e il prestigio.

È anche o potrebbe essere il momento in cui il terapeuta creativo riesce a fare appello a forze che possiamo definire generative (III-Limperatrice) come la sensibilità, la compassione, l’esperienza, quelle qualità che oggi con un anglicismo vengono definite Soft Skills, coniugandole alla propria formazione e da cui scaturisce l’incipit ritagliato sui problemi di una data persona. In sostanza è l’inizio di un rapporto personale e, ci si augura, creativo.

E se ne fa carico con tutte le ansie e le preoccupazioni che caratterizzano il padre (IV- L’Empereur) che, metaforicamente, deve sostenere con forza e fatica “i propri figli e la propria famiglia”.

Ovviamente tutto questo non agisce consapevolmente nel cuore del terapeuta. La volontà, la routine, la missione che ogni terapeuta assume sopra di sé prevede infatti elementi di conoscenza, di improvvisazione, se così la vogliamo chiamare e elementi di responsabilità che fluttuano tra la coscienza della volontà e l’incoscienza dell’amore paterno.

Tuttavia la posizione del padre implica una vicinanza pericolosa, invischiante, che non permette una precisa focalizzazione delle problematiche cliniche della persona che chiede aiuto. Anche se la domanda di adozione è implicita nella relazione terapeutica questa potrebbe fallire per la troppa prossimità. Il medico pietoso fa le piaghe recita l’adagio.

Pertanto è necessario attraverso l’utilizzo strategico di meccanismi difensivi o di adattamento, che devono poter essere conosciuti e bilanciati, recuperare obiettività e un’autorevolezza non solo genitoriale ma spirituale, ergendosi attraverso la vestizione equilibrata del ruolo (V-Le Pape).

È in questo momento che il terapeuta deve poter fare appello alla più profonda conoscenza di sé per poter fondere l’istinto personale e vocazionale alla cura e la padronanza equilibrata del ruolo in un sentimento che tra vocazione, conoscenza e accettazione dell’altro si avvicina molto a quello che può essere definito amore (VI- Lamoreux).

È qui che è possibile scorgere un conflitto che porta spesso i terapeuti a “odiare” il proprio lavoro e se stessi, nell’incrocio tra responsabilità, compassione e frustrazione per gli insuccessi. Possiamo scegliere di amare il nostro lavoro, i nostri pazienti, il nostro cammino oppure considerarlo un mestiere senza passione. È l’amore per l’altro che apre invece infinite possibilità terapeutiche, moltiplica la fiducia e scatena energie di risanamento e accettazione, nonostante si presenti sempre come scelta.

Sembrerebbe che tutto ci porti al trionfo (VII-Le Chariot): abbiamo identificato i conflitti tra ruolo, presunzione e frustrazione, abbiamo accettato il limite dei nostri strumenti ed ecco che la situazione ci sfugge di mano: una crisi, uno stallo, l’inefficacia della terapia. Dobbiamo mantenere l’equilibrio e la nostra posizione (VIII-La Justice).

E nel far questo spesso ci sentiamo terribilmente soli (VIIII- L’Hermite). Non possiamo parlare del problema con il coniuge, oltre alla trasgressione deontologica che impone il segreto professionale si configurerebbe quello che in metodologia clinica viene chiamato “agito” e rivelerebbe l’incapacità di saper contenere l’incertezza della relazione, processarla e digerirla, come anche il peso della responsabilità o delle rivelazioni che il paziente ci fa. Tuttavia siamo donne e uomini e il peso lo sentiamo.

Allo stesso modo potremmo trovare un momentaneo sollievo per la gestione di situazioni e persone tanto sofferenti, nel confidare ad un collega le difficoltà incontrate nella terapia ma purtroppo tutte queste manovre risultano palliative se non divengono momenti sistematizzati e si strutturano in un processo di supervisione clinica.

Il rischio insito in questa configurazione è l’arresto (X- La Roue de Fortune) che possiamo tradurre in diversi modi: irrigidimento, delega alla diagnostica in senso difensivo o alla farmacopea in maniera eccessiva e non equilibrata, oppure rifugio in aspetti di personalità narcisistici, nel cinismo oppure nei deliri di onnipotenza terapeutica.

È un momento delicato nella vita di ogni terapeuta (XI- La Force) poiché misura l’umiltà e al contempo la forza di mettere in discussione il proprio animo e il proprio operare.

Ma è il momento più propizio per iniziare un processo di gestazione e discussione profonda (XII- Le Pendu) che può portare a cambiamento e a conoscenza di sé e di sé in relazione al ruolo. Dal momento che la costante aderenza del sé al ruolo non è ritenuta salutare per il terapeuta e che il ruolo è come il camice: si indossa e si dismette, il sé deve poter muoversi con sicurezza, o perlomeno con chiarezza all’interno dell’habitus.

Perché il sé si muova in questa direzione è pertanto necessario conoscere le forze che operano nel campo della scelta della professione (Vedi su questo canale: “Il mestiere della cura: solo vocazione?”), ma anche i conflitti personali che attraversano l’inconscio e i movimenti dell’inconscio stesso a fronte della malattia, della percezione del dolore dell’altro e dell’invasione di questo nelle nostre emozioni e in sostanza nel cuore. Questa chiarezza viene da un’azione di mietitura, di pulizia mentale e psicologica e ordine, in sostanza di cambiamento e trasformazione (XIII- Il Senzanome).

Abbiamo bisogno, a questo punto dell’ascesa nella relazione, di temperare tutti gli elementi che abbiamo incontrato fino ad ora e forse di un pò di fiato... (XIII-La Temperance)

E se fallisce il lavoro di ordine e temperanza possono entrare in gioco forze distruttive che hanno a che fare con la potenza delle emozioni non elaborate insite nella relazione terapeutica e nella propria personalità. Questo può accadere nel momento in cui ci si assume in carico un dolore senza poterlo sanare mai del tutto, nelle risonanze che la malattia scatena in noi e nelle nostre identificazioni, nel terrore inconscio e tanto umano insito nella possibilità che noi stessi potremmo essere lì al posto della persona che ci chiede aiuto. La malattia e il malato ci strappano la maschera e rivelano la figura dell’inquietudine (XV- Le Diable).

Il fallimento dell’operazione di riconoscimento di sé espone il terapeuta alla disregolazione della propria affettività e della capacità di contenere l’angoscia del paziente e soprattutto la propria. Le modalità in cui possiamo esprimere l’angoscia sono diverse, le dipendenze ne sono un esempio. Se il lavoro della temperanza, che collega il XIII gradino al XV, dovesse fallire, ecco che siamo esposti alla caduta.

Al contempo questa, che nell’arcano XVI (La Maison Dieu) è denominata la Casa di Dio, rappresenta appunto l’occasione “catastrofica” di riconoscere un’opportunità e trasformare la caduta in evoluzione, camminando sulle braccia, come i personaggi rappresentati nell’allegoria. Non necessariamente la crisi è rovina, può essere possibilità e forse nel “toccare con mano” e a testa in giù gli aspetti più profondi della difficoltà psicologica, etica, deontologica e morale del mestiere della cura possiamo accedere ad una maggior capacità empatica.

Per rinascere sotto una buona stella (XVII — Letoille) e rinnovare sempre le nostre energie al servizio di un buon lavoro di cura abbiamo allora bisogno di sviluppare nuove sensibilità.

Queste richiedono ricettività e ancora ascolto ad un livello superiore rispetto all’ascolto iniziale che abbiamo identificato nel Mago, come simboleggiato dalla carta della Luna (XVIII).

Ciò che è rischiarato da una luce notturna richiede attenzione ulteriore, tastare il passo, acuire sensi diversi dalla sola vista: il tatto, l’udito e l’odorato, diventano al contempo più perspicaci. Questa maturazione dell’ascolto richiede lo sviluppo di una vista interiore.

Solo in questa condizione possiamo nuovamente concretizzare artisticamente l’incontro nella relazione (XVIIII- Le Soleil).

La parola relazione identifica semanticamente un’affezione (dal lat. affectio), cioè qualcosa che concerne gli affetti; ancor più un legame; sempre e comunque una necessità, secondo Cicerone; infine, mutuando dall’inglese (relationship), un trasporto.

A questo punto, in quanto necessità, la relazione risponde alla chiamata (XX- Le Iugement) che è tale come chiamata alla cura dell’altro la quale, se non proprio sentita come vocazionale, dovrebbe comunque assomigliarle molto. Ed è soltanto questa che infine può portare alla co-costruzione di un campo terapeutico, alla ri-nascita di un figlio simbolico, una resurrezione che ha la natura del divino e che risiede nella collaborazione amorevole tra medico e paziente.

In teoria tutto si dovrebbe concludere e armonizzare nella totalità, nella gratitudine reciproca e nella crescita di entrambi gli attori della scena che racchiude il mondo intero di quel particolare rapporto (XXI-Le Monde)

Entrambi, paziente e medico, sono pronti a riprendere il loro cammino di autonomia, ricerca e di sviluppo, consapevoli ognuno di aver donato qualcosa all’altro (Le Mat).

Questo processo, in cui abbiamo considerato innanzitutto il terapeuta e che coinvolge direttamente e parimenti anche il paziente, è da ritenersi ideale, un suggerimento o una tendenza al limite. Lo vediamo scorrere con più o meno intoppi, all’interno di una sola seduta, di una visita, nel corso di un’intera terapia o in lunghi rapporti terapeutici come accade nelle malattie croniche.

Credo che dovrebbe animare in particolar modo i percorsi di accompagnamento al fine vita, ma anche la cura delle malattie cronico-degenerative, come anche tutte le psicoterapie. Rappresenta certamente una suggestione e non entra nello specifico delle problematiche che attraversano la scelta della professione di aiuto e la relazione tra terapeuta e paziente, ma apre uno spiraglio nell’accogliere il mito, il gioco e ulteriori suggestioni all’interno dello studio e dell’osservazione della relazione terapeutica. Può essere considerato un suggerimento a ricercare la comprensione del proprio agire terapeutico, rendendolo più umano e potente.

Bologna 24 Gennaio 2023

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Alessandro Campailla
LaTI® — Laboratorio Teatro d’Impresa

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica