Tre sorelle, tre destini

Patrizia
Le ragazze di Wuchale
4 min readJun 19, 2015

Le case di Golbo, come milioni di altre in tutta l’Africa, sono muri di fango essiccato e di rami, con il tetto di lamiera ondulata. Dentro quella a cui arriviamo noi, ci sono quattro materassi laceri buttati per terra e niente altro: nulla che somigli a un mobile, tanto meno a un bagno. Qualche sacco appeso ai muri e fine. Una delle stanze è diversa dalle altre due solo perché al posto dei materassi c’è un tappeto di escrementi: è quella delle capre; nelle altre dormono gli umani.

A Golbo siamo arrivati grazie a Tirongu, 17 anni, una delle ragazze che vivono nello studentato del Cifa a Wuchale.

Lei in questo villaggio è vissuta fino a quando i volontari della Ong l’hanno sottratta al suo destino già scritto — pascolare capre tutta la vita — portandola a Wuchale a studiare.

Per la visita a casa, Tirongu si mette il suo abito migliore e le scarpe buone, poi si sistema con cura i capelli: dovrà sembrare un regina, quando sua sorella Belaynesh la riabbraccerà in cortile, davanti al resto del villaggio venuto curioso a vedere che cosa sta succedendo.

Belaynesh, la sorella più grande, infatti è rimasta a vivere qui, tra le montagne, con i suoi due figli di 2 e 16, più un altro fratello. Ogni giorno si sveglia alle sei e accende la legna per cuocere la injera, colazione di tutta la famiglia; appena il sole è un po’ più alto prende le capre e va al pascolo, sette ore filate nei campi; segue il ritorno a casa, quando si avvicina il crepuscolo, poi un’altra injera da cuocere, quindi di nuovo a dormire; e così via per l’eternità. I vestiti di Belaynesh, al contrario di quelli lindi e brillanti di Tirongu, sono stracci senza colore; le scarpe, sandali sformati. Il figlio più piccolo non le si stacca dal seno un secondo, il viso coperto di mosche.

Così Belaynesh e Tirongu si siedono su due sgabelli all’aperto e si raccontano quello che è successo dal giorno di Natale, l’ultima volta che si erano viste. La più piccola racconta sgargiante dei suoi successi scolastici, della vita in città, delle amiche di laggiù; la più grande ha molto meno da dire, con la sua vita sempre uguale, quindi annuisce e sorride con i denti che le sono rimasti.

Le storie diverse delle due sorelle sono una piccola grande metafora delle sliding doors della vita: una rimasta in montagna a sopravvivere nell’indigenza più sporca, con solo quattro capre per sbarcare il lunario; l’altra al liceo, a preparare gli esami e a riempire moduli per iscriversi a Medicina, un giorno vuole diventare dottore.

Ma a chiudere il cerchio, da un album spunta la foto di Bizuya, la terza sorella, quella di mezzo per età. Per lei niente capre e fame in montagna, ma nemmeno i libri e la laurea: tre anni fa è emigrata a Kuwait City, ora sta a servizio per una famiglia locale. Se ne hanno notizie vaghe, qui al villaggio, come di chiunque abbia lasciato l’Etiopia per tentare una vita di là del Golfo di Aden. Forse un giorno tornerà, dicono, o forse no, chissà.

Il padre delle tre ragazze, secco e ieratico con i suoi settant’anni e il bastone tradizionale, si siede anche lui ma a distanza, su una pietra fuori dalla baracca, mentre le figlie chiacchierano. Per lui, come per tutti i padri, in fondo sono tutte uguali, nonostante le loro sorti diversi. E poi, si sa, a un certo punto i figli devono arrangiarsi. Che sia sopravvivere tra le bestie, come Belaynesh; che sia andare a pulire le case dei ricchi arabi, come Bizuya; che sia vincere la lotteria della vita e poter puntare all’università come Tirongu.

Eccole qui tutt’e tre, nell’immagine in cima a questo post, due di persona e la terza in una foto spedita dall’Arabia. Belaynesh, la più grande, è quella a sinistra; Tirongu è al suo fianco; Bizuya è ovviamente quella stampata, in mezzo. In una sola famiglia, i tre destini possibili delle ragazze d’Etiopia.

Alessandro Gilioli

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