Laura Benedetti: intervista sul “Paese di carta”

Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula
7 min readDec 10, 2016
La copertina dell’e-book

Del romanzo vi dissi qualche mese fa. Dopo aver letto il libro ho voluto anche riparlarne con l’autrice.
Laura Benedetti è aquilana e insegna letteratura Italiana alla Georgetown University, a Washington. È autrice di diversi saggi: “Un paese di carta” è la sua prima opera di narrativa.

Massimo Giuliani: Laura, scegli tu come riassumere in poche parole la storia, in modo da farci capire di che si tratta ma anche di non svelare troppo a chi la leggerà.

Laura Benedetti: Che responsabilità! Potrei dire che il romanzo è tante cose insieme: l’elaborazione di un lutto, una riflessione sul nesso linguaggio-identità, un’ipotesi (romanzesca ma non inverosimile) di un episodio della Resistenza in Abruzzo… Forse però è più facile descriverlo come la saga di tre generazioni di donne tra l’Italia e l’America. Le protagoniste sono Alice, Jane e Sara, che hanno rispettivamente 80, 52 e 18 anni quando la storia comincia, nel 2010.

MG: Un aspetto che ho trovato formidabile è quello per cui nella vicenda di Sara e della sua famiglia si accompagna la tua presa di posizione sulla storia recente. Dove L’Aquila non è solo lo sfondo ideale per la tua storia, ma è anche la città piegata da un terremoto e da scelte politiche folli: Sara, nel suo spaesamento di straniera a L’Aquila, parla proprio dell’incredulità di chi da fuori guarda alla storia incomprensibile del “miracolo aquilano”…

LB: Premetto di sentirmi un po’ sdoppiata quando parlo di questo libro, perché alcuni meccanismi li riconosco per via di quell’altro mio mestiere, per la mia abitudine alla critica letteraria, insomma, non perché io sia l’autrice del romanzo. Per venire alla tua domanda, mi sembra di poter dire che la funzione di Sara nella storia è anche quella di far risaltare le incongruenze del panorama aquilano post-sisma, il suo sguardo straniero serve proprio a quello (è lo straniamento di cui parlavano i formalisti russi). Sara arriva a L’Aquila all’inizio del 2011, in una fase di grande incertezza ma anche di grande vitalità — il 2010 aveva visto la protesta del popolo delle carriole. Adesso sembra strano anche dirla una cosa del genere, ma io quando ho cominciato a scrivere non lo sapevo che la storia mi avrebbe portato a L’Aquila. Eppure, come hai scritto nella tua recensione, la città in movimento e in trasformazione adesso mi appare come l’unico sfondo possibile per la ricerca di Sara.

MG: Sara che, per un suo bisogno di verità e innocenza, si lascia coinvolgere in questa lotta per la città…

La copertina originale

LB: Infatti. Trovo che il libro, pur parlando di terremoti, malattie e stragi, sia un libro positivo, forse per quello che tu definisci come “bisogno di verità e innocenza” di Sara, bisogno che alla fine è in gran parte soddisfatto perché Sara riesce ad orientarsi tra la confusione dei segnali che la assalgono. Durante tutta la sua avventura, il senso rischia sempre di smarrirsi in un non-senso che perversamente gli somiglia: la paccottiglia sulla mensola del caminetto assedia l’urna con le ceneri di Alice, le C.A.S.E ambiscono a sostituirsi alle case, il centro commerciale al centro storico… Eppure Sara, grazie anche ad alcuni talismani portatori di significato (il libro, la collana), riesce a farsi carico della storia della nonna, salvare quel passato remoto così caro ad Alice, accoglierlo nel suo presente, traghettarlo nel futuro, pur rimanendo se stessa anzi diventando più lucidamente se stessa, capace di seguire le fasi della luna che le indicano il tempo propizio e la direzione giusta per le sue scelte. Guarda, a dirla così viene alla luce un elemento fiabesco di cui non m’ero accorta…

MG: È un libro positivo, sì, l’ho vissuto così dalla prima all’ultima pagina. C’è qualcosa nel viaggiare e nel guardarsi da fuori e da lontano che associo inevitabilmente alla salute e all’evoluzione. Ma anche nel “guaio” di Sara, nella sua passione per l’alcol, ci vedo dall’inizio una spinta che non ha niente a che fare con l’autodistruzione. E infatti innesca delle novità importanti e per prima cosa, appunto, la porta lontano.
Continua a colpirmi come L’Aquila continui ad essere un palcoscenico ideale di storie. Ma è davvero un posto in bilico fra un prima e un dopo, e tu pure parli di Sara come tesa tra il futuro e il passato remoto.

Al Salone del Libro, Torino. 14 maggio 2016

LB: Può sembrare una banalità, ma viaggiare non serve tanto a conoscere nuovi luoghi e persone, ma soprattutto a conoscere se stessi. Sara all’inizio del romanzo è “un serpente che cambia pelle e si ritrova ad ammirarsi, stupito e vulnerabile, sulla pietra cotta dal sole”. Grazie al viaggio e all’incontro-scontro con la realtà aquilana Sara cresce, impara ad accettarsi, definisce se stessa e le proprie priorità. Tutto questo, appunto, nello scenario di una città a sua volta in bilico. Mi interessa il prima e il dopo dei tempi ma anche dei luoghi, il cronotopo, come si dice in gergo. E mi interessa come questo si leghi al linguaggio, alle parole per dirlo. Nel libro c’è una forte componente metalinguistica e (in maniera minore) metanarrativa, legata al tentativo di Alice di tenere in vita dentro di sé l’Italia, un paese che ha lasciato da giovane per mai più ritornare, attraverso la lingua e la letteratura.

MG: Ecco, quello che dici sull’evoluzione di Sara e sul prima e dopo, mi fa pensare a un passaggio del romanzo, sul legame fra lingua e cambiamento. Alice e sua figlia Jane discutono sulla scomparsa del tempo futuro dalla lingua dei Romani: è per quello che persero l’impero o, al contrario, la perdita dell’impero li indusse a smettere di usare un tempo che alimentava un’illusione? Adesso non ridere, ma io da un po’ penso alla caduta in disuso del futuro anteriore. Senza quello, fra noi e il futuro non c’è nulla. Non ci sono passaggi per arrivarci, non ci sono tempi intermedi, non c’è un “passato del futuro”. La vita perde di complessità. Come per Sara che arriva in Italia per fare una cosa, ma non immagina quante esperienze la separano dal compimento della sua missione. E come L’Aquila in quel momento, fra un passato che non c’è più e un futuro che non si vede: ma se non vede il futuro è perché non vede quel che c’è prima di quel futuro, diciamo i passaggi che lo preparano…

LB: No, no, non rido affatto! So che si rischia di sembrare pedanti a fare questi discorsi, ma all’impoverimento della lingua corrisponde l’impoverimento del pensiero. Riflettere su come ci esprimiamo è fondamentale per controllare quello che pensiamo e dunque quello che siamo. Questa storia del futuro è dell’impero romano l’ho sentita una trentina d’anni fa, quando studiavo alla Sapienza di Roma, e non l’ho mai dimenticata. Le riflessioni esplicite sul linguaggio, nel romanzo, sono affidate ad Alice, proprio perché lei, ancorata all’Italia attraverso la sua lingua, ha una consapevolezza più profonda di queste implicazioni. “I congiuntivi erano i pilastri della sua identità”, dice di lei la figlia, Jane. C’è un tempo verbale però a cui Alice dichiara guerra, e cioè il condizionale passato, il tempo dei rimpianti, che ti inganna riproponendoti un’alternativa che ormai non può più realizzarsi. Non ha senso dire ‘avrei detto’, ‘avrei fatto’ e così via, pensa Alice.

MG: Quanto c’è della tua tensione fra Italia e USA, nella storia che hai raccontato?

Laura Benedetti nei luoghi di Alice: sulle rive del Potomac (foto di Emily Langer)

LB: Una lettrice recentemente mi ha fatto notare una cosa che mi sembra importante, e cioè che tanto gli Stati Uniti quanto l’Italia sono visti come paesi stranieri. Per quanto riguarda il primo, c’è il perdurante spaesamento di Alice che getta una luce ironica su varie abitudini americane. Quando però la narrazione si sposta in Italia, il punto di vista di Sara fa sembrare insoliti elementi che altrimenti si darebbero per scontati. Inutile dire che questa sensazione di non essere mai del tutto ‘a casa’ è comune a molti emigranti.

MG: Di Sara mi piace che esplora, si lascia trasportare dal flusso della vita e degli eventi, anche ingenuamente. Attende, lascia che le cose accadano e la guidino. Non oppone resistenza. È quasi stranita mentre le cose la conducono dove deve andare. E quando la storia si concentra sul fatto che talvolta le persone stanno per caso in un posto che non è il loro posto, uno si chiede quale sia il posto giusto per Sara, la sua destinazione, sapendo anche, come direbbe Eliot, che dopo aver tanto vagato, quando torni al punto di partenza quello non è più lo stesso di prima…

LB: Il libro si interroga anche sul senso di appartenenza. Sara sente che lei, ma anche sua madre e sua nonna, sono come i tumbleweeds, i cespugli senza radici dell’ovest americano, incapaci di attecchire. Da questo le deriva disorientamento ma anche libertà. La tua immagine di Sara trasportata dagli eventi mi ha fatto pensare ad una frase che invece nel libro viene riferita ad Alice: “Bastava lasciare la presa, abbandonarsi alla corrente, e tutto quello che aveva cercato di raggiungere con sudore e lacrime le si offriva da sé” (pagina 34). È uno dei tanti fili sottili che legano nonna e nipote. Come ha sottolineato Giulio Savelli, uno dei temi del libro è proprio quello dei legami visibili e invisibili tra le persone.

MG: Questi legami visibili e invisibili sono soprattutto quelli che legano queste tre generazioni di donne…

LB: Sì, certo, è un romanzo scandito dalle fasi della luna. Un altro fine critico, Damiano Acciarino, ci ha visto un parallelo con quello che ho scritto nel mio libro su Tasso, “La sconfitta di Diana”, a proposito della dea triforme venerata come Persefone negli inferi, Artemide sulla terra e Selene nel cielo — tre declinazioni del femminile presenti anche nel romanzo.

Originally published at massimogiuliani.wordpress.com on December 10, 2016.

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Massimo Giuliani
Le storie di Tarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.