Letture sotto l’ombrellone: poetica islandese in prosa, la saga di Jón Kalman Stefánsson

Luca Lottero
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4 min readAug 28, 2016

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Dopo Independent People di Halldór Laxness, torno a sorprendermi dell’opera di uno scrittore islandese. Questa volta parliamo di Jón Kalman Stefánsson, una delle penne più interessanti e premiate degli ultimi anni, nello scenario nordico e non solo. Non per niente la sua ultima creazione Grande come l’universo (Iperborea, 2016) figurava in bella vista tra le “novità” alla Feltrinelli di Genova. I miei decidono di comprarlo e, appena il libro varca la soglia di casa, mi butto avidamente sulla lettura. Mi accorgo solo più tardi che si tratta del secondo capitolo di I pesci non hanno gambe, e rimedio prontamente acquistando online la prima parte della saga.

Chi segue questo blog da un po’ si ricorderà che per me l’Islanda ha un significato speciale. Da quando sono tornato dal mio Erasmus vive sopita in me una profonda nostalgia per quell’isola dalle atmosfere fiabesche, la cui Nazionale di calcio si è attirata la simpatia di tutti durante gli europei di giugno. Ogni tanto quella nostalgia riaffiora prepotentemente. Leggere storie ambientate nella “terra del ghiaccio” per me è anche un modo per tornare a vivere quelle atmosfere, a respirare quell’aria fredda e pulita.

La prima cosa che sorprende di I pesci non hanno gambe e Grande come l’universo è lo stile di scrittura, e i frequentissimi sbalzi spazio-temporali dell’autore. La vicenda si svolge principalmente tra il Norðfjörður (in un tempo che va circa da inizio secolo agli anni ’30 del 900), la Keflavík degli anni ’80 e quella di oggi, dove il protagonista del romanzo vive prima nelle vesti di adolescente-ventenne e poi di cinquantenne. Nel Norðfjörður (nella costa est dell’isola), invece, vive la famiglia dei nonni del protagonista, impegnata nella costruzione della nazione.

Lui (Oddur) è un pescatore e capitano che suscita rispetto e ammirazione nella comunità. Lei (Margrét) è una donna che ha visto il mondo in gioventù, che ama leggere e scrivere e che a volte si sente soffocare dalla sua terra di nascita e dal suo compagno di vita. Per Oddur, infatti, è il mare a rendere uomini, il pesce a rendere l’Islanda ricca, mentre i libri sono distrazioni che alla lunga impediscono di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Roba da svitati, insomma. Insieme, Oddur e Margrét, sono perfetta sintesi della tensione di una nazione pratica e sognante, strettamente dipendente dalle proprie risorse naturali ma che, al tempo stesso, ospita il più alto numero di scrittori sulla terra in rapporto alla popolazione complessiva.

Sono molti, infatti, nella famiglia di Ari (questo il nome del protagonista) a cimentarsi con la scrittura. Per lo più di poesie, e per lo più in modo tormentato. Ari stesso è scrittore, il primo della famiglia che riesca a conquistarsi un certo successo, ma da adulto è tormentato dai dubbi sull’effettivo valore delle parole. Altrettanti, nel libro, sono coloro che, a questa “mania”, guardano con aperta diffidenza. La tensione tra l’Islanda “lavoratrice” e quella “letteraria” torna costantemente con l’accavallarsi delle generazioni. Chi mostra di incarnare in sé entrambe le componenti viene posto, presto o tardi, di fronte a una scelta.

Foto di Sabrina Defilippi

Le vicende degli anni ’80 e quelle dell’oggi sono raccontate in prima persona dal punto di vista di qualcuno che vive a stretto contatto con Ari e ne conosce ogni pensiero e ogni sfumatura, ma che non si rivela mai. Dal modo in cui partecipa alle vicende del protagonista sembrerebbe trattarsi di un amico molto stretto, ma non si può esserne sicuri al 100%. Questo modo di raccontare genera un effetto spiazzante, così come il flusso di coscienza pressoché ininterrotto, l’assenza di punteggiatura per indicare i discorsi diretti e un uso a dir poco particolare delle congiunzioni (“…si sente un po’ come se gli toccasse inventare una nova lingua. Ma le stelle scintillano nel cielo nero…”). Tutti espedienti che donano ai due romanzi un ritmo molto particolare, incalzante al punto giusto.

Stefánsson ha scritto poesie per la gran parte della carriera, e solo in tempi relativamente recenti è passato alla prosa. E si vede. Figure retoriche audaci e un certo gusto per il paradossale accompagnano il lettore lungo tutta la storia. In genere non è il mio stile di scrittura preferito, ma una volta preso il ritmo mi sono lasciato piacevolmente sorprendere. L’autore è abile ad aprire parentesi lunghe anche pagine intere e poi a riprendere il filo del discorso. E proprio in queste lunghe parentesi si inseriscono le digressioni in cui vengono toccati i temi a lui più cari: la condizione femminile, il potere delle parole, Dio e l’eterno, per dirne alcuni.

Temi vasti e vari, che si inseriscono abilmente nel ristretto contesto di una saga familiare. Una storia che inizia quando l’inquieto Ari cinquantenne rompe bruscamente con la propria famiglia e la propria vita prima di andare a trovare il padre, ormai sul punto di morte, con cui i rapporti sono sempre stati difficili.

Di più non vi dico. Vi invito solo a farvi sorprendere, com’è successo a me, da questa prosa ipnotica e coinvolgente, che porta con sé la storia di una nazione affascinante. Il tempo degli ombrelloni è ahimè quasi finito, ma non lo è quello dei libri e delle belle storie!

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