Tre posti dove (non) sono stato e dove (non) voglio tornare — I

Nicola Laurenza
M E L A N G E
Published in
6 min readOct 13, 2022

Si dice per luogo comune che uno dei vantaggi nel leggere libri è quello di poter viaggiare stando comodamente seduti in casa. Per carità: c’è del vero nell’asserzione, che è uno stereotipo e quindi contiene un pizzico di realtà come ogni stereotipo che si rispetti. Romanticizzare la letteratura è persino giusto sotto certe soglie, ma va da sé che ogni frase ha il suo risvolto: il rovescio che assieme alle chiavi, al portafogli e a qualche caramella ti fa cascare le vecchie convinzioni e rischia di incrinartele irreparabilmente. Perché la letteratura ti fa viaggiare, certo, ma spesso ti porta in posti dove sarebbe meglio non stare troppo a lungo. Luoghi che potrebbero essere sull’atlante, forse potresti anche indicarli con l’indice e immaginarteli lì, ad aspettarti famelici dietro una patina di rispettabilità o normalità aberrante. Ed è questo a spaventare. Ecco tre posti dove in un certo senso la letteratura mi ha portato (o riportato) ultimamente, e dove non voglio tornare — ma che vorrei rileggere ancora, e ancora. E che mi hanno fatto riflettere sui ruoli e gli utilizzi del fantastico — e gli stereotipi che inevitabilmente lo investono.

1- LA CITTADINA DE “LA LOTTERIA” (E DE “LA CITTA’ DOVE NON SCENDEVA NESSUNO”)
Ecco, le cittadine americane: oramai simbolo della convenzionalità estrema capace di nascondere mostri in cantina — e non solo in cantina, ma anche alla luce del sole. Cristallizzate in un eterno, immobile pulviscolo di mezzogiorno, tra l’arsura e la noia, sono passati 74 anni da “La lotteria” di Shirley Jackson eppure è così che nell’immaginario comune ancora ci immaginiamo le small-town lontane dal trambusto frettoloso delle metropoli: ufficio postale e banca, uomini che parlano di semina e pioggia, donne che spettegolano su vecchie beghe familiari dall’aria innocente in un microcosmo dove tutti sanno tutto e la convenzionalità la fa da padrona. Ciò che mi interessa tracciare qui non è tanto una ricostruzione delle radici culturali di un determinato orrore antropologico (e del modo in cui la narrativa di genere è stata capace di usarla come mezzo per restituirne una rilettura incisiva e duratura): dovremmo andare ancora più indietro, più indietro del New England di Lovecraft; e se ci sono già gli articoli di Davide Mana sul folk horror, cui “The lottery” si inserisce come un esempio perfetto, a che pro farlo?

Quello che mi interessa notare è molto più banale: ovvero che dopo 74 anni “La lotteria” di Shirley Jackson fa ancora paura e dialoga a distanza, inconsapevolmente o meno, con altri racconti e altri posti che sono lontani a volte continenti, a volte distanziati da anni e anni di distanza. E che “La lotteria” faccia ancora una paura dannata lo so bene: l’ho letta solo un paio di settimane fa con vergognoso ritardo. E devo ancora riprendermi del tutto.

La lotteria” annichilisce perché la ricostruzione di un piccolo mondo antico — che tanto antico non è — con le sue tradizioni e dei personaggi così caratteristici è descritto con una normalità che atrofizza i sensi grazie alla maestria narrativa di Shirley Jackson: c’è un ronzio fastidioso quando si nomina questa lotteria, ma di lotterie nelle fiere di paese, o tradizioni più o meno simili, quante ne vediamo ancora adesso? Con quante di queste molti di noi sono cresciuti? Il rumore bianco persiste per tutta la durata del — brevissimo — racconto, non cambia mai di tono mentre assistiamo alla distribuzione dei nomi, alle lamentele sui giovani che stanno perdendo di vista le tradizioni e agli inconvenienti di ogni giorno. Fino a quando sul finale non arriva quell’ennesimo dettaglio che cambia tutto: il risvolto della storia mostra il non-visto, la realtà che soggiace dietro l’apparenza, quando la lotteria si appresta alla sua fase finale.

“Magari la gente aveva dimenticato il rituale e perduto la scatola nera originaria, ma come si usavano i sassi lo ricordava benissimo”.

Basta un periodo per dare alla violenza il dominio del racconto, trasfigurandolo in quello che era sempre stato e non sembrava essere lì: bambini prendono una pila di sassi. Inizia la lapidazione.

Se negli anni “La lotteria” ha ottenuto un rispetto reverenziale ispirando altri pesi massimi (citare King è scontato) lo si deve al fatto che, così come il sasso inizia a colpire Tessie Hutchinson, anche le parole della narratrice, come una fitta sassaiola, tramortiscono il lettore. Ma sono parole inserite nel tessuto di una banalità trita e ritrita; per questo le parole, è il caso di dirlo, sono pietre che fanno ancora più male una volta capito il granito di cui sono fatte. Viene da chiedersi quali mostri covava l’America — gli stessi che cova ancora oggi, che coverà domani: una prole dannata da genitori in cerca del capro espiatorio, il cui sacrificio è necessario per riportare il mondo sul proprio asse, giacché si è sempre fatto così. Fino alla prossima lotteria.

In correnti sotterranee, tra gli spazi bianchi delle pagine o tramite incontri clandestini di cui forse entrambi sono ignari, Shirley Jackson e Ray Bradbury si incrociano nelle small-town oscure che Edward Hopper ritraeva con tanta inquietante (e sospetta) tranquillità: se si osserva meglio nell’erba folta di fronte ai bovindi, o nelle stazioni di servizio isolate e linde senza un minimo di sporcizia, dovremmo aver capito che anche lì c’è qualcosa in agguato. Nel racconto “La città dove nessuno scendeva” del 1958 Bradbury decide di darsi all’esistenzialismo, facendo — con il suo solito, elegante gigioneggiare — della filosofia sull’uso della violenza come mezzo per scaricare (e redimere) una vita nell’attesa di qualcosa. Un viaggiatore di commercio scende in una cittadina qualunque, una di quelle dove non scende mai nessuno, e non vede niente di interessante lì (la cittadina vive nelle solite routine e nei silenzi di chi ha disimparato a sorprendersi, e forse non vuole neanche farlo) a parte un vecchio seduto su una sedia in stazione — una di quelle stazioni che Hopper poteva aver dipinto — che inizia a seguirlo. Lentamente l’anziano confida al viaggiatore della sua vita in stasi da vent’anni lì sulla sedia, ogni giorno da quando è andato in pensione nell’attesa di un segnale, di qualcosa che possa cambiargli per sempre il significato di un’esistenza seduto lì ad aspettare. Ed il segnale era questo viaggiatore: il vecchio vuole ucciderlo perché sa che non verrà mai ricercato, così da sfogare in un colpo solo di revolver o coltello tutto ciò che ha dovuto reprimere per decenni (“Per tutta la vita ho imbalsamato corpi, li ho messi nella cella frigorifera del mio cervello. A volte ci si infuria con una città e con la gente che ci costringe a riporre così certe cose. E si comincia ad amare gli uomini delle caverne, che cacciavano un grande urlo e calavano un colpo di clava sulla testa di qualcuno”.) Quando il viaggiatore confida all’anziano che anche il suo desiderio covato per anni e anni era in realtà quella di commettere un omicidio per scatenare quella violenza racchiusa da tempo nelle strette della civiltà (glielo confida come una rivelazione a sé stesso: una pulsione latente che l’anziano fa riaffiorare con la sua febbre omicida) i due se ne vanno mesti, abortendo i loro propositi d’assassinio. Entrambi i racconti di Jackson e Bradbury potrebbero essere ambientati in una cittadina qualunque, tutti i personaggi sono persone qualunque. Basta un piccolo strappo alle apparenze per far fuoriuscire l’orrore — e non ci sono mostri, solo esseri umani.

(Segnalo necessariamente una recensione sulla graphic novel de “La lotteria” a opera di Kara Lafayette, uscita in Italia per i tipi di Adelphi.
La traduzione degli estratti dal racconto di Bradbury è di Laura Grimaldi.)

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