Con Amin Maalouf, nel mezzo del naufragio

L’intellettuale libanese, giornalista, sociologo e romanziere ha appena pubblicato il suo ultimo libro, Il naufragio delle civiltà, per spiegare perché il mondo come lo conosciamo si trova oggi alle soglie della catastrofe.

Munizioni Bompiani
Munizioni Bompiani
7 min readNov 20, 2019

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In un mondo in cui gli intellettuali sono una specie in via di estinzione, scherniti, stigmatizzati e isolati dalla politica, la voce di Amin Maalouf, giornalista e sociologo libanese, membro della Académie française, è una delle più acute nell’osservare il mondo che ci circonda e tra le più abili a descrivere con parole lucide le traiettorie della storia.

Le parole sono munizioni e quelle guidate dalla prospettiva universalista di Amin Maalouf meritano di far parte del bagaglio di ognuno di noi. Sono parole di lunga gittata, ci fanno guardare lontano. Parole misurate e precise, perché, come Maalouf scrive nel suo ultimo saggio edito da La Nave di Teseo e intitolato Il naufragio della civiltà, è “necessario — se non imperativo — avvisare, spiegare, esortare e prevenire. Senza pessimismo, condiscendenza né scoraggiamento. E soprattutto senza astio.”

Perché ha scelto la parola naufragio?
Ho scelto la parola naufragio perché è una parola potente, che si rifà al mare, ma non soltanto, che ha in sé un senso che va oltre, evoca qualcosa che dovrebbe funzionare a meraviglia ma che a un certo punto smette di farlo.

Quali sono le prove più evidenti di questo naufragio?
Pensiamo alla Gran Bretagna, alla grande democrazia britannica, al suo parlamento, che negli ultimi mesi e settimane ha dato di sé uno spettacolo grottesco. Insomma, è un bel naufragio. O ancora, che cosa possiamo dire ogni volta che ci troviamo a leggere i tweet di un certo personaggio che non ho bisogno di nominare, messaggi scritti con parole volgari, difficilmente ripetibili. Un gran naufragio morale. E gli esempi continuano, si moltiplicano davanti ai miei occhi. Basta guardare cosa stanno diventando molti paesi arabi, la Libia, la Siria, ma anche l’Egitto e la Tunisia. Mi viene francamente impossibile non pensare: “Mon dieu, quel naufrage.”

Perché invece ha usato la parola civiltà al plurale?
È un piccolo richiamo a quel dibattito sul conflitto delle civiltà che ha tanto infiammato gli animi di storici e filosofi al cambio di millennio. In molti sostenevano che diverse culture e civiltà si sarebbero divise il mondo e si sarebbero affrontate, e io scuotevo la testa e mi veniva da dirgli che quello a cui avremmo assistito sarebbe stato, al contrario, un naufragio complessivo di tutte le civiltà. La mia cultura di origine forse il naufragio l’ha già vissuto, ma osservo quello che sta succedendo negli Stati Uniti e in Europa, e mi dico anche qui: “Mais quel naufrage!”

In molti però questo spettro della guerra di civiltà continuano ad agitarlo in faccia ai propri elettorati. Non crede che invece siamo di fronte, di nuovo e più semplicemente, a una lotta di classe globale, la solita, vecchia guerra tra ricchi e poveri?
Io non credo e non ho mai creduto un solo istante al conflitto tra civiltà. Chi lo agita agita una fantasia, un’invenzione. Ciò che esiste sono conflitti tra tribù che si travestono da civiltà, anche quando si parla di religione. Non è assolutamente vero che ci siano religioni in conflitto. Si tratta di nazionalismi a connotazione religiosa. I veri conflitti religiosi sono quelli avvenuti in Europa nel XVI secolo: c’erano persone che appartenevano a religioni opposte che combattevano per prevalere. Oggi, come dicevo, abbiamo delle tribù che si combattono e che si dichiarano guerra in nome di qualsiasi cosa quando il momento consente loro di farlo. Quando possono le chiamano guerre di religione, ma non esitano, nel caso professino il medesimo credo, a odiarsi per altri motivi: perché non sono della stessa comunità, perché non parlano la stessa lingua.

La caduta, il naufragio, è una sensazione che quasi tutte le civiltà hanno sperimentato nella storia. Perché questa dovrebbe essere più vera delle altre?
Se dovessi cercare di spiegare che cosa c’è di nuovo in questa crisi rispetto al passato indicherei come prima cosa il fatto che una volta mentre una civiltà crollava un’altra era in ascesa. In questo momento non c’è una civiltà che sta crescendo. Non c’è un’altra forma di universalismo. C’è un insieme di paesi che si credono portatori di una civiltà ma che attraversano invece crisi profonde e diverse l’una dall’altra. Alcuni può darsi che non siano ancora in crisi: penso per esempio alla Cina. Ma la Cina non ha nessuna proposta alternativa a quella occidentale da mettere sul tavolo. Vuole solo il suo posto nella scacchiera, e andrà a finire col battersi con le altre grandi potenze, ma non ha un progetto alternativo.

E gli Stati Uniti? E l’Europa?
Anche gli USA sono in una crisi nerissima, che non è cominciata con l’elezione di Trump, ma che si è dispiegata negli ultimi trent’anni e che ora sta arrivando al suo apice. L’Europa resta ai miei occhi la realizzazione più straordinaria degli ultimi settant’anni, ma è in una crisi molto più profonda di quello che possiamo immaginare, ormai una crisi esistenziale. Non si tratta più di un paese solo che se ne potrebbe andare, ma di una dinamica molto più allargata e devastante. Stiamo perdendo completamente la strada.

Crede che ci sia una via d’uscita per l’Europa?
Abbiamo bisogno al più presto di rifondarla e non è facile farlo in così tanti. È veramente una crisi durissima, ma io resto fiducioso che si possa risolvere. Sarà una cosa lunga, difficile, faticosa. Non serve a niente pensare che sia un problema che riguarda la Gran Bretagna soltanto; è un problema che vedete anche qui in Italia, per esempio. Tanta gente è frustrata e delusa da come stanno andando le cose.

Cosa abbiamo sbagliato? Che cosa ci ha spinto a questo punto, fino al naufragio?
Credo che abbiamo totalmente sbagliato a gestire il passaggio dall’Europa occidentale all’Europa unita e allargata. Alla caduta del Muro di Berlino il progetto andava ripensato in maniera da includere i nuovi paesi e trovare una nuova strada. Quello che univa prima l’Europa era il fatto che ci fosse un nemico da sconfiggere: un noi contro loro. Quando loro hanno smesso di esistere bisognava ripensare l’intera architettura, ma non l’abbiamo fatto e ora ci ritroviamo sperduti. Che cos’è l’Europa? Chi ci sta dentro e chi no? Su che basi? Abbiamo sempre avuto paura di rispondere a queste domande, di entrare in territori delicati, di arrivare all’essenza. Era un dibattito che non avevamo voglia di fare, ma era necessario. Dovevamo avere il coraggio, ma non l’abbiamo avuto.

Assistiamo in tutta Europa all’ascesa di movimenti nazionalisti, sovranisti, dalle movenze fasciste. Non è paradossale rivedere questi fenomeni crescere a vent’anni dalla fine del Novecento, ormai in teoria superati dalla Storia di questo XXI secolo globale?
Sì, è vero, ma è un paradosso comprensibile. È una reazione. Abbiamo vissuto la diffusione della convivenza tra popoli, culture, religioni, lingue quasi dovunque con una tale velocità che ci siamo ritrovati con una vicinanza molto complicata. È il prodotto della mondializzazione e richiedeva di essere affrontato in un’altra maniera. Non siamo stati capaci di farlo. E ora questa convivenza sta producendo frizioni e tensioni. È una cosa normale, intendiamoci, perché quando due persone vivono una a fianco all’altra non è affatto detto che si stiano simpatiche e che facciano amicizia. Ne abbiamo infiniti di esempi, nella storia, e di solito la prima tendenza che si verifica è una lotta in cui ciascuno degli attori afferma se stesso. Senza una gestione esplicita, intelligente e lungimirante dobbiamo aspettarci che possa succedere qualsiasi cosa. Non stiamo facendo nulla per affrontare lucidamente queste questioni, è molto pericoloso.

Che ruolo politico dovrebbe avere un intellettuale?
Abbiamo avuto per decenni un mondo che ruotava intorno a una lotta ideologica binaria, netta. Oggi, invece, ci siamo allontanati da qualsiasi dibattito ideologico e ciò ha avuto effetti su tutte le ideologie, non solo sulle due che si sono fronteggiate nel Novecento. Oggi l’intellettuale non ha quasi più posto nella società, viene addirittura stigmatizzato dal potere, che si vanta di non sapere e di non aver studiato. Ma nemmeno la voce degli intellettuali basterebbe per invertire la rotta. Per cambiare abbiamo bisogno del ritorno della politica. Gli intellettuali possono dare le loro idee, ma servono anche forze politiche che siano in grado di cogliere questi spunti e trasformarli in realtà. La politica di oggi ha un gigantesco problema di immaginazione, di creatività, di prospettiva. Costruire la vita comune, in una società, ha bisogno di creatività. Non arriva spontaneamente, né soltanto col tempo.

Dopo la caduta degli -ismi, ora nel mondo si aggira lo spettro di una -logia, che sta unendo milioni di persone in tutto il mondo, l’ecologia. Lei pensa che potrebbe essere un’ideologia in cui credere e a cui affidarsi?
L’ecologia deve far parte per forza di un nuovo pensiero umanistico che voglia influire sulle sorti dell’umanità e del pianeta, ma in se stessa non è sufficiente. L’ecologia è ideologicamente neutra, può condurre a tutto e al contrario di tutto. Immagini un mondo in cui un potere ecologista assoluto decida che una parte della società è un peso per l’altra e agisca di conseguenza. È assolutamente plausibile. Possiamo immaginarcela, l’abbiamo già letta nei libri di fantascienza, una sorta di tirannide in nome della salvezza del pianeta. Sappiamo che potrebbe anche prendere pieghe molto pericolose.

Dopo aver scritto del nostro naufragio, è ancora ottimista?
Vuole sapere quello che penso veramente? Io sono sicuro che il mondo che conosciamo attraverserà delle scosse molto forti, ma anche che dopo queste scosse ci sarà una presa di coscienza che ci porterà a risolvere i problemi. Li risolveremo.

Questo blog è nato e vive insieme a Munizioni, la collana Bompiani diretta da Roberto Saviano, e come la collana vuole essere luogo di incontro per parole libere, voci, punti di vista da tutto il mondo. Intervista realizzata da Andrea Coccia.

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