Francesca Mannocchi: “Scrivere è tornare a dare un nome puntuale alle cose”

Munizioni Bompiani
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10 min readNov 20, 2019

Francesca Mannocchi, giornalista freelance, scrittrice e documentarista, ha una lunga esperienza in zone di guerra, nel 2019 ha scritto un libro sul traffico di uomini in Libia e girato un documentario sull’Isis.

Foto di Daniele Raineri

Francesca Mannocchi è una giornalista come ce ne sono poche, che ama confrontarsi con la complessità senza mai ridurla o banalizzarla. Collaboratrice dell’Espresso e di Propaganda Live, quest’anno ha pubblicato per Einaudi un libro potentissimo, Io Khaled vendo uomini e sono innocente, nel quale dà voce tra romanzo e reportage a uno di quelli che siamo soliti chiamare cattivi, un trafficante di uomini. È anche coautrice del documentario Isis, Tomorrow e del libro Porti ciascuno la sua colpa, pubblicato da Laterza, entrambi dedicati ai figli dello Stato Islamico, bambini nati con addosso la colpa e la rabbia dei padri e il cui destino è più che mai incerto dopo la caduta del Califfato.

Rigorosa, metodica, caparbia, come tanti suoi colleghi ha cominciato a fare la giornalista ai tempi dell’università, facendo gavetta in alcune radio private di Roma e in una piccola emittente satellitare, fino a quando ha avuto l’occasione di confrontarsi con le realtà più importanti del giornalismo televisivo italiano, approdando prima alla redazione di Report e poi a quella di Piazzapulita. Fin qui la carriera di Francesca Mannocchi è simile a quella di molti altri brillanti giornalisti italiani. Poi però qualcosa cambia. Nel 2014, dopo qualche mese di riflessione sul suo lavoro, Francesca fa un passo di lato, decide di tornare a essere una freelance. Anzi, come dice lei stessa: “di cominciare a esserlo per la prima volta”.

“Il modo in cui guardo il mio lavoro oggi, pur essendo in sostanza il medesimo lavoro che facevo quindici anni fa, non è per niente lo stesso,” racconta misurando ogni parola. “Da allora, per me, il mio lavoro è un’altra cosa.”

Che cosa è successo?
È arrivata a maturazione una frustrazione che covavo da qualche mese. Sono grata a tutte le persone con cui ho lavorato perché mi hanno dato fiducia e spazio, ma quel modo di raccontare, con la sua grammatica della fretta, dell’urgenza, della semplificazione non corrispondeva più alle aspirazioni che avevo per la mia vita lavorativa, per il mio tempo e soprattutto per la mia curiosità verso il mondo, una curiosità che sentivo in qualche modo insoddisfatta.

Quanto è stato difficile lasciare un posto così ambito e riconosciuto?
È stata una scelta molto travagliata, perché questo paese, per una stanchezza intellettuale che lo innerva, non riesce ad accettare la dignità del lavoro indipendente. E questo mi faceva paura.

Mi spieghi meglio?
Il nostro è un paese fatto di gruppi, talvolta di branchi. Non solo in politica, ma anche e soprattutto nell’ambito dei lavori intellettuali. La mia preoccupazione era sbattere contro porte chiuse, andare verso un precipizio, una serie di rifiuti, proprio perché all’improvviso — e per molti senza ragione — ho scelto di essere eterodossa. Io non rifiuto la logica del commercio nel mondo editoriale. Non possiamo pensare di lavorare in purezza in un mondo che è fatto anche di mercato: saremmo dei visionari, dei Don Chisciotte senza futuro. Per me gli anni passati nelle redazioni sono senz’altro stati utili per conoscere un sistema, che è un sistema intellettuale ed editoriale ma è anche un mercato, che sento per certi aspetti di dover combattere con forza.

Per esempio?
Ci sono state cose che, a un certo punto della mia vita lavorativa, sono diventate intollerabili, emotivamente non sostenibili. La grammatica dell’esclusiva e quella dell’emergenza erano modalità nelle quali non riuscivo più a entrare con il mio linguaggio. Non riuscivo a farmele imporre.

Che difficoltà hai avuto in questo percorso in quanto donna?
In questo credo di essere stata molto fortunata, perché nelle poche redazioni in cui ho lavorato non ho mai sofferto una differenza di trattamento legata al genere. Dirò di più: nella redazione di Piazzapulita le capacità delle donne erano cruciali nella gestione dei servizi e la distribuzione del lavoro non è mai stata quella “classica” della redazione governata da uomini che lasciano alle donne i ruoli di segreteria. Detto questo, riconosco che un problema di genere esiste. Io però, per una inclinazione caratteriale, ho sempre modulato i rapporti lavorativi con un grande rigore legato alla competenza e ho la sensazione che quando fai così, quando ti comporti in modo metodico e caparbio, alla fine il genere passa in secondo piano. Secondo me il vero problema è quello di una situazione incancrenita legata alle posizioni di potere che sono storicamente occupate soprattutto da uomini, in questo paese e non solo.

In un mondo invaso dalle parole, svilite sempre più spesso a polemiche, a insulti, a battute ciniche, la parola vera, letteraria o giornalistica che sia, quella che racconta la realtà e che ti ha spinto a uscire dalle redazioni per diventare freelance, ha ancora spazio, ha ancora potere?
Prima di rispondere ti racconto un aneddoto. Una parte della mia libreria è composta dai miei scaffali della resistenza: uno di questi è dedicato alle poesie, dove spiccano i volumi della collana Bianca di Einaudi, e un altro ai testi di Wittgenstein. Ogni tanto, la mattina presto, prendo un libro da quegli scaffali e leggo qualche pagina. L’ho fatto anche stamattina, prima di questa intervista. Mi sono fermata su una frase dei Pensieri diversi di Wittgenstein che recita così: “Le parole sono azioni.” È una frase semplicissima, ma contiene in sé un modo di guardare il mondo. Leggendola ho ripensato a quanto siano state proprio le parole che usiamo per raccontare il mondo la ragione per cui ho cominciato a lavorare in un’altra maniera. Il mio sguardo sul mondo era sempre lo stesso, ma non riuscivo più a restituirlo all’interno di quella griglia.

Quindi, tornando alla domanda, che potere ha la parola?
Ha il potere della pazienza. Ha il potere del diapason, se mi permetti di giocare con le metafore. Credo che noi che scriviamo di quello che accade nel mondo o di quello che accade nel nostro paese, oppure che scriviamo e basta, dobbiamo cercare di restituire l’appropriatezza delle parole: dobbiamo dare un nome puntuale alle cose. Oppure abbiamo il dovere di consegnare delle domande. Bisogna uscire dalla presunzione che ha avuto e spesso ha ancora il giornalismo, che non è solo una presunzione semplificatoria ma anche assertiva. Sembra dirti continuamente: “Io sono qui a dirti come si fa.”

Che tipo di rapporto credi debba instaurarsi tra chi scrive e chi legge?
Io penso che il lettore e lo scrittore possano e debbano in qualche modo fare un cammino comune di domande, più che di risposte. Le risposte spesso sono compiaciute, le analisi sono un’espressione di nuovo presuntuosa delle cose che si crede di aver capito. In questi due anni, con il libro su Khaled e con il libro sull’Iraq, ho raccolto i dubbi che i lettori hanno voluto condividere con me. E questa cosa per me è stata molto preziosa, perché in un momento così delicato e fluido della vita politica non solo italiana sono convinta che il percorso di conoscenza e di attribuzione alle parole vada fatto in maniera collettiva. E ciò può avvenire solo attraverso il dubbio e non attraverso risposte apodittiche.

Tu nasci come giornalista, ma nel libro hai usato la prima persona, cosa che nel giornalismo si fa poco, ma soprattutto hai usato un io che non sei tu. Come mai questa scelta?
La scelta della prima persona maschile è stata la più grande e decisiva sfida degli ultimi anni. In realtà ho scritto il libro di getto, in due mesi e mezzo, ma riuscire ad accettare il passaggio dal rigore giornalistico per come lo interpreto io — mai usare il pronome personale io, mai entrare nella storia, lasciar parlare i fatti e non le opinioni — a una griglia di evidente finzione è stata una sfida enorme, sebbene ho ascoltato e addirittura registrato molte delle cose che racconto.

Cosa ti ha insegnato la scrittura di Khaled?
Dopo Khaled la mia scrittura è cambiata e non credo tornerà mai più la stessa. Quello che mi ha insegnato, e che mi ha addirittura ferito, è la commozione che è stata in grado di suscitare in molti lettori che hanno sentito il dolore delle persone che ho raccontato. All’inizio ne ho molto sofferto, perché mi sono detta: “Ma come? Io queste storie le racconto da anni. Non è la prima volta che parlo di un migrante torturato, di una madre che ha visto annegare il figlio. Perché prima nessuno è riuscito a leggerle con queste lenti?”

Che risposta ti sei data?
Che questo libro mi ha dato la possibilità di esprimere le mie opinioni senza farle entrare nella narrazione, nello specifico ha liberato il mio sguardo sulla Libia e mi ha consentito di raccontare una cosa che nel giornalismo ormai si è quasi del tutto smarrita: il contesto in cui i fatti si verificano. Prima di cominciare a scrivere il libro ho riletto quasi tutti i miei vecchi articoli sulla Libia e dalla Libia e mi sono resa conto colpevolmente che lì Gheddafi era citato due o tre volte, non di più. Non che io non fossi edotta delle conseguenze sociologiche, storiche e politiche di quarant’anni di dittatura sulla popolazione e sulla situazione attuale, anzi, ma i tempi e i modi del giornalismo non mi consentivano di unire tutti i puntini della storia, il prima e il dopo. Scrivere Khaled attraverso la voce di un libico è stato il mio modo di raccontare un paese prima ancora di un fenomeno. In fondo quando penso a Khaled penso alla storia di un sistema, non alla storia di un uomo.

Hai scritto un libro che fa parlare in prima persona un cattivo. Che difficoltà hai avuto e che possibilità in più ti ha dato?
Quando ci siamo seduti a ragionare su questo libro, prima con Paolo Repetti e poi con quella che è stata la mia splendida editor, Rosella Postorino, abbiamo riflettuto molto su come affrontare il fenomeno del traffico di uomini. Una delle alternative più naturali era farlo attraverso la voce di un migrante. Io però ho pensato che per i lettori sarebbe stato un racconto inevitabilmente assolutorio, e lo credo ancora fortemente.

In che senso?
Con il migrante che soffre empatizzi in automatico, ti commuovi, ne riconosci lo stato di minoranza determinato dalle sofferenze. Lo fai quasi senza riflettere, d’istinto, ma non ti interroghi mai sulle motivazioni che hanno creato quel fenomeno complesso che è la tratta di uomini. Il racconto del dolore, per ragioni legate allo status politico che l’idea della vittima ha assunto in questi anni, non avrebbe spostato di un centimetro la comprensione dei lettori. Quindi mi sono detta che l’unica possibilità che avevo come scrittrice, prima che come giornalista, di raccontare quelle poche cose che avevo capito della Libia e del traffico di uomini sarebbe stata restituendo lo stupore che io stessa ho provato quando mi sono trovata davanti a un migrante riconoscente nei confronti di un trafficante. È in quella contraddizione che si annida la motivazione del fenomeno.

Mi spieghi meglio questa contraddizione?
Un trafficante è in realtà un Giano bifronte. È feroce ma necessario, dove necessario non significa buono o giustificato, significa necessario in senso eminentemente filosofico: è così e non può essere altrimenti, perché le persone non possono spostarsi in altro modo.

Di cattivi te ne sei occupata anche nella storia al centro del documentario Isis, Tomorrow. Quanto è difficile raccontare la complessità in un mondo che tende non tanto a semplificare per comprendere quanto a ridurre per banalizzare?
È molto difficile. Allo stesso tempo però credo che sia l’unica sfida rimasta per chi vuole fare il nostro mestiere: scegliere un racconto laterale, un racconto controsenso, andare contromano in autostrada. Anche su a Isis, Tomorrow, c’è un aneddoto che vorrei raccontarti e che ci ha fatto sentire l’urgenza di lavorare a un prodotto che sfuggisse alla stretta cronaca degli eventi di una guerra che è stata iper mediatizzata, la guerra Mosul. Un giorno, in pieno conflitto, stavamo mangiando un panino con i felafel durante un pranzo con il nostro team iracheno, l’autista e il traduttore, parlando di quella che sarebbe stata la sorte dei figli dei miliziani, uno dei due mi disse una frase che non ho mai dimenticato: “L’esercito iracheno ne ucciderà il più possibile, e in effetti che cosa devono fare altrimenti?”. Parlava dei bambini, dei figli dei miliziani e non lo diceva in tono provocatorio, bensì con un senso di ineluttabilità, come un monito. Era un modo per dire a me, come amica, come giornalista e come occidentale, che avevamo sempre agito con cecità, costringendoli a scelte inevitabili, feroci e drammaticamente semplici. E fu proprio questa idea che si dovesse combattere l’Isis con una furia violenta che ci ha fatto sentire l’urgenza di provare a raccontare le storie dei figli di coloro che consideravamo carnefici, di uscire da quel monolite nero che era la descrizione dell’Isis per come l’avevamo fatta negli anni precedenti. Così è nato Isis, Tomorrow.

Sei ottimista sul fatto che il tuo lavoro possa effettivamente avere un seguito e possa farci prendere la strada migliore, se ancora è possibile, di fronte alla realtà che abbiamo davanti?
Sì, io sono ottimista perché sento e vedo che le cose possono essere raccontate in un altro modo. Lo sento nelle parole di chi incontro in luoghi devastati dalle guerre, dalla povertà, dal dolore, dalle ingiustizie sociali. E lo vedo perché riconosco che esiste un bacino di persone piene di dubbi in questo paese, anche dove non ti aspetti. Penso che i ragionamenti complessi e privi di pregiudizi abbiano bisogno del triplo della tenacia di quelli semplici, e che quella a loro favore sia una battaglia di resistenza dei nostri tempi, una battaglia che dobbiamo condurre con forza, per cambiare le parole, cambiare linguaggio, cambiare l’ascolto, ma soprattutto per interrogarci sul nostro modo di dire le cose. Perché se non c’è stata una comprensione accurata di fenomeni complessi come il terrorismo, come il traffico di uomini, come il cambiamento climatico — per citare una cosa di cui non mi occupo ma di cui sono ovviamente interessata — è senz’altro perché è cambiata la grammatica, ma anche perché forse noi non siamo stati capaci di contrastare questo fenomeno.

Questo blog è nato e vive insieme a Munizioni, la collana Bompiani diretta da Roberto Saviano, e come la collana vuole essere luogo di incontro per parole libere, voci, punti di vista da tutto il mondo. Intervista realizzata da Andrea Coccia.

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