“La letteratura? Deve avere il coraggio di sporcarsi le mani”

Un’intervista ad Antonio Moresco sul potere delle parole e sulla necessità, soprattutto da parte degli intellettuali, di tornare ad agire e ad avere il coraggio di affrontare la realtà.

Munizioni Bompiani
Munizioni Bompiani
12 min readNov 20, 2019

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Antonio Moresco durante la presentazione di Canto di D’Arco (SEM). Foto di Alessandro Zambon

Antonio Moresco è, da sempre, un libero battitore. Un fiero outsider nel panorama letterario italiano, uno scrittore tra i più alti e al tempo stesso tra i più coraggiosi nel fare i conti con la realtà, con ciò che molti considerano “basso”, utilizzando — come anche fa nel suo ultimo Canto di D’Arco, in libreria per SEM — strutture e moduli di genere.

Moresco è uno scrittore complicato, considerato da molti iper intellettuale, ma contemporaneamente è anche un attivista, uno che esce dai propri libri e organizza azioni nel mondo reale, come le camminate che creano “cerniere” umane attraversando pacificamente confini e superando montagne. Autore di pagine che grondano sangue, lo scrittore mantovano mette spesso il lettore di fronte a ferite, tagli, spaccature, brecce da affrontare. Conosce a fondo il potere esplosivo della parola e vi attinge senza paura.

La parola può essere un’arma, una munizione, un proiettile?
Secondo me la letteratura è un passaggio, qualcosa che apre una fessura nei possibili e permette di attraversarli. Lo può fare in vari modi: attraverso un meccanismo di demistificazione, di denuncia, o attraverso l’invenzione, la profezia. Kafka lo faceva in un modo, Melville in un altro, Swift in un altro ancora. Ma tutti aprivano una breccia nei possibili. Ti facevano vedere qualcosa in divenire, una possibilità del mondo, positiva o negativa. Per questo, credo, nei miei libri ritorna spesso questa idea della breccia, del taglio, della cruna. Quindi sì: la letteratura è uno strumento, un’arma. Se è veramente letteratura, deve essere una lacerazione nella maschera del mondo, deve attraversare la cruna, deve portarci al di là del passaggio, non deve limitarsi a descrivere, deve agire.

Crede che questo potere di rottura della parola esista ancora nonostante le parole intorno a noi si siano moltiplicate a dismisura?
Oggi è tutto più difficile, escono troppi libri. Quando ero ragazzo io gli editori pubblicavano molto meno, facevano una forte selezione a monte ed era più facile orientarsi. Mi ricordo che in libreria c’erano collane che facevano uscire libri come Il male oscuro, La vita agra, e che ti offrivano già qualcosa di fortemente selezionato. Adesso c’è una pubblicazione alluvionale, che deriva dal bisogno di occupare spazi nelle librerie. Poi c’è l’esplosione orizzontale della letteratura di genere, in cui c’è dentro di tutto: da roba forte, ben fatta, potente, a roba fatta male, prodotta a manovella. È più faticoso, ma se cerchi di roba buona ce n’è ancora. In ogni caso purtroppo dobbiamo registrarlo: si è operato da molti anni, già dalla fine del Novecento, un depotenziamento della parola scritta e letteraria.

A proposito de i generi, come fa lei a coniugare i moduli e le strutture ripetitive e “commerciali” tipiche dei generi con l’aura letteraria? Operazione che le riesce anche in questo suo ultimo Canto di D’Arco
Il postmodernismo ha operato un livellamento perché diceva che tutto fosse gioco e che quindi non ci fosse alcuna differenza tra alto e basso. Ha abbassato tutto, ha teorizzato sostanzialmente l’irrilevanza della parola scritta. Bene, io la penso nella maniera opposta: io voglio alzare tutto. Dare forza, non indebolire. Da questo punto di vista, per me, la divisione manichea tra alto e basso, ovvero quella che vuole da una parte lo scrittore abatino che si mette lì e fa il suo compitino e per ciò stesso si sente il marchietto di pura lana vergine, di essere migliore o superiore degli altri, e dall’altra dei produttori seriali di libracci, mi sembra terribile. Io vengo dal basso. Io non ho fatto l’università. Non riuscivo a leggere e a scrivere, ero dislessico. Ho imparato a leggere perché mi sono ritrovato tra le mani un libro di Salgari, non sono per niente schizzinoso. Per me della letteratura non si butta via niente, bisogna vedere caso per caso.

Viviamo un momento storico molto strano. Per la prima volta abbiamo l’impressione che le nostre peggiori fantasie si stiano avverando ed è come se il limite tra il reale e la fantascienza venisse continuamente superato. Che cosa ne pensa?
Il mondo di oggi si presenta molto spesso come una realtà allucinante e allucinatoria. Sono anni che gli scienziati ci annunciano che siamo di fronte a una estinzione di specie, ma, a parte gruppi di ragazzi o di attivisti, nessuno fa nulla, né a livello del potere né a quello della società. E quindi sì, la realtà sta superando la fantascienza e così facendo sta svelando la natura prefigurativa che può avere la letteratura, che può essere addirittura profetica. Quando Kafka scrive la Metamorfosi e Il Processo compie un gesto di profezia: racconta quello che sta per accadere all’umanità. C’è un aneddoto molto divertente che racconta che Lukács, il teorico del realismo, che a un certo punto, nonostante fosse uno ligio la partito, venne arrestato dalla macchina stalinista e viene portato via, una notte, perché anche lui era diventato sospetto. Lui non si rendeva conto. Pensava di essere uno dei più fedeli alla linea, ma si ritrovava a essere arrestato come gli altri: si dice che allora qualcuno gli abbia fatto notare che in fondo, forse, forse era proprio Kafka il più realista di tutti.

La frattura tra alto e basso in realtà è piuttosto recente, tutta novecentesca. Che cosa è successo?
È successo che la letteratura a un certo momento si è autoproclamata come uno spazio auratico, separato, dove molto spesso i propri limiti erano la ragione stessa del sentirsi superiore. Be’, a me queste cose fanno incazzare. Io prendo tutto ciò che c’è di forte e di buono, non faccio distinzioni, come non le facevano gli artisti del passato e non solo in letteratura. Prendi i grandi musicisti, Beethoven, Brahms e tutti gli altri: dentro la loro musica ci infilavano persino le canzonette. A me stanno sui coglioni le separazioni, le gabbie. Ora è tutto un lavorare per ingabbiare, per chiudere, per dividere ciò che era indiviso, mentre a me interessa l’indiviso.

Come si può ricomporre questa frantumazione?
Non vengo dalla scuola, non ho fatto l’università, ho cominciato a imparare a 30 anni dopo un periodo in cui ho fatto tutt’altro, la fabbrica, la lotta politica, quindi questi effetti li ho visti tutti. Non ero garantito o protetto dal mondo, dalla vita, dal caos, dal dolore, dal male. Li avevo vissuti, sapevo come stavano le cose. La pretesa di costruire questo piccolo parco giochi per eletti che ci stanno dentro perché conoscono il linguaggio cifrato che li fa sentire migliori mi ha sempre fatto orrore. Come si fa a uscirne? Ti devi sporcare le mani, non devi avere paura, devi addentrarti in un territorio ignoto, in cui non sei protetto e in cui ti prendi dei rischi. È così. Io i rischi me li prendo sia nei libri sia nella realtà e, per esempio, accanto ai miei libri ho anche messo in piedi delle azioni, dei cammini, degli incontri tra persone con grande significato, anche politico. Quello che avevo da dire, insomma, ho anche cercato di renderlo reale, attraverso incontri di persone che fanno cose eccezionali, che sembrano impossibili, coinvolgendo le persone in prima persona. Quando vai a un comizio compi un gesto passivo, arrivi, ascolti, applaudi e te ne ritorni a casa. Diverso è quando fai 1200 chilometri a piedi in un mese, attraversi le Alpi, compi imprese che pensavi impossibili e quando torni a casa alla fine non sei la stessa persona che è partita.

Questo conflitto tra “alto” e “basso”, così come tutte le polemiche di cui sono innervati gli spazi virtuali in cui passiamo sempre più tempo, se rapportato alla crisi ecologica che abbiamo di fronte, fa quasi sorridere per quanto è minuscolo e irrilevante. Come facciamo a uscire da questa impasse e agire?
Bisogna fare avvenire una metamorfosi nelle persone. Bisogna far loro comprendere che sono più forti di quello che credono di essere e queste azioni, questo grado elementare di comunità, danno loro questa sensazione. È importante. Stiamo vivendo una guerra contro noi stessi e questo genere di iniziative, come “Terrestri”, che abbiamo organizzato a Napoli il prossimo novembre, eventi che ricostituiscono i rapporti, le relazioni, il tessuto sociale, tolgono il terreno sotto ai piedi ai politici, che sono ancorati a una idea di potere che si fonda sulle delle strutture economiche ben definite, che fondano la propria riuscita sulla divisione. L’operazione dei “Terrestri” non è in fondo nient’altro che l’affermazione di un nuovo tessuto sociale e di una idea di fratellanza senza muri e senza confini, una cosa che terrorizza il potere.

Perché?
Perché questi agitatori di paure hanno bisogno del nemico, sempre, e lo identificano una volta negli ebrei, un’altra nei terroni, un’altra negli zingari, un’altra ancora nei migranti. Quello che le forze sovraniste e nazionaliste vogliono fare è molto chiaro. Operano per creare di continuo delle identità da far poi giocare le une contro le altre e in un momento storico come questo è una cosa completamente folle. Hanno bisogno di questi spettri perché quello che devono difendere è il loro poterino, la loro poltroncina. Inventano conflitti che non esistono e dividono le persone piuttosto che unirle. Da qui siamo partiti per creare i “Terrestri”, perché ci siamo chiesti: ma è mai possibile che tra tutte le identità divisive che si affermano ogni giorno non possiamo trovarne una affratellante e inclusiva? Siamo tutti sulla stessa zattera che va alla deriva nell’universo e in termini di specie stiamo per rischiare veramente grosso. Gli scienziati parlano di sesta estinzione di massa, la quinta, per intenderci, era quella dei dinosauri. E sappiamo bene che in passato sono bastati cambiamenti climatici minori a quelli che stiamo vivendo ora per cancellare intere specie. Per questo motivo abbiamo chiamato il nostro incontro “Terrestri”. Si svolgerà dal 14 al il 17 novembre a Napoli, nella villa in cui Leopardi ha passato gli ultimi mesi della sua vita. Avremo degli ospiti internazionali, che hanno accettato di venire volontariamente, umanisti e scienziati: dallo scrittore indiano Amitav Gosh al filosofo francese Bruno Latour, dalla scrittrice Maria Pace Ottieri alla vulcanologa Laura Sandri e molti altri. Questi giorni di incontri si concluderanno poi con un cammino che ci porterà fino al cratere del Vesuvio, dove distribuiremo dei passaporti “Terrestri”, fondando una repubblica, la Repubblica dei Terrestri appunto.

In questo momento in cui il giornalismo, ovvero la scrittura della verità, sta perdendo la guerra contro le bufale, i complottismi, le menzogne sparate senza vergogna dai politici e dagli agitatori, lei crede che la letteratura possa aiutarci a combattere?
Da tanto tempo io mi sto scontrando contro un’idea orizzontale della verità e del mondo. Se l’idea è orizzontale è facilissimo manipolarla. Se la verità è solo la punta dell’iceberg e non tutto ciò che c’è sotto, allora è facilissimo cambiare la prospettiva e distorcerla completamente. Quindi per combattere questa guerra bisogna mettere in campo molte altre forze. L’attacco che stiamo subendo è pazzesco e purtroppo il mondo culturale ne è complice.

In che senso?
Nel Novecento non ha fatto altro che teorizzare la morte di qualsiasi cosa. Hanno teorizzato la fine della Storia e sono crollate le Torri Gemelle. È finita la Storia per te che te ne stai lì a casa tua davanti al computer, da privilegiato, ma per milioni di persone nel mondo la Storia esiste eccome. La cultura nel Novecento ha destrutturato tutto, ha usato l’intelligenza non come motore, ma come veleno per corrodere. Per questo oggi è completamente spiazzata davanti all’orrore culturale, sociale, economico, politico che abbiamo di fronte. Perché lei stessa si è messa in una posizione di irrilevanza assoluta e tra l’altro in un modo quasi giocoso, grottesco.

E come crede che ne possa uscire?
Bisogna ricostruire tutto, la letteratura che si nasconde nella propria torricina d’avorio e si crede meglio addirittura dei propri lettori quando invece è diventata irrilevante non serve a nulla. Nella Storia gli scrittori e gli intellettuali non avevano mai fatto una cosa del genere, magari prendevano posizioni assurde, abominevoli, però non erano così, si sporcavano con la realtà. Dostoevskij era uno slavofilo reazionario, però quando scriveva i suoi romanzi superava i propri limiti ideologici. In una situazione così devi inventarti delle forme che siano proporzionate al disastro. Siamo di fronte a qualcosa che richiederà da noi una reinvenzione profondissima, non sappiamo nemmeno noi a cosa ci porterà da qui a dieci o vent’anni, sappiamo solo che dobbiamo agire, metterci in discussione e noi non lo stiamo facendo.

Siamo sempre stati abituati alla censura del silenzio, ora non c’è più bisogno, basta la censura del rumore. Come la vede da scrittore e da uomo che ha vissuto entrambi le fasi?
È vero, io ho vissuto anche il periodo precedente, ho avuto molti processi, una volta sono persino stato arrestato per una questione che riguardava proprio le parole, perché avrei vilipeso il Presidente della Repubblica durante un comizio. Devo dire che ogni tanto credo che faccia più paura adesso, perché all’epoca almeno avevi la prova che prendevano sul serio la parola. Quando leggo un libro potentissimo come I racconti della Kolyma mi viene da pensare a cosa sia meglio: che la parola venga presa dal potere così terribilmente sul serio da arrestare, uccidere o soffocare chi la pronuncia, oppure una situazione come questa che viviamo ora, in cui il soffocare è intrinseco all’urlare tutti insieme e in cui la parola annega in mezzo ad altri milioni di parole irrilevanti? Ci sono due modi di cancellare una cosa da una lavagna. Il primo è prendere il cancellino e pulire la lavagna. L’altro è prendere il gessetto e riempire la lavagna di scritte a tal punto che il tuo messaggio iniziale non si vede nemmeno più.

Che è poi la situazione che stiamo vivendo…
Oggi fanno così, grazie al sovraffollamento, alla moltiplicazione, alla sovrapposizione di cose che vengono chiamate opinioni, ma che invece spesso non sono nulla. Se mi dici che la Terra è piatta non è mica un’opinione, è una menzogna. Ma chiamandola opinione e non più menzogna, ora sembra quasi che siamo costretti ad accettarla, perché ognuno ha il diritto di esprimere la propria. Questa è la fase suprema della cancellazione: l’esplosione di opinioni. Di fronte a questa situazione, del tutto nuova, io, istintivamente, da scrittore, penso che dobbiamo inventarci forme nuove, inedite, originali, incisive, che coinvolgano altre forze della nostra persona, non sono quelle intellettuali, ma anche quelle psicofisiche. Ci vuole qualcosa che crei un taglio rispetto a questo tappeto di opinioni che cancella ogni cosa e che apra il passaggio verso qualcosa d’altro.

Lei parla spesso di sporcarsi le mani, che cosa vuol dire per uno scrittore sporcarsi le mani?
Faccio un esempio: qualche anno fa, coinvolto da un amico, sono andato a visitare una comunità di zingari vicino a Pavia e ho visto cose spaventose. Ho visto coppie giovani fare i turni di notte per rimanere svegli e scacciare i topi dalle culle dei loro figli. La situazione di degrado era allucinante e i bravi cittadini che di giorno si indignavano e insultavano questa povera gente, la notte giravano coi portafogli pieni per tirare su i ragazzini rom. A quel punto potevo fare uno scritto per denunciare questa situazione, invece mi sono detto: ma questa gente da dove viene per preferire a casa propria un posto dove vive in condizioni così miserevoli? Allora sono andato con uno di questi zingari nella zona del sud della Romania da dove provenivano e ho visto da dove scappavano. Ho vissuto un po’ di giorni con loro e ho visto che c’erano gruppi di zingari che vivevano in cunicoli scavati sotto terra, che ne uscivano laceri, sporchi, in mezzo alla neve. Ho scoperto questa e tante altre cose, e ho capito perché preferiscono vivere così male qui piuttosto che lì. Perché è importante? Per sottolineare ancora una volta come l’atto intellettuale non basta. Ho avuto bisogno di andare là, di dormire con loro, di mangiare le loro salsicce di pecora abominevoli, fatte all’ottanta per cento di grasso, al dieci per cento di ossa polverizzate e all’altro dieci per cento di carne, fritte in queste padelle nere e maleodoranti. Non mi son nascosto nella mia torre d’avorio, la mia torre è sempre stata di merda, non di avorio. Prima di scrivere ho lavorato in fabbrica, ho usato le mani, ho bisogno di vedere come le cose si trasformano, ho bisogno di buttarmi nella realtà. Abbiamo bisogno di andare oltre le esperienze orizzontali e superficiali, dobbiamo andare in profondità, uscire dall’orizzontalità dei social network che consumano l’energia di milioni di persone rendendole criceti che corrono su una ruota, prigioniere di un mondo di chiacchiere.

Questo blog è nato e vive insieme a Munizioni, la collana Bompiani diretta da Roberto Saviano, e come la collana vuole essere luogo di incontro per parole libere, voci, punti di vista da tutto il mondo. Intervista realizzata da Andrea Coccia.

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