Manuele Fior: “L’immagine ha un potere devastante, per questo dobbiamo dar spazio alla bellezza”

Munizioni Bompiani
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8 min readNov 27, 2019

Illustratore e fumettista, vincitore dei più importanti premi del mondo del fumetto in Italia e in Europa, Manuele Fior è tornato in libreria con il primo volume di “Celestia”, edita da Oblomov

Foto di Rino Bianchi

Rosso oltremare, La signorina Else, Cinquemila chilometri al secondo, L’intervista, Le variazioni d’Orsay, I giorni della merla e ora il primo volume di Celestia, la sua nuova graphic novel. In nemmeno quindici anni Manuele Fior, grazie a un gioiello dopo l’altro, è diventato uno dei più stimati illustratori italiani, ha pubblicato sulle più celebri riviste del mondo, da Vanity Fair al New Yorker, e si è aggiudicato un premio Gran Guinigi a Lucca, tre Micheluzzi al Comicon di Napoli e una Fauve d’or ad Angoulême. Per il mondo del fumetto è come se stessimo parlando di una Palma d’oro a Cannes, tre Leoni d’oro a Venezia e un Oscar.

Celestia, il cui primo volume è in libreria pubblicato da Oblomov, è ambientato in una Venezia del futuro, una città solitaria che sopravvive barricata, separata dalla terra ferma, fuori dal tempo come una sorta di Fortezza Bastiani, riparata dalle acque. Questo futuro non troppo lontano — che riecheggia il nostro presente e i problemi che lo attanagliano — è stravolto da una grande invasione proveniente da sud. Chi ha potuto ha trovato rifugio in città, e tra le calli e i canali cova qualcosa di strano e morboso.

“Una delle cose che volevo raccontare era un momento straordinario nella storia della comunicazione umana,” racconta Fior parlando proprio di Celestia. “Volevo immaginare il momento in cui il sogno della comunicazione telepatica si avvera, realizzando finalmente la possibilità di una comunicazione universale, senza barriere.”

Perché?
Perché è un tema utopico e fantastico, ma nello stesso tempo è anche un punto di vista affascinante per parlare dei nostri tempi. Oggi comunicare è sempre più faticoso e violento e se ci pensiamo la maggior parte dei conflitti nasce proprio dall’incomunicabilità e dall’incomprensione reciproca. A livello artistico non è un tema nuovo: nel Novecento moltissimi si sono interrogati sull’idea di un linguaggio universale che riuscisse a trasmettere emozioni senza usare parole, ma solo forme e giustapposizioni di colori. E in fondo la telepatia può voler dire tantissime cose: probabilmente anche internet, perché la trasmissione istantanea di un’immagine a milioni di persone che cos’è se non una forma di trasmissione del pensiero, seppur mediata dalla tecnologia?

Quando hai capito che sapevi disegnare?
L’ho capito subito, a quattro anni, e non tanto perché sapessi disegnare, quanto perché volevo disegnare sempre. Sono nato negli anni settanta e quindi appartengo a quella generazione che è cresciuta con i primi televisori a colori. Mi ricordo programmi come Supergulp o Fumetti in Tv che ebbero su di me un effetto molto forte. All’epoca non c’era il videoregistratore, figuriamoci il cellulare per fare foto, per questo la cosa più naturale per me era disegnare quello che vedevo: era un modo per ricopiare. All’inizio disegnare aveva proprio la funzione di rimanere in contatto con i miei talismani, con i miei miti portafortuna. Da piccolo portavo letteralmente su di me — con tatuaggi rimovibili o magliette che portavo sotto il grembiule — i miei eroi. Com’è accaduto anche nella storia dell’uomo, ho cominciato a comunicare prima coi disegni che con la scrittura.

E quando hai cominciato a raccontare storie con i tuoi disegni?
Da subito, e ho capito immediatamente che non volevo essere un pittore. Già dalle elementari ho iniziato a fare fumetti e addirittura a venderli in classe, aggiungendo un aspetto di marketing che a distanza di tanti anni fa sorridere.

Ovvero?
Ho iniziato fin da piccolissimo a cimentarmi con la realizzazione fisica di albi: disegnarli, spillarli, venderli a duecento lire a miei compagni. Poi con il tempo ho imparato a fotocopiarli. Ne ho ancora a casa, ho fatto anche delle piccole esposizioni, magari qualche mio vecchio compagno di classe ne ha ancora qualcuno. Erano quaderni a quadretti di cui strappavo la copertina e disegnavo tutto, dalla prima all’ultima pagina. Ridisegnavo una mia copertina e, al centro, mi inventavo addirittura un poster staccabile, come quello dell’Uomo Tigre. Era quello il mondo che inseguivo, non quello dell’arte. Anche perché non vengo affatto da una famiglia di artisti, quindi per me la parola arte non voleva dire nulla. Per me c’erano i fumetti, i disegni, i cartoni animati.

Che storie erano?
In gran parte erano storie di avventura ispirate dagli eroi giapponesi: robot, pirati spaziali, supereroi americani. Quello che leggevo.

Quali sono state le fonti che ti hanno ispirato all’inizio?
Il Giappone ha avuto una grandissima influenza culturale sui bambini cresciuti tra gli anni settanta e gli anni ottanta e ovviamente anche su di me. All’inizio in Italia arrivavano i cartoni comprati dalle televisioni francesi, come Capitan Harlock, ma ebbero talmente tanto successo che poi il nostro paese divenne un acquirente ancora più importante della Francia. Io mi abbuffavo di quelle storie di avventura, soprattutto di quelle ambientate nello spazio, di quelle coi pirati, ma anche di tutte le storie dell’universo dei supereroi americani, sia negli albi a fumetti che nei cartoni animati. Insomma, non sono cresciuto con il fumetto d’autore italiano. Sono arrivato a leggere Corto Maltese di Pratt o Valentina di Crepax solo più tardi e da piccolo non conoscevo per nulla il fumetto Bonelli.

Il tuo tratto però è molto pittorico, come ci sei arrivato?
A questo ci sono arrivato con il tempo. È successo a partire dall’incontro coi fumetti di Lorenzo Mattotti, che ho scoperto quando avevo già diciotto o diciannove anni. Ho capito grazie a lui che si poteva pensare al fumetto in maniera diversa rispetto a quella da cui avevo attinto per fare i miei disegni e le mie storie. Il fumetto per me era sempre stato una linea nera con un colore dentro, in genere piatto, perché così sono le basi del fumetto moderno americano o giapponese, da Topolino all’Uomo Ragno. Invece Mattotti dimostrava che si poteva parlare il linguaggio del fumetto usando una inflessione diversa: si poteva far scomparire il tratto e usare altri strumenti per raccontare qualcosa, per esempio derivati dalla pittura espressionista. Mi spiego: puoi usare una linea, ma puoi anche usare due colori, li metti uno di fronte all’altro, li fai dialogare in quanto massa, senza aver più bisogno della linea in mezzo. Mattotti ha fatto deflagrare questo linguaggio in un capolavoro come Fuochi, e per me ha rappresentato un punto di non ritorno. Nel frattempo avevo cominciato a studiare architettura e storia dell’arte, e ho iniziato a frequentare il mondo della pittura, anche se non ne ho mai fatta.

Che rapporto c’è tra la pittura e il fumetto?
La pittura, se vuol diventare la base di un fumetto, deve sempre venire a patti con un’altra dimensione, quella che gli americani chiamano cartooning.

Cosa significa?
Che non puoi prendere dei dipinti, schiaffarli su una pagina in sequenza e sperare che funzioni, perché non funzionerà mai. Il disegno per il fumetto, anche se pittorico, deve fondersi con questo cartooning, che in italiano è abbastanza difficile da tradurre.

Un po’ come se fosse il flow del rap?
Qualcosa del genere, sì. L’hanno scoperta e formalizzata in America i disegnatori della generazione di Walt Disney, e significa trovare una specie di sintesi che ti permetta di raccontare una storia per immagini. Walt Disney, o meglio le squadre di disegnatori che aveva assoldato, visto che lui non prendeva in mano nemmeno una matita, hanno posto le basi del cartooning. Hanno scoperto che muovendosi su sfondi molto pittorici, ma anche per esigenze di animazione, il personaggio ha bisogno di essere asciugato; è sintetico, non è più tridimensionale. Questo modo di disegnare degli autori della Disney di quegli anni, i cosiddetti Nine Old Men, ci ha dato le coordinate sulle quali noi ci muoviamo ancora oggi.

Che potere ha l’immagine nel mondo contemporaneo?
L’immagine ha un potere devastante. Viviamo in una società letteralmente dominata dalle immagini. Basta pensare ad arti non figurative, come la musica, che nell’immaginario pop è estremamente legata all’immagine. Se prendi un cantante pop e gli togli tutto ciò che è immagine, in molti casi rimane veramente molto poco. L’immagine ha un potere seduttivo enorme e c’è ancora modo per me di fare immagini più belle e più forti delle altre. Forse anche perché c’è una sorta di inflazione e di riproduzione di contenuti visivi che si moltiplicano, ormai senza alcuno sforzo, milioni di volte con un click. Il mio lavoro se vuoi è proprio questo: andare a cercare, nella massa impazzita di immagini che ci invadono da ogni parte, quelle indimenticabili, sfrondare, selezionare, sintetizzare, dare spazio alla bellezza. Pensa a quello che ha fatto Joe Sacco sulla Palestina, un luogo che anche senza visitarlo abbiamo visto un numero infinito di volte sui giornali o in televisione. Nonostante questo il suo lavoro, che ha usato una tecnica lentissima di disegno, riesce a fissare dentro di te ciò che racconta in un modo molto più indelebile rispetto a tutti gli altri media.

Siamo nati nel Novecento, ma siamo cresciuti con i computer e conosciamo il linguaggio dei nuovi media. Siamo una sorta di generazione a metà, quale pensi che possa essere il nostro ruolo da questo punto di vista?
Veniamo dopo una generazione che ha identificato nella giovinezza la parte della vita più intensa, fin quasi a pensare che fosse l’unica che valeva la pena di essere vissuta, che fosse la stagione della creatività e che trascorsa quella fosse tutto in discesa. Forse anche per questo è una generazione che si è bruciata molto in fretta. Però non è affatto così. Non era così prima e non è così neppure ora. Io cerco sempre di fare qualcosa di più bello rispetto a quanto ho fatto prima. E se penso al mondo del fumetto italiano e a quelli che ora, almeno per me, sono i più grandi — Gipi e Bacilieri — resto affascinato da come riescano a migliorarsi sempre restando loro stessi e, pur trattando temi nient’affatto nuovi — l’ultimo di Gipi è dedicato alla morte della madre — riescono a farlo in maniera magistrale. Quindi, quando mi chiedi che ruolo possiamo avere noi di questa generazione di passaggio, io penso che forse potremmo essere quelli che dimostrano che si può e si deve continuare a tenere vivo il fuoco creativo ben oltre la giovinezza, perché, a differenza di quello che pensa la generazione che ci ha preceduto, la vita non si ferma a trent’anni. Un’altra cosa che mi piacerebbe che la nostra generazione fosse in grado di fare è smettere finalmente di guardare ai più giovani come a dei bambini, e cominciare a mettersi nella condizione di lasciarsi stupire. Nel fumetto è molto importante la fase che stiamo vivendo: a differenza di qualche anno fa, vede tante energie in gioco, tante proposte nuove e un dibattito finalmente aperto e vivo.

Se pensi al futuro sei ottimista quindi?
A dirmi ottimista ho sempre paura di passare per scemo, perché effettivamente il mondo che abbiamo intorno fa paura, sembra crollare da un momento all’altro. Ma nonostante questo sì, io sono profondamente ottimista, altrimenti non riuscirei ad alzarmi dal letto la mattina. Più avanti andiamo e più dura è, sia nella vita personale che nella vita collettiva, ma questo non è un buon motivo per arrendersi.

Questo blog è nato e vive insieme a Munizioni, la collana Bompiani diretta da Roberto Saviano, e come la collana vuole essere luogo di incontro per parole libere, voci, punti di vista da tutto il mondo. Intervista realizzata da Andrea Coccia.

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