Patrice Nganang: “La letteratura, quando è vera, è sempre politica”

Munizioni Bompiani
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8 min readNov 6, 2019

Creare comunità, infondere coraggio, prendere la parte delle vittime. Queste sono le tre missioni che la letteratura deve avere secondo lo scrittore camerunense, che nel dicembre 2017 passò tre settimane in carcere per aver criticato il presidente Biya.

Il 6 dicembre del 2017, all’aeroporto di Douala, in Camerun, un aereo decolla verso lo Zimbabwe con un sedile vuoto. È il posto prenotato da Patrice Nganang, scrittore e intellettuale camerunense, pubblicato in Italia dalla casa editrice romana 66thand2nd. Solo poche ore prima Nganang ha pubblicato sulla rivista online Jeune Afrique un articolo potente, che critica il presidente in carica Paul Biya per le sue politiche contro la minoranza angolofona camerunense.

L’articolo è il motivo per cui Nganang non è sull’aereo: quel giorno la polizia del suo paese lo ha fermato e messo in carcere. Poche ore dopo l’arresto, appena la notizia viene rivelata e fa il giro del mondo, una massiccia campagna di solidarietà si mette in moto e diverse iniziative internazionali — un gruppo Facebook, petizioni su Change.org e una mobilitazione di Amnesty International — chiedono la liberazione dello scrittore. Il loro obiettivo è mettere pressione al governo di Biya: ci riusciranno. Venti giorni dopo Nganang viene liberato e messo su un aereo molto simile a quello che aveva perso, stavolta con un biglietto di sola andata pagato dal suo paese, un biglietto per l’esilio.

“Facevo già molte campagne per liberare detenuti politici anche prima di essere arrestato,” racconta Nganang sorridente, interrompendosi qua e là per lasciarsi andare a una fragorosa risata. “Quando sono entrato in carcere ho capito che, pur avendo lavorato tanto con i detenuti, solo in quel momento stavo scoprendo che cosa significa veramente essere prigionieri.”

Cosa crede di aver imparato in quelle tre settimane?
Una cosa che ho capito in carcere è che devi trovare un modo di comunicare e un linguaggio comune anche con i tuoi carcerieri, con gente che potenzialmente ti può fare qualsiasi cosa. Senza corromperti, senza umiliarti, ma devi cercare di entrare in un ruolo che ti permetta di non subire troppo. Bisogna giocare un po’, scambiare battute, alleggerire. Io però in prigione ci sono stato solo tre settimane, c’è chi ci passa decenni.

Veniamo alla sua scrittura, come ha cominciato a scrivere?
Sono cresciuto con il mito della scrittura, anche se riconosco che le cose che scrivevo all’inizio non valevano nulla. Erano testi infantili, di quelli che scrivi copiando, imitando, mettendoti in posa. Posso dire di aver cominciato a scrivere sul serio nel 1995. Erano gli anni effervescenti dopo la caduta del Muro di Berlino e io in quel momento studiavo in Germania. Tra studenti ci organizzavamo, ci riunivamo, facevamo discussioni infinite su qualsiasi cosa. Di colpo ci siamo trovati a dover scegliere da che parte stare di fronte a un mondo diviso in due, tra buoni e cattivi. Fu un periodo intenso, una vera e propria scuola di politica applicata che mi ha formato in maniera indelebile.

Come ha trovato la sua voce?
Ho iniziato con la poesia, ma mi sono presto reso conto che mentre i versi mi permettevano di esprimermi, non permettevano alla mia scrittura di includere la voce di altre persone. È per questo che sono passato a scrivere romanzi, per far emergere punti di vista diversi dal mio.

Che ruolo ha la politica nel suo lavoro di scrittura?
La politica per me è veramente il centro di tutto. Ne sono sempre stato un appassionato. È la cosa a cui penso da quando mi sveglio a quando mi addormento. È una delle costanti della mia vita, ma non è l’unica. Fin da quando ero piccolo, per esempio, le persone mi parlano, si aprono e mi raccontano le loro vite. Questa cosa mi ha sempre accompagnato. Grazie alla scrittura ho scoperto di avere la capacità di far uscire il lato passionale della gente, che con me si lascia andare alla rabbia, alla frustrazione, alla collera. È questa empatia che fa sì che io riesca a far affiorare le voci degli altri in quello che scrivo.

Che effetto fa essere il catalizzatore di queste passioni?
Ammetto che ogni tanto sento il bisogno di proteggermi da questa forza, che spesso è violenta. La gente ha dentro di sé molta rabbia, soprattutto in Africa, dove per secoli è stata oppressa e dove basta un piccolo spiraglio perché la rabbia esploda, come quando apri la finestra di una stanza rimasta chiusa per secoli e il vento entra buttando tutto all’aria.

Le parole possono cambiare il mondo?
Sì, assolutamente, anche al di là dell’atto letterario in sé. Io per esempio ho lanciato molte campagne, alcune riuscite, per liberare detenuti politici; ho organizzato mobilitazioni a sostegno delle loro famiglie, per prendersi cura dei loro bambini, mandarli a scuola. E tutto ciò è successo sempre grazie all’atto della scrittura, grazie a un computer. Le parole hanno un potere enorme, uniscono. Per questo non mi sentirei a mio agio se le usassi per scrivere soltanto la mia opinione. Sento il dovere di usarle per mettere in contatto le persone ed è anche per questo motivo che le persone si fidano di me.

Come riesce a creare questo rapporto di fiducia?
Quando i lettori leggono i miei libri capiscono subito che ho una posizione chiara, una posizione che possono verificare negli ultimi trent’anni. E quando condividono con me le loro storie sanno che non le racconterò alla polizia, sanno che non li tradirò, sanno che li aiuterò, che li metterò in relazione con altre persone che hanno problemi simili ai loro. In questo senso la scrittura e le parole possono cambiare concretamente la vita della gente e, di conseguenza, cambiano il mondo tutti i giorni. Le testimonianze delle persone, le loro storie hanno una potenza incontenibile. La scrittura è il centro di tutto.

Che cosa significa la scrittura per la sua vita?
In Europa, in Occidente, c’è una definizione di scrittura che non si applica all’Africa. In Camerun quelli che mi hanno messo in prigione non sono bianchi. Sono stati gli stessi camerunensi a imprigionarmi. Chi ha preso parte al processo, dal giudice agli avvocati, erano tutti camerunensi. Anche oggi, nel mio paese, ci sono persone che vengono condannate a dieci anni, a venti, a trenta, persino all’ergastolo per aver espresso le loro opinioni. Io non posso scrivere come se fossi italiano. Questa è una dinamica che, in quanto scrittore africano, non posso ignorare. Io sono uno scrittore in esilio e lo sono ora, in questo momento, nel 2019. È lo stato del Camerun che ha comprato il mio biglietto di sola andata, che mi ha preso in mezzo alla strada, trascinato in macchina scortato da quattro guardie armate di fucili e messo sull’aereo per dirmi “Au revoir”.

Che rapporto ha con la paura?
Ci ho da tempo fatto i conti e l’ho buttata fuori dalla mia vita, ma da piccolo ero un gran fifone. Avevo paura di tutto, perfino di uscire per fare una passeggiata di sera. Poi ho capito una cosa: che quello che ti danno le parole, la scrittura e la letteratura, non sono certo i soldi. Vuoi diventare ricco? Fai altro. E non è nemmeno la fama, perché per diventare famoso ormai devi fare il calciatore o il cantante. La letteratura non ti darà mai queste cose, ma ti dà la credibilità morale. Semplicemente questo. È questa statura morale che, come dicevo prima, fa sì che le persone abbiano fiducia in te, che ti raccontino le loro storie e che ti permettano di farle risuonare, di diffonderle. Senza questa credibilità un autore non sarebbe nulla. E in Africa io sono convinto che si senta un po’ la mancanza di questo tipo di scrittori moralmente credibili, il che porta molta gente a non avere una chiara visione di chi siano realmente le vittime e chi i carnefici. Per questo ci sono politici che possono permettersi di dire al popolo che siamo oppressi dall’Occidente quando in realtà sono loro a essere dei burattini, e sempre loro a essere gli oppressori.

Che cos’è la verità per uno scrittore come lei che affronta direttamente la storia del suo paese?
La verità per me non è quella dei giornalisti. Per me la verità è la relazione che instauri con le vittime. È quando capisci che qualcuno è debole e ha bisogno di essere difeso. In qualunque caso, qualunque sia il contesto, devi prendere la posizione delle vittime.

È sempre facile capire chi è la vittima?
Il nutrimento dello scrittore è il conflitto. Chi scrive ci vive dentro, perché serve un conflitto per scrivere un romanzo. Basta essere lucidi per capire che ogni volta che c’è un conflitto ci sono delle vittime, qualcuno che soffre per la situazione che si crea. È questo il punto di vista che per me deve prendere lo scrittore: deve difendere le parole e le posizioni di chi è minoritario. Altrimenti cosa ci sta a fare?

Qual è il prezzo che deve essere pronto a pagare?
In Africa, difendendo le minoranze, uno scrittore rischia la vita. Per esempio in alcune parti dell’Africa difendere i diritti degli omosessuali può costare la vita. Ti lapidano in strada, sul serio. E pensare che io sono andato in prigione perché ho difeso chi parla inglese, la lingua dominante in tutto il mondo. È assurdo, no?

Quale obbiettivo politico deve avere secondo lei la letteratura?
C’è un lavoro immenso da fare sulle nostre comunità, un lavoro di ristrutturazione e di ricostituzione del tessuto sociale. Dobbiamo tornare a comprendere che uniti abbiamo molta più forza che da soli, e che gli autori individualisti, quelli che passano la vita a spegnere la forza negli altri, stanno annullando la nostra umanità. Bisogna ridare il coraggio alle persone, soprattutto alle vittime, perché si ricordino che anche se subiscono violenze, soprusi e prepotenze, non è detto che debbano farlo per sempre. Per affrontare le difficoltà degli anni che stiamo vivendo e che abbiamo davanti è decisivo rimetterci sui binari giusti, unirci, combattere questa forza insidiosa che si sta espandendo nel mondo e che cerca con ogni mezzo possibile di negare l’umanità delle sue vittime.

Come si fa a ricostruire il tessuto sociale?
Be’, abbiamo due bicchieri qui davanti a noi. Anche questo è l’inizio di una riorganizzazione. Possiamo ricominciare da qui. Ma per restare alla scrittura, il problema è che molti scrittori si sono dimenticati che cosa vuol dire scrivere. Non si ricordano più che la prima comunità che esiste è proprio quella che si forma tra lo scrittore e il lettore, un rapporto di fiducia che non deve basarsi sui soldi o sulla fama, ma sul rispetto, che è il punto di partenza più solido per costruire una comunità. Quando ho iniziato a scrivere non pensavo che la scrittura potesse essere così tanto impregnata di politica. Ma più vado avanti più mi rendo conto che la letteratura, quando è vera letteratura, è sempre politica e dà sempre coraggio a chi legge.

Davanti a tutte le sfide che ci pone il mondo contemporaneo, lei si considera ancora ottimista?
Ho un figlio di dieci anni, come faccio a non esserlo? Per natura sono una persona gioiosa, che sorride sempre, mi piace scherzare, persino nei miei romanzi e nelle mie conferenze. Anche se parlo di genocidi cerco di trovare dei momenti per far sorridere, per alleggerire. È la mia indole che mi impedisce di essere pessimista: ho lasciato il Camerun e sono andato a studiare in Germania, poi, quando mi hanno buttato fuori dal mio paese, sono stato accolto negli Stati Uniti, dove ora insegno tedesco. Se ci ripenso ho vissuto delle esperienze incredibili. Come faccio a essere pessimista con una storia del genere alle spalle?

Questo blog è nato e vive insieme a Munizioni, la collana Bompiani diretta da Roberto Saviano, e come la collana vuole essere luogo di incontro per parole libere, voci, punti di vista da tutto il mondo. Intervista realizzata da Andrea Coccia.

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