Crypto-evasioni e Miti da Sfatare

Perché la narrazione anarcocapitalista è la prima nemica di Bitcoin. Evasione fiscale in crypto e rafforzamento della moneta fiat.

Filippo Albertin
Nakamotas
7 min readNov 5, 2023

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Premessa: i due partiti della cryptosfera

Continuo a notare, nella comunità crypto, e nello specifico — come piuttosto ovvio — in quella dei più appassionati bitcoiner, una forte dicotomia esprimibile sostanzialmente (e a meno di sfumature che ovviamente esistono) in due partiti contrapposti.

Il primo è quello di coloro che puntano tutto sull’adozione di Bitcoin come moneta corrente, auspicando la circolazione dei satoshi come strumento di pagamento, e specularmente di guadagno, diffuso come standard.

Il secondo è quello dei cosiddetti accumulatori (hodling, in gergo), ossia quelli che, tanto per semplificare, i loro BTC li spendono solo se costretti, in attesa piuttosto evidente di una rivalutazione futura o per vendere, o per detenere alla fine della giostra un capitale impensabilmente corposo.

Insomma: da un lato c’è l’idea che il bene di Bitcoin sia il suo crescente riconoscimento come moneta spendibile, meglio se in via nativa e onchain; dall’altro lato prevale la più personale e individuale prassi di spendere subito gli euro che servono per la quotidiana esistenza, dirottando tutti i risparmi — correnti e/o pregressi — su piani di accumulo in BTC.

La differenza profonda tra i due partiti dove sta? Molto semplice…

I primi, di fatto, ritengono che la chiave di volta sia solo l’adozione di massa, ammesso e non concesso che una banale attività “divulgativa e promozionale” possa bastare per ottenerla o accelerarla.

I secondi, invece, stando alle promesse di Bitcoin in termini di dinamica deflativa, intercettano a medio e lungo termine un significato del tutto sconnesso rispetto all’adozione di massa: infatti, se Bitcoin sarà la moneta del futuro, la spenderanno nativamente; altrimenti, se l’economia continuerà ad essere a doppio binario, senza alcun problema morale né tanto meno ideologico effettueranno un banalissimo cambio in euro, dollari o franchi svizzeri ottenendo una quantità maggiore di moneta fiat per acquisti probabilmente importanti: case, automobili, beni di lusso, etc…

Voi mi direte che Bitcoin porge un certo valore aggiunto anche in transazioni spicciole e correnti, ed è vero. Ma di che transazioni stiamo parlando? Di transazioni semianonime, giusto? Ma per comprare cosa? Il dentifricio? La carta igienica? La nuova batteria dell’auto con relativa manodopera? La pizza e la birra?

Acquistare una ricarica telefonica su Bitrefill ha senso in termini di anonimato? Direi proprio di no. Ossia: ha certamente senso se siete lavoratori pagati in BTC che non hanno più un centesimo di moneta fiat (alzino la mano quelli che tra i miei lettori vengono pagati regolarmente e solamente in crypto); ma se in tasca avete dieci euro, non ha proprio senso cambiarli in satoshi per comprare anonimamente dieci euro (meno le fees di acquisto, peraltro) di una ricarica per SIM (peraltro del tutto nominale!) che avreste potuto ben più comodamente comprare in euro.

Oggi come oggi Bitcoin ha certamente senso, per acquisti spiccioli, come mezzo di pagamento del tutto privato e nativo (onchain) per pagare prodotti o servizi in qualche misura compromettenti, proibiti, riservati, e cose del genere. Parliamo chiaramente di merce o piccante, o privata, o magari illegale nel paese dell’acquirente. Punto, fine, stop.

Oppure, all’opposto, servono satoshi per effettuare transazioni miliardarie con un click, senza passare dal direttore di banca che all’arrivo di un bonifico vi chiede i fatti vostri (tanto per essere chiaro e senza troppi peli sulla lingua).

In mancanza di questi speficici contenitori concettuali merceologici, è evidente che Bitcoin diventa sensato passando al secondo “partito”, ossia come investimento mediato dalla decentralizzazione, in vista di un aumento valoriale in linea con quanto accaduto in questo abbondante decennio di sviluppo.

La falsa narrazione dei falsi profeti

Ma perché ho snocciolato questa lunga premessa logica e fenomenologica sulle dinamiche comportamentali che stanno alla base dell’attenzione del consumatore-investitore al cospetto di Bitcoin? La risposta è legata alle sempre più frequenti manipolazioni e mistificazioni che vedo spese per la causa Cypherpunk, che ha a che fare con la sacrosanta tematica della privacy, ergo della crittografia come strumento per difenderla nell’era delle tecnologie telematiche e computazionali-informatiche, e nulla ha a che vedere con la presunta filosofia — in realtà bassa propaganda analfabeta funzionale da leoncini da tastiera — che intende trasformare magicamente il “Bitcoin standard” in vessillo antistatale, antisociale, antifiscale, buono solo per trasformare la figura dell’evasore delle imposte in una sorta di nuovo illuminato, apostolo di qualche messia scappato in paradisi fiscali o affini.

L’idea che il Bitcoin del cypherpunk — quindi NON Bitcoin in quanto tale, ma il Bitcoin (mi viene da ridere) “politico” — sia o possa essere uno strumento fantastico per evadere il fisco è molto facilmente sfatabile ricorrendo a un esempio molto pratico e spicciolo, connesso a quanto enunciato precedentemente.

Supponiamo che io sia un esercente che tratta prodotti di vendita corrente e comune (non beni di lusso, non case o immobili, non automobili, tutti beni che in ogni caso sarebbe praticamente impossibile vendere senza una diretta intestazione). Supponiamo anche che, ascoltando i consigli di questi illustri profeti, io intenda evadere il fisco facendomi pagare in satoshi nativi, senza alcuno scontrino o ricevuta fiscale.

I casi sono due: o i miei clienti possono pagarmi in BTC perché li hanno già in tasca, oppure i miei clienti possono pagarmi in BTC perché li hanno comprati apposta al fine di completare la transazione con me.

Nel primo caso, i clienti, che hanno già BTC, possono essere solo appartenenti a categorie che hanno accumulato “a suo tempo”, e ora intendono sfruttare una rivalutazione di BTC per acquistare beni che ben poco probabilmente saranno di natura quotidiana e spicciola (la spesa al supermercato, per intenderci, oppure la manutenzione dell’auto). In caso contrario, ossia in caso di svalutazione, molto più difficilmente questi clienti si libererebbero dei loro satoshi, essendo a maggior ragione in (spasmodica) attesa di guadagnarci qualcosa.

Nel secondo caso, il cliente ha comprato BTC per spenderli immediatamente, quindi non ha goduto di alcuna rivalutazione; anzi, ci ha addirittura rimesso le ovvie fees di acquisto, che ben difficilmente, specie per importi ridotti, vanno al di sotto del 2% complessivo, ad essere ottimisti.

In entrambi i casi stiamo contemplando casistiche molto, molto esigue da un punto di vista statistico. Chi ha BTC da tempo, li ha già probabilmente usati per acquistare beni di lusso, oppure li tiene ancora in attesa di una rivalutazione, e di certo non li spende. Chi li compra oggi, di fatto paga una percentuale che rende piuttosto sconveniente il cambio immediato in prodotti o servizi, e quindi ha molto più senso che si trasformi invece nell’accumulatore di domani.

Come evasore, quindi, banalmente mi manca la materia prima: il cliente.

La risultante di questi banalissimi ragionamenti è che l’accettazione di BTC nativi e onchain costituisce per l’esercente medio uno dei peggiori strumenti per evadere il fisco. Se il cliente ha BTC, se li tiene. Se non li ha, non ha alcuna convenienza a comprarli per spenderli subito.

(A latere: Come sapete io sono un grande estimatore del PlanB di Lugano. Ma tale dinamica è la stessa che caratterizza il relativo insuccesso dell’adozione di Bitcoin, Tether e LVGA come mezzo di pagamento per gli esercenti della città, che di molto poco hanno visto aumentare il loro fatturato. Lì ovviamente la cosa non aveva nulla a che fare con l’evasione fiscale, visto che le crypto venivano e vengono cambiate direttamente in franchi svizzeri. Ma la logica è la stessa: o le crypto sono oggi usate in grandi transazioni, o le crypto possono essere preferite per ragioni di privacy su prodotti che non sono né la pizza né il caffè.)

Ben altra cosa è l’evasione in moneta fiat, che viene successivamente tramutata in BTC (ovviamente con tutte le difficoltà del caso in termini di normativa, KYC, limiti di acquisto, tracciabilità, ma sorvoliamo pure su questi dettagli, che al limite possono essere aggirati attraverso procedure peer-to-peer) per conservarla al sicuro dalle mani della finanza. In questo caso siamo però di fronte a un’adozione del BTC puramente mercenaria, bassa, spicciola, funzionale a una necessità o opportunità che, a sua volta, non può assolutamente prescindere dalla moneta fiat, specie in contante, unico e vero strumento per aggirare realmente la fiscalità. Difficile dunque che una motivazione “evasiva” possa essere usata come grimaldello per un efficace proselitismo per i duri e puri dei cosiddetti movimenti anarcocapitalisti.

Se per evadere il fisco ho bisogno della moneta fiat in contante (quella che il cliente medio mi paga tranquillamente oggi come oggi), è evidente che non potrò mai né desiderare né auspicare un “Bitcoin standard”, che presuppone l’assenza di banche centrali.

La morale è lineare e comprensibile:

Se sei un vero anarcocapitalista, e dunque detesti banche centrali e monete fiat, mai e poi mai potrai difendere BTC come strumento nativo per evadere il fisco, visto che il cliente accumulatore medio usa proprio il reddito in moneta fiat per comprare beni e servizi correnti, mentre il residuo lo converte in BTC per conservarlo e vederlo rivalutato nel medio-lungo termine.

Se invece vuoi usare BTC per evadere il fisco, devi necessariamente amare la moneta fiat, visto che è la sola che ti consente di farlo sul mercato reale, con clienti reali. Questo fa dunque di te un pessimo anarcocapitalista.

La narrazione che lega “evasione” e “anarcoliberismo” è quindi una truffa bella e buona, un cane che si morde la coda, visto che oggi come oggi un aspirante evasore “a mezzo Bitcoin” non potrebbe mai avere tanti clienti disposti a pagarlo direttamente in BTC quanti quelli, ben più numerosi, naturalmente inclini a pagarlo in contanti della BCE o Federal Reserve; soldi che poi lui tradurrà diligentemente in BTC a scopo di accumulazione e protezione dalle mani del fisco.

Immediato corollario: La narrazione “evasiva” e “anti-fiscale” è tecnicamente il modo peggiore per promuovere il raggiungimento di quel Bitcoin standard che gli anarcoliberisti ritengono — solo a parole — il migliore dei mondi possibili. Lo è per due ragioni:

Primo: Perché l’aspirante evasore fiscale che intende essere pagato in BTC ha ben pochi clienti disposti a pagarlo in questo modo (a meno che non venda armi, vibratori maschili o cannabis indica).

Secondo: Perché l’evasione fiscale “tramite crypto”, laddove praticata nell’unico suo senso possibile — il cambio in BTC della sporca moneta fiat accumulata in nero — è uno dei modi migliori per rafforzare indefinitamente proprio il regno delle banche centrali, lungo la scia di un doppio sistema finanziario e monetario che è esattamente quello che rafforza stati centrali, controllo e coercizione.

Quindi, lasciamo Bitcoin ai divulgatori veri, che dicono pane al pane, senza mordersi la coda.

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Filippo Albertin
Nakamotas

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