PER LA NUOVA INDUSTRIA, SERVE UNA NUOVA FORMAZIONE

Marcello Benazzoli
Optoi Stories
Published in
9 min readNov 19, 2018

di Marcello Benazzoli

Uno dei concetti alla base della cultura Optoi è quello di “innovazione concreta”. Ma non si può innovare senza capacità, valori, metodo. E questo vale sia per il gruppo Optoi che per ogni altra azienda innovativa del mondo. Ecco perché è cruciale la formazione. In un mondo segnato dal progresso tecnologico, e da profonde trasformazioni organizzative e produttive (Industria 4.0 su tutte), il nozionismo della scuola e dell’università del passato serve a poco. Così come è illusoria l’idea che ci sia un tempo per imparare, e uno per lavorare.

Meglio scuole e atenei che insegnino a ragionare. Meglio una formazione duale, che intrecci l’apprendimento scolastico con quello in impresa, e una carriera all’insegna del concetto di Lifelong learning (apprendimento permanente). Ne è convinto Alfredo Maglione, presidente di Optoi Group, che ha avuto modo di approfondire l’argomento in occasione della tavola rotonda “Industria 4.0: valorizzare gli investimenti con competenze e tecnologie software di Industrial Analytics” a cui ha partecipato con altre personalità lo scorso ottobre, a Vicenza.

Il suo intervento in quella sede ha destato grande interesse. Ecco perché abbiamo voluto scambiare due chiacchiere con Alfredo sul tema, e poi condividere con la nostra comunità, attraverso questo post, alcuni estratti dell’interessante conversazione.

Alfredo, in occasione della tua partecipazione alla tavola rotonda “Industria 4.0”, hai detto che per un nuovo tipo di industria serve un nuovo tipo di formazione: cosa intendevi dire?

Negli ultimi decenni, e in particolare negli ultimi venti anni, si è verificata un’evoluzione tecnologica di crescente velocità, che ha costretto le aziende a essere sempre più al passo con i tempi. Purtroppo il settore della formazione fatica a reggere il ritmo di questa accelerazione. Ecco perché sono dell’idea che si debba provare a collegare il mondo del lavoro con quello della formazione in modo diverso da come è stato fatto sinora in Italia. Sostanzialmente, è necessario un sistema duale, come in Germania e in Svizzera, con un parallelismo maggiore (e più coraggioso) tra formazione sui banchi di scuola e formazione in azienda, con formule progettuali e strumenti nuovi, diversi.

Occorre una maggiore collaborazione tra le scuole e le imprese, e urge anche un maggior confronto tra imprenditori ed educatori, tra i centri del lavoro e i centri di formazione, ad esempio riguardo all’utilizzo delle nuove tecnologie, che sono — come dicevo poc’anzi — in costante evoluzione: mi riferisco al digitale, all’IoT, alle cd tecnologie 4.0, dall’Industria 4.0 all’Agricoltura 4.0, ecc. Il punto è che tali strumenti necessitano di una formazione e di un aggiornamento continui, sia che si lavori in un’impresa, sia che si insegni a scuola.

Prima hai citato il modello svizzero e il modello tedesco, dove la formazione duale è di casa. A tuo parere si dovrebbe guardare anche a quegli esempi?

Assolutamente sì. Ne ho parlato anche in occasione della tavola rotonda: in giro per il mondo ci sono già alcuni modelli interessanti, molto avanzati; ad esempio quello tedesco è senz’altro un modello da esaminare con grande attenzione, perché è l’espressione di un ecosistema formativo, innovativo e aziendale in cui i diversi elementi sono molto ben compenetrati. In Germania, ma anche in Svizzera, gli studenti collaborano con le aziende già alle superiori, o magari negli anni universitari, ed è proprio in questi paesi che si stanno cogliendo appieno le opportunità delle tecnologie 4.0; ovviamente potrei parlare anche di altri modelli, ad esempio quello californiano, dove la contaminazione tra le aziende hi-tech e le migliori università è davvero accentuata. In altre parole, sono diversi gli ecosistemi innovativi nel mondo dove hanno luogo intensi scambi tra le aziende tecnologiche 4.0, le università e le scuole, con benefici importanti a livello di competenze, competitività e occupazione.

A proposito di occupazione: in Germania, in Svizzera ecc. i livelli di disoccupazione sono molto bassi.

È così. Puntare sulle tecnologie 4.0 è una strada vincente. E se ne iniziano a vedere i benefici anche in Italia, grazie al piano Industria 4.0 (poi Impresa 4.0), che è stato attivato nel gennaio del 2017… il primo vero piano industriale strategico di cui si è dotata l’Italia negli ultimi venti anni. Nell’arco di appena un anno e mezzo il piano ha generato una crescita tecnologica vera nelle nostre aziende, una maggiore occupazione di profili tecnici e produttivi, e soprattutto una riduzione evidente del livello di disoccupazione, che all’inizio del 2017 era intorno al 12% a livello nazionale, e adesso si attesta sul 9%.

Non voglio ripetermi, ma è evidente come spingere sulle tecnologie 4.0 e chiedere a scuola e università profili equipaggiati per le sfide dell’economia 4.0 produca occupazione, e in modo naturale, favorendo l’avvicinamento tra il mondo del lavoro e quello della formazione.

Ma la società secondo te è pronta? Perché sembra che ci sia un po’ di resistenza.

La società, in particolare quella italiana — ma potrei parlare di tutta l’Europa del sud — non è tanto pronta, ahimè. Ci sono ancora troppe barriere culturali nei confronti dell’avvicinamento tra il mondo del lavoro e quello della formazione, quando sappiamo che il fenomeno non è solo positivo, ma anche necessario. Se la formazione e le imprese non tengono il passo dello sviluppo tecnologico, il passo del progresso, si rimane indietro.

Purtroppo noi italiani subiamo ancora dei tabù culturali, perché in qualche modo riteniamo più virtuoso declinare la formazione in maniera pura, cioè senza “sporcarci le mani” con il mondo del lavoro, per poi cercare un lavoro vero, che prescinda da ulteriori momenti di formazione. Tuttavia è imperativo un cambio culturale: non lo dico io, lo dicono paesi come Germania, Svizzera, Stati Uniti, più avanzati da un punto di vista tecnologico ed economico. In questi paesi il tabù del confronto tra mondo del lavoro e mondo della formazione è stato sfatato: perché è virtuoso formarsi in azienda oltre che a scuola o all’università, ed è altrettanto virtuoso, mentre si lavora, continuare a formarsi.

Non si finisce mai di imparare, giusto?

Certo, è fondamentale continuare a studiare, a seguire corsi di formazione, eventualmente anche percorsi di specializzazione in ambito accademico, e questo vale per tutti: manager, imprenditori, operatori, tecnici. Non ci si può permettere di smettere di studiare. E in Italia i tentativi in essere di formare le persone in azienda vanno a rilento, anche perché siamo molto indietro rispetto a paesi che sono partiti anni fa.

In Nord Europa parlano, non a caso, di Lifelong learning.

Esatto, un percorso formativo che inizia quando siamo bambini, e mettiamo piede a scuola per la prima volta, e continua anche quando si va in pensione. Un percorso che magari è formazione pura sino ai quattordici, ai sedici anni, ma che poi deve vedere lavoro e formazione affiancarsi. Questo ovviamente vale anche per gli insegnanti, che già oggi fanno regolarmente dei corsi di aggiornamento, e deve valere a maggior ragione per i lavoratori, per gli imprenditori, per i manager. Tale processo di formazione continua riguarda ormai qualsiasi figura, nel pubblico e nel privato, e nel resto dell’Occidente è già un trend consolidato. Negli ultimi decenni purtroppo l’Italia è rimasta indietro, e questo non va bene, perché se accelera l’economia del sapere, se accelerano le tecnologie e le aziende di tutto il mondo, noi dobbiamo fare altrettanto.

Le tecnologie accelerano, e quindi il know-how che possiamo avere sull’utilizzo di questa o quella macchina rischia l’obsolescenza. Ecco perché dobbiamo imparare ad imparare, giusto?

Sì, ed ecco perché dobbiamo trasformare in maniera dinamica il modo in cui le persone si formano e lavorano. La formazione a scuola deve ovviamente riguardare anche le conoscenze, ma deve fornire soprattutto il metodo, compresa la capacità di imparare. Ancora, la scuola deve insegnare a ragionare. Vedi, sempre di più anche le aziende tecnologiche, incluse quelle del gruppo Optoi, quando devono assumere una persona non valutano solo il titolo di studio, ma anche se questa persona ha un metodo, sa imparare, ha dei valori. Perché i valori, alla fine, sono anch’essi parte della cultura di un individuo. La scuola, dunque, deve aiutare ad acquisire valori e quelle che gli esperti chiamano soft skills: parlo della capacità di lavorare in team, di fare networking, parlo del rispetto, dell’onestà, della responsabilità… In questo senso, si tratta di una formazione di tipo umanistico, ma meno focalizzata sulle nozioni e più sul metodo, sul ragionamento, e appunto su un “equipaggiamento valoriale”.

I think tank più autorevoli del mondo dicono che tra le skills del XXI secolo ci saranno la creatività, la curiosità, la capacità di collaborare e comunicare…

Assolutamente. Del resto le aziende hanno bisogno di questo. Fondamentali sono le complex problem solving skills, ossia le capacità di risolvere problemi nuovi, dai contorni non ben definiti, in contesti di tipo complesso, reali. Che uno lavori in un’azienda di microelettronica, in una banca globale o in una piccola azienda agricola, poco importa: avrà problemi complessi da risolvere. E questa capacità è ben poco nozionistica, ha invece molto a che fare con il ragionamento, con il metodo, ed è sempre più richiesta.

Purtroppo non viene ancora insegnata. Casomai la apprende da solo lo studente intelligente che frequenta una buona scuola superiore, o che si laurea in una disciplina impegnativa: è chiaro che se studi ingegneria, fisica, matematica i professori ti insegnano un metodo, e quindi in qualche modo acquisisci complex problem solving skills. Però non esistono corsi ad hoc. Ancora, non esistono corsi per acquisire una capacità che in Italia scarseggia: la capacità di lavorare insieme, in team. Ormai il 99% delle interazioni professionali avvengono in un team, quindi apprendere come si lavora con altre persone è cruciale, e non si può cominciare a imparare a 25 anni, appena assunti. Bisogna iniziare alle scuole elementari.

E qui si torna a un punto che abbiamo già toccato: bisogna formare anche i formatori…

È fondamentale. Devono essere previsti una formazione e un aggiornamento costanti. Esistono già i corsi di aggiornamento sugli insegnamenti, ma l’aggiornamento deve riguardare anche le soft skills di cui parlavamo prima, come il lavoro di team, come il problem-solving ecc. Girando molto per il mondo, ad esempio nelle scuole superiori tedesche, ho visto che tali strumenti fanno spesso già parte dei programmi scolastici… In questo noi italiani dobbiamo recuperare parecchio.

Abbiamo parlato di tutto ciò che l’Italia deve fare, a livello di formazione. Il nostro paese però ha anche tanti punti di forza…

Certo che ne ha, altrimenti non saremmo una delle economie più importanti del mondo. Si pensi solo al Made in Italy, che è tanto apprezzato a livello globale. Non stiamo parlando solo di moda, ma anche di automotive, di macchine utensili, di meccanica, di motori… Nel manifatturiero noi italiani siamo davvero un’eccellenza, grazie pure a un patrimonio secolare di artigianalità, di saper fare, di capacità di innovare. In Italia diamo tutto ciò per scontato, ma non dovremmo: chi vive e lavora qui è circondato da bellezza, da genialità, da creatività. Inevitabilmente tutto questo confluisce nel lavoro, nei prodotti che si realizzano: una cappa di aspirazione tecnologicamente avanzata, funzionale, e dal design bellissimo, può essere considerata a tutti gli effetti un capolavoro industriale. Questa nostra capacità di coniugare bellezza e tecnologia è un unicum a livello mondiale. E tutti ce la riconoscono.

Mi puoi fare un esempio a riguardo per quanto concerne i prodotti del Gruppo Optoi?

Pensiamo ai sensori UpSens, che misurano il livello di elettrosmog, di anidride carbonica, di VOC ecc. in uno spazio indoor. Questi sensori, oltre a essere tecnologicamente avanzati, hanno anche uno splendido design. E oltre a essere “bravi” e “belli”, sono anche “buoni”, perché ci aiutano a migliorare le nostre abitudini, a vivere in ambienti più salubri. Ma in questa sede voglio porre l’accento proprio sulla dimensione della bellezza: volendo avremmo potuto realizzare dei sensori meramente funzionali, dei semplici cubi in grado di collegarsi via Bluetooth con lo smartphone. Noi però abbiamo deciso di dare, a questi oggetti, anche un design. E di questo si è occupato uno stimato designer italiano, Simone Simonelli, che ne ha curato i colori, la forma, la portabilità, trasformandoli in oggetti comodi da tenere in mano, che possono diventare dei bei soprammobili tecnologici, e che sono stati persino inseriti nel prestigioso ADI Design Index 2015! Si tratta, dunque, di sensori pregevoli su un piano non solo tecnologico, ma funzionale ed estetico. Ed è proprio questa l’essenza del manifatturiero italiano: in questo paese ci sono aziende che sanno fare oggetti altamente tecnologici, ma anche bellissimi!

Per ulteriori informazioni, https://www.optoi.com | contact@optoi.com

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Marcello Benazzoli
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Responsabile Comunicazione e Marketing @ Optoi, appassionato di tecnologie e innovazione. Padre, marito, amo raccontare l'evoluzione del mondo intorno a me.