Star Spangled Oval

Il rugby negli States: nuova frontiera o nessuna speranza?

Ovale Internazionale
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6 min readSep 21, 2017

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AltrOvale è la rubrica di Ovale Internazionale che si occupa degli anditi meno conosciuti del pianeta rugby, quelli che sfuggono alle cronache principali. Lo scorso appuntamento con AltrOvale lo potete trovare qui. Questo è il terzo appuntamento con AltrOvale. Buona lettura

Da diversi anni a questa parte, gli Stati Uniti sono costantemente considerati una delle next big things di Ovalia: siamo sull’orlo di una crescita esponenziale del rugby dall’altra parte dell’Atlantico che porterà una nuova potenza nazionale a competere per i piani alti a livello sportivo, aprendo contemporaneamente un mercato potenzialmente gigantesco.

Da diversi anni a questa parte, per l’appunto, il rugby statunitense rimane sull’orlo, e la tanto vociferata espansione del rugby negli States è ancora di là da venire. Anzi, se possibile le cose sembrano aver fatto qualche passo indietro negli ultimi anni.

I tentativi di espansione della palla ovale negli Stati Uniti sono tornati all’onore delle cronache questa settimana, dopo che una partita della scorsa giornata di Premiership è stata giocata a Philadelphia, in uno stadio che ci si aspettava fosse ben più pieno di quanto invece lo fosse.

Dal PRO Rugby alla Major League Rugby

Glendale, Colorado. Lo scorso giugno è stata questa la location delle National Championship Series, il torneo più antico e duraturo della palla ovale a stelle e strisce. Funziona così: il rugby americano è diviso in due leghe: est e ovest. Ognuna delle leghe è suddivisa in quattro conference, che si dividono a loro volta in un certo numero di divisioni a seconda del numero di squadre presenti.

I vincitori della prima divisione di ogni conference accedono alle semifinali, da cui escono i campioni di lega, quello dell’est e quello dell’ovest, che si giocano quindi il titolo nazionale nelle Championship Series.

Si chiamano Series non perché si giochino su più partite, ma perché oltre al titolo di Division 1, si giocano anche quelli delle divisioni inferiori, che hanno lo stesso funzionamento. Quest’anno a battere la concorrenza sono stati gli Austin Huns, per la prima volta incoronati campioni. Hanno battuto in finale il più blasonato New York Athletic Club per 27 a 23, e il premio di migliore in campo è andato al giovanissimo Hanco Germishuys, 20 anni e qualche cap con la nazionale statunitense.

Le Eagles si aspettano molto dallo sviluppo del loro miglior prospetto degli ultimi anni

Il giovane flanker è nato in Sud Africa, ma si è trasferito a otto anni in Nebraska con la famiglia. Cresciuto nel West Omaha, Germishuys ha poi seguito il percorso scolastico che lo ha portato a giocare per Omaha Westside High School e per la nazionale giovanile, con le quali ha disputato il Junior World Rugby Trophy nel 2014. Nel 2015, l’accademia del Gloucester gli ha offerto un contratto di quattro mesi, mentre nel 2016 Germishuys è tornato dall’altra parte dell’Atlantico per disputare il neonato PRO Rugby con i Denver Stampede.

Il PRO Rugby avrebbe dovuto essere il primo torneo interamente professionistico non solo degli Stati Uniti, ma del nord America: un passo in avanti decisivo verso il primo mondo ovale, i cui precedenti tentativi erano naufragati nei venti anni precedenti.

Nel novembre del 2015 PRO Rugby diventa realtà, con il riconoscimento della federazione statunitense e di World Rugby. A febbraio del 2016, con un po’ di ritardo, PRO Rugby annuncia il quinto ed ultimo team a far parte del campionato, uno in meno dei sei previsti per la competizione. Emigrano negli USA verso la nuova competizione non solo Mirco Bergamasco (a Sacramento), ma altri internazionali a fine carriera come Mils Muliaina a San Francisco, Pedrie Wannenburg a Denver, Kurth Morath a San Diego. Torna a casa anche Takudza Ngwenya da Biarritz, anche lui in direzione San Diego.

La prima stagione inizia in aprile, con Denver che batte Ohio per 16 a 13 sotto una tempesta di neve che però non scoraggia i 2300 spettatori. Lo stesso match sarebbe stato decisivo il 31 luglio: nonostante la sconfitta in Ohio per 32 a 25, il punto di bonus ottenuto garantisce ai Denver Stampede di diventare i primi campioni del PRO Rugby.

Rimarranno gli unici campioni: l’attesa espansione del torneo nei confronti di altre franchigie, fra cui quelle canadesi, viene bloccata da una disputa fra PRO Rugby e Rugby Canada, la federazione nazionale canadese. A dicembre 2016, i San Francisco Rush vengono sciolti: la lega lamenta lo scarso successo nella città, il mancato appoggio dei media locali, l’inadeguatezza della sede della squadra. Intanto, durante la off-season, il Director of Rugby Steve Lewis lascia PRO Rugby, lamentando di non avere ricevuto i suoi pagamenti e portando in tribunale perfino la federazione statunitense.

Il 20 dicembre, PRO Rugby comunica ai giocatori che i loro contratti saranno terminati nel giro di 30 giorni. Il giorno seguente, viene annunciato che gli investitori hanno bloccato i fondi e che il torneo è sospeso a tempo indefinito.

La nuova speranza per il rugby professionistico negli Stati Uniti si chiama Major League Rugby. Questa competizione privata dovrebbe partire nella primavera del 2018, basandosi su squadre già esistenti e su bacini di pubblico non potenziali, ma consolidati. Queste le otto squadre che dovrebbero essere ai nastri di partenza: 1924 Rugby (Glendale, CO), Blues Rugby Management (Kansas City, MO), DFW Major Rugby (Dallas, TX), Houston Strikers (Houston, TX), Huns Rugby Management (Austin, TX), NOLA Rugby Enterprises (New Orleans, LA), Seattle Rugby LLC (Seattle, WA), Rugby Utah Ventures (Salt Lake City, UT). Tuttavia, l’annuncio definitivo riguardante squadre, giocatori, date e quant’altro sarà fatto nei prossimi mesi.

Potrebbe arrivare prima del previsto, stando alla pagina Facebook ufficiale

La selezione nazionale

Le aquile statunitensi hanno partecipato a tutte le edizioni della Rugby World Cup, fatta eccezione quella del 1995 in Sud Africa. Lo scorso luglio hanno centrato la qualificazione al torneo che si svolgerà nel 2019 in Giappone, battendo il Canada sonoramente: al Torero Stadium di San Diego è finita 52 a 16 per i padroni di casa, una settimana dopo il pareggio per 28 a 28 in Ontario.

Un 2017 finora superbo per la nazionale americana, che ha dominato l’Americas Rugby Championship dopo il secondo posto del 2016. L’Americas Rugby Championship è una competizione per nazionali tenuta per la prima volta proprio lo scorso anno. Vede la partecipazione di USA, Canada, Cile, Brasile, Uruguay e Argentina XV, la seconda rappresentativa nazionale argentina.

Se lo chiede la stessa World Rugby

Si tratta chiaramente di un torneo di livello basso, dove gli Stati Uniti la possono fare da padrone, ma è comunque un modo per confrontarsi continuativamente a livello internazionale. L’avversario più tosto è l’Argentina XV, vincitrice dell’edizione scorsa e quest’anno battuta grazie ai punti di bonus racimolati e al pareggio strappato all’ultima giornata a Comodoro Rivadavia, la città della Patagonia argentina soprannominata la Capitale del Vento.

Gli Stati Uniti sono attualmente diciassettesimi nel ranking mondiale, e hanno definitivamente operato il sorpasso sui cugini canadesi, più per demerito di questi ultimi che non per una vera e propria ascesa degli statunitensi. Nonostante i recenti successi, negli ultimi due anni le Eagles sono state in grado di battere solo una volta un avversario meglio piazzato nel ranking, il Giappone nel 2015.

Prospettive americane

La nazionale, come il rugby a stelle e strisce in generale, vive in una condizione di stallo: difficile vederli scendere dalla posizione acquisita, ma allo stesso tempo salire per salire il prossimo gradino saranno necessari investimenti sul medio-lungo periodo e una valida programmazione che non sembrano prevedibili in questo momento.

Quello che manca sono soprattutto dirigenti in grado di gestire in maniera brillante la situazione (l’avventura di PRO Rugby dimostra i limiti della classe dirigente ovale) e allenatori in grado di portare il rugby al prossimo livello.

Manca comunque anche un vero e proprio seguito di pubblico: solamente Maori All Blacks e Australia sono stati in grado di richiamare più di 15mila persone allo stadio per match internazionali, figuriamoci quale può essere il seguito in termini di pubblico di un campionato per club, seppure centrato in comunità in cui il rugby è assai seguito.

La paura più grande degli addetti ai lavori è proprio questa: che ci sia troppo poco spazio per il rugby in un panorama sportivo come quello statunitense dove football americano, basket e baseball sono padroni assoluti fra gli sport di squadra, e dove solo uno sport dal seguito planetario come il calcio è riuscito a ritagliarsi ultimamente una discreta fetta di seguito.

Seguire l’esempio paziente della Major Leaugue Soccer sembra comunque essere la strada migliore per portare il rugby a un livello ulteriore di notorietà, ma ci vorrà tempo. In questo l’esempio della Premiership, che non si è dimostrata troppo scottata dal flop di pubblico di Philadelphia di questo weekend, può essere d’aiuto: gli inglesi credono molto nell’espansione verso il mercato americano, ma esportando il loro prodotto trasmettono anche expertise e un modello di lavoro verso le loro controparti americane.

Intanto, un veicolo di attenzione potrebbe essere il rugby a sette. L’inclusione nel programma olimpico fa dello sport un naturale polo di attrazione verso un movimento sportivo come quello statunitense che è cannibale di medaglie. La federazione nazionale ha già incominciato a pubblicizzare fortemente l’assegnazione a San Francisco della settima edizione della Rugby World Cup Sevens che si svolgerà nel luglio 2018.

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