Carlo Montoli, un chitarrista ma anche due o tre

Trovarsi a Milano intorno al 1980 era l’occasione per veder nascere una generazione di chitarristi acustici.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
4 min readFeb 20, 2022

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In un articolo recente facevo riferimento a Maurizio Angeletti, il chitarrista che è universalmente riconosciuto come l’iniziatore (in Italia) di un modo di vedere la chitarra che altrove aveva rappresentanti in Leo Kottke, John Fahey e altri.
Erano gli anni in cui in una quantità di locali la musica dal vivo non era solo il sottofondo dell’aperitivo, e Milano era piena di blues. Fabio Treves portava in giro le prime versioni — acustiche — della sua Blues Band.

Fra i chitarristi, alcuni avevano scoperto che in America qualcuno aveva elevato la chitarra al rango di strumento solista manipolando il blues e le musiche popolari statunitensi (John Fahey, Leo Kottke…) o contaminandola con musiche orientali e nativoamericane (Robbie Basho).

Con Maurizio Angeletti, un altro che partì per quella direzione fu Carlo Montoli. Con Angeletti ha molti punti di contatto, non solo artistici (la folgorazione per John Fahey), ma anche biografici: entrambi a un certo punto spariscono dalla scena. Ma, mentre Angeletti si applicava alla progettazione di aquiloni e studiava linguistica, Montoli passava dieci anni in Giappone suonando nei locali e rivoluzionando la sua visione musicale. Abbandonò il fingerpicking e si dedicò a tutto quello che poteva fare con una classica e una semiacustica. Soprattutto, da quel momento la sua storia di musicista — sebbene non conosca praticamente pause — si divarica dai percorsi della musica italiana, dai luoghi in cui si fa e in cui si fabbrica, per diventare sempre di più un rapporto personale con la chitarra e con i suoni.

Ma nei primi anni milanesi si era costruito una solida competenza da fingerpicker autodidatta, anche se, come mi racconta, “il primo pezzo di John Fahey che io ho cominciato a tirare giù, lo facevo senza sapere che il basso alternato si facesse col pollice! Io usavo pollice e indice, e facevo tutto il resto con medio e anulare”. Una delle cose, in effetti, che potevano capitare ai chitarristi che si erano formati prima dell’avvento dei libri di Stefan Grossman…
Con quel bagaglio tecnico esplorava l’esplorabile nella tradizione americana: nel video poco più su si può sentire il quartetto formato da lui, Massimo Spinosa al basso, Claudio Bazzari all’elettrica, Beppe Sciuto alla batteria, che rifà in maniera brillantissima un ragtime pianistico di Cow Cow Davenport.
Marina di gennaio, invece, è un pezzo originale per chitarra sola in cui si ritrovano tutte le ragioni di quell’amore per John Fahey (qui è registrata alla “Corte dei Miracoli”, uno dei locali più importanti di quel momento magico a Milano).

In quegli anni suonava intensamente, da solista, con Fabio Treves, con Angeletti e anche con gli “Acapulco Gold”, (insieme a lui, chitarra e voce, c’erano Massimo Mariani, sempre chitarra e voce, Roberto Colombo alla pedal steel guitar e Carlo Panzalis al contrabbasso). Nel video che segue c’è la versione che Montoli suonava nei concerti di Acapulco Gold di Genesis di Jorma Kaukonen, con la pedal steel di Colombo che prende per sé la parte degli archi.
Se si fa due conti (una traccia ufficiale che hanno lasciato è la partecipazione a un album registrato con altre formazioni al Ciak in una serata del 1979, in cui si muovono fra il blues e il country), si capisce che qui ci sono i germi di quella che, pochi anni dopo, sarebbe stata la grande stagione della musica acustica in Italia, che a Milano aveva una delle sue “centrali”.

Un rapporto personale, dicevo, ma per niente privato o tantomeno solipsistico. Oggi Montoli ha un canale Youtube ricchissimo dove è possibile rintracciare documenti preziosi di allora ed ascoltare il musicista di oggi. “Nel corso degli anni rispetto ad allora sono cambiato tante volte, ma in realtà non sono cambiato mai. Ho aggiunto delle cose.” È pur vero che il periodo giapponese segnò la chiusura col fingerpicking, che cominciava a sentire come una gabbia: “ero diventato un talebano”, mi dice. Oggi gli standard jazz sono per lui un territorio che offre tanto spazio in più per respirare; e insieme a quelli la chitarra di Yamandu Costa, un ponte fra la chitarra classica e le armonie brasiliane.

E trovarsi a Milano in questo periodo, soprattutto dopo le limitazioni della pandemia, magari è una buona occasione per vedere Carlo Montoli suonare per strada, che è il luogo in cui ama di più portare la sua musica. Con le sue chitarre ma anche con l’ukulele tenore, per le sue nuove composizioni o per suonare le cose che gli piacciono — da Un bacio a mezzanotte a una swingante versione di Nuages di Django Reinhardtper prendersi nuovi spazi per esplorare ma anche per studiare. “È fichissimo, dovresti provarci per capirlo. Questa storia che hai quattro corde e che non hai nessun basso ma tu devi riuscire a fare un arrangiamento che stia in piedi con l’armonia che si sente e la melodia… eh, provaci!”

Carlo Montoli in Brera.

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Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.