Joseph Spence, il terzo miracolo

Luglio ci porta un album con registrazioni inedite, l’occasione migliore per avvicinarsi all’arte di questo chitarrista sorprendente e diverso da chiunque altro.

Massimo Giuliani
RadioTarantula
7 min readAug 8, 2021

--

Quando guardavano le mani di Joseph
dicevano: sono le mani di un falegname
Sono grandi e sono potenti e sono forti
Sono mani che dovrebbero lavorare il legno
Sono le mani che dovrebbero lavorare una lunga giornata
E Joseph ha fatto tutte quelle cose
ma ha anche imparato a suonare.
(Ralph McTell, “Hands of Joseph”)

Ci sono quelle canzoni che diventano incontri miracolosi perché ti spalancano un mondo.
Questa storia parte da una canzone che per quanto mi riguarda è stata la porta d’accesso a tre mondi, tutti insieme. Che parola si usa in questi casi? Come si dice un triplo miracolo?

“Hands of Joseph” era la traccia che apriva “Water of Dreams” di Ralph McTell, un album e un artista verso i quali mi ero incuriosito perché ne parlava con toni entusiastici sul Mucchio Selvaggio il compianto Giancarlo Susanna, che era un critico di cui ci si poteva fidare (io e alcuni miei amici abbiamo nei suoi confronti un debito ragguardevole). Quella canzone fu subito un grande amore, e con essa scoprii innanzitutto McTell, che da allora è fra gli autori e interpreti che stanno in cima alla lista dei miei amori musicali. In secondo luogo, fu il viatico per approfondire l’ascolto di quella generazione di chitarristi britannici che aveva celebrato le nozze tra il blues delle origini e il folk della loro tradizione.

Ce ne sarebbe già abbastanza per metterla in cima alla lista delle canzoni che ti cambiano il modo di vedere, eppure non finiva qui. “Hands of Joseph” era un atto d’amore per Joseph Spence, un musicista delle Bahamas (che sarebbe morto un paio di anni dopo quella canzone, nel 1984), un chitarrista originale, dallo stile spigoloso eppure dolce, che per quanto mi riguarda fu la terza scoperta che devo a quella canzone. E ci misi poco a realizzare che molti dei musicisti che mi piacevano lo citavano, al pari di Ralph McTell, come una grande fonte di ispirazione. E in parecchi lo reinterpretavano, spesso cucendoselo addosso o addomesticandolo un po’, perché nessuno può restituire uno stile così irriducibilmente individuale e musicalmente anarchico.

Nella sua chitarra c’era qualcosa mai ascoltato prima. McTell racconta che alla fine degli anni ’60 attraverso Bruce Barker, bassista di Country Joe, aveva conosciuto il chitarrista Gary Peterson, che gli fece ascoltare Joseph Spence e gli insegnò qualche suo pezzo. “È stato una grande influenza sulla mia vita e credo che la maggior parte dei moderni chitarristi acustici, anche senza saperlo, conoscano qualcosa della sua musica, magari attraverso il lavoro di Ry Cooder”. Cooder, Taj Mahal, i Grateful Dead, Woody Mann, tanti inglesi come Davy Graham, Richard Thompson, John Renbourn, avevano subìto la forte influenza del suo stile tanto quanto McTell.

Le Bahamas sono un arcipelago dell’Oceano Atlantico, costituito da centinaia di isole coralline di fronte alla Florida e a nord di Cuba. Il mare trasparente è la sua principale attrattiva, e le storie di corsari e di tesori nascosti costituiscono il materiale del suo repertorio di narrazioni popolari, tanto che i posti si chiamano con nomi come “Small Hope”, che rimanda ai sogni di qualche avventuriero sulle tracce del leggendario tesoro di Henry Morgan che gli avrebbe cambiato la vita.
La musica delle Bahamas, in generale, ha poco a che fare coi ritmi latini che ci aspetteremmo di ascoltare nelle isole caraibiche: è piuttosto un intreccio originalissimo di ritmi africani e di influenze occidentali, queste ultime in buona parte retaggio del periodo del colonialismo inglese.
È molto suggestivo il fatto che certe cadenze quasi rinascimentali che s’impastano col gospel nella canzone dell’inglesissimo McTell arrivino sulla sua chitarra facendo il giro lungo che passa per Nassau. La canzone, infatti, non è soltanto un ritratto affettuoso del chitarrista dalle grandi mani da muratore, falegname, pescatore, ma è anche — nell’arrangiamento per chitarra — una ampia citazione che comincia come la versione spenceriana di “Coming In On a Wing and A Prayer” e prosegue con un chorus che riprende in modo molto esplicito “Won’t That Be a Happy Time?”.

La più grande e la più azzurra delle isole di Bahamas è la quasi incontaminata Andros. Lì Sam Charters e Ann Danberg Charters scoprirono Spence nel 1958, mentre suonava in mezzo a una squadra di muratori che lavoravano sulle fondamenta di una casa nell’insediamento di Fresh Creek. I Charters erano arrivati da quelle parti per realizzare registrazioni sul campo. Si spostavano su piccole barche di pescatori in cerca di musica caraibica che non fosse stata influenzata dalla moda del calypso. L’isola era poverissima e molti dei suoi abitanti nel tempo erano partiti per cercare lavoro a Nassau. Quelli che erano rimasti avevano dato senso alle loro vite attraverso il canto e la musica. Secondo Charters “la musica è l’unica espressione creativa della gente dell’isola; il canto religioso e la musica strumentale sono diventati una parte enormemente importante della loro vita”.

Charters seguì la fonte di quel suono che proveniva dal cantiere — e quella voce di carta vetrata che mugugnava parole incomprensibili — convinto di ascoltare un duo di chitarristi: e invece gli si parò davanti Joseph Spence, seduto su una pila di mattoni. “Era uno dei suoni di chitarra più esuberanti, spontanei e disinibiti che avessimo mai sentito”, scrisse Sam Charters. Quell’uomo aveva una tecnica fingerpicking totalmente eterodossa e uno stile di canto altrettanto anomalo, che derivava dalla tradizione dei pescatori di spugne.

A quell’epoca Spence andava per i quarantotto (era nato nel 1910 a Small Hope) e viveva da sempre a Nassau, con l’unica interruzione di un paio d’anni trascorsi negli USA con la moglie per lavorare come bracciante agricolo. Si guadagnava da vivere come muratore, pescatore, scalpellino, ma era una piccola leggenda musicale dalle sue parti e per lo più accompagnava il cantante Frederick McQueen che cantava per i pescatori di Nassau.

Charters restò sconvolto dall’originalità del suo stile eccentrico e inspiegabile. Osservava stupefatto il suo modo di usare melodie popolari come base per improvvisare variazioni vertiginose. Se i bluesman americani improvvisavano sulle note alte conservando coi bassi i riferimenti armonici e ritmici, lui lo faceva contemporaneamente sulle corde alte, le basse e quelle di mezzo. Tutto questo con trovate ritmiche che rendevano il brano particolarmente complesso da suonare, tanto che, aggiungeva Charters, “ringhiava occasionalmente parole e frasi del pezzo che stava suonando, per aiutarsi a tenere traccia di dove si trovava oltre che per ‘cantare’ effettivamente qualcosa.”

I Charters lo invitarono a suonare nella casa che li ospitava in quella tappa del viaggio, ma lui arrivò trascinandosi dietro un piccolo pubblico e così quella sera suonò nel loro portico. Loro, alla fine della serata, gli dettero i pochi soldi che avevano a disposizione: ma al ritorno in patria fecero ascoltare la registrazione a Moses Asch della Folkways Records, che non ci mise molto a decidere di farne un album.
Iniziò così il piccolo ma solido mito di Joseph Spence.

Il chitarrista torna di attualità perché esce in questi giorni di luglio, sempre per Folkways, “Encore: Unheard Recordings of Bahamian Guitar and Singing”, un album che mi pare insieme prezioso per chi già conosce la storia e lo stile di Spence e una buona occasione per chi non si è ancora imbattuto nella sua musica.

La storia di questo progetto la racconta il musicista e produttore Peter K. Siegel intervistato nel podcast di Fretboard Journal. Siegel, anche lui innamorato della musica di Spence dai tempi dell’uscita delle registrazioni di Charters, nel 1959, lo aveva incontrato e frequentato nella metà degli anni ’60 e lo aveva registrato in più occasioni, a New York e alle Bahamas.
Nel 1965, per “Friends of Old-Time Music” — una rassegna animata dalla Folkways che portava a New York le musiche folk — lo aveva fatto esibire in parecchie zone della città. “Non riesco a dirti che brivido sia stato”, racconta. “Era una persona incredibile. Era così aperto, entusiasta e felice. Siamo andati in cima all’Empire State Building! Per me, ragazzo di 21 anni, è stato come realizzare il sogno di una vita”.
Il live di “Friends of Old-Time Music”, le registrazioni realizzate nella camera del giovane entusiasta Siegel e quelle fatte nella casa di Spence (che al tempo confluirono nell’album The Real Bahamas pubblicato su Nonesuch Records) costituiscono le tre fonti del materiale di “Encore”.
Quando nel 2019 Siegel tirò fuori quei nastri da dove li aveva conservati per tutto quel tempo, realizzò che erano pieni di materiale inedito che avrebbe meritato di essere reso pubblico, e del cui valore non si era mai reso conto.

“Encore” è una buona summa dell’arte di Spence. Basta prendere uno degli standard più noti, “Old Time Religion”, per misurarne l’originalità rispetto alle tante versioni che tutti noi abbiamo in mente: qui il gospel si intreccia al blues ed è attraversato da venature in cui si riconoscono tracce di musica caraibica e di folk europeo, tutti filtrati da un musicista geniale e non convenzionale.
Prendete “The Glory of Love” e confrontatela con qualcuna delle innumerevoli versioni di chitarristi successivi, per avere un’idea di quale sia la fertile influenza che il suo stile ha esercitato su tanti. Ancora, prendete “Down by the Riverside” e apprezzate la vocalità folle ed eterodossa, e il modo in cui canto e chitarra si poggiano l’uno sull’altra.
13 canzoni sulla fede, col mare sullo sfondo. C’è tutto il mondo di Spence in una tracklist che sembra fatta apposta per deliziare chi sa e per conquistare chi ancora non sa.

(Immagino che il dettaglio non sarà determinante sulla decisione di fare un piccolo investimento, ma il vinile in preordinazione include l’esclusivo adesivo per paraurti che vedete qui di seguito.)

--

--

Massimo Giuliani
RadioTarantula

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.