Way Back Home #1
Lo diceva anche una canzone degli anni ’90, “Milano Quando Sono Lontano Voglio Tornare/ Milano Quando Ci Sono Voglio Scappare”.
Ma Milano non è più quella degli anni ’90.
Negli anni del liceo frequentavo un ragazzo che aveva casa dietro Piazza Repubblica, in Via Galilei. La sua famiglia abitava all’ultimo piano, il quinto se non ricordo male. Dal suo terrazzo si vedeva il Cimitero Monumentale. Quel chilometro scarso di distanza era occupato in buona parte da un terreno brullo e recintato, qualche cantiere, mentre poco o nulla separava Corso Como da stazione Garibaldi.
Oggi, se ancora abitasse lì, il Cimitero Monumentale non lo vedrebbe neanche se il suo palazzo di piani ne avesse dieci. Vedrebbe invece il Samsung District, Piazza Gae Aulenti, la Torre Unicredit, il Bosco Verticale. E non è certo una vista spiacevole.
Milano è un’altra città rispetto a cinque anni fa. Negli anni ’90 Corso Garibaldi aveva a malapena un marciapiede.
Lo sa bene chi ha vissuto questi ultimi anni fuori Milano. La sorpresa di percorrere tragitti abituali e trovarsi la strada sbarrata da un nuovo edificio è una prassi collaudata del milanese “fuori sede”. Occorre un solido spirito meneghino per apprezzare questo tipo di cambiamento, accettarlo come parte integrante della vita di una città come Milano. “Se sta mai coi man in man”, recita la celebre canzone della Madunina. Dove in altre città italiane si vede una gru, una sporcatura del paesaggio, una cicatrice sul volto dell’orizzonte, il milanese tace, scrolla le spalle, e sogna una nuova opportunità, a una nuova sfumatura della proprio giornata.
La posizione privilegiata per osservare il cambiamento che ha vissuto la città negli ultimi anni è certamente l’Autostrada dei Laghi, al ritorno da un lungo viaggio, dopo l’atterraggio a Malpensa. Il milanese sa cosa vogliono dire certe albe, o certi tramonti, su Milano.
Per qualche ragione siamo diventati negli anni paradigma di uomini d’affari cinici legati solo a utili e fatturato. Ma la gioia, il sollievo spesso, di ritornare alla propria città dopo una lunga assenza, non ha nulla da invidiare a romani e partenopei (il cui attaccamento alla propria terra è invece dato per scontato). E le novità non ci spaventano, le abbracciamo col sorriso, anche se poi ci piace lamentarci, spesso, per sport, ma quando si rientra dall’aeroporto e si scopre che un albero è cresciuto, luminoso, che un nuovo quartiere è sorto, che una nuova ombra si staglia all’orizzonte e scintilla agli ultimi fuochi del giorno, il milanese sa sentirsi parte di un corpo vivo, mai uguale, di un organismo che cresce, si muove, sbaglia forse, si fa perdonare, esagera spesso, poi si scusa, ti abbraccia e dice “Ben tornato”, senza dover parlare, lo sussurra, timido, vergognandosi di un simile sentimentalismo, mentre col trolley scendi in Stazione Centrale che, lei per prima, solo esternamente somiglia a quella di dieci anni fa.
Infine, tutto ha inizio in aeroporto, quando si apre il portellone e l’aria di Milano — odiata aria di Milano — ti investe il volto. Eppure, in questa strana epoca che viviamo, in cui tutto il mondo è accessibile, le tratte sempre più veloci, più agevoli, più dirette, non c’è niente, mai niente di più rassicurante di quell’aria, di quella luce, del suono delle rotelle del trolley che scivolano sul linoleum come fosse patinato d’olio. E quando poi si scorgono le lamiere del nuovo MiCo, gli oblò di quella strana crociera che è City Life, la vela spiegata dell’Hadid, il Dritto, imponente, con i pugni piantati sui fianchi e lo sguardo fiero, si è già con un passo nella Milano viva del centro, si è già in quello che con orgoglio chiamiamo “il solito tran tran”, la nostra routine, la nostra vita. Sempre cangiante, sempre in movimento. Sempre Milano.
Infine, tutto ha inizio in aeroporto. Quando torno.