Credit: NASA, ESA, K. Sahu (STScI) e lo SWEEPS science team

Anatomia del nucleo galattico

Un team di astronomi ha studiato centinaia di migliaia di stelle osservate più volte da Hubble nel corso di nove anni, con lo scopo di ricavare tutte le informazioni possibili sulla distribuzione delle masse stellari nel nucleo della Via Lattea

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
20 min readNov 19, 2015

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Per ricavare informazioni sull’origine e l’evoluzione della Via Lattea, il modo migliore è indagare la struttura e la composizione della parte presumibilmente più antica della nostra galassia: il suo nucleo, la luminosa e densa regione sferoidale che si trova al centro della Via Lattea, in direzione della costellazione del Sagittario, a circa 25.000 anni luce di distanza da noi. Intorno al 20 per cento dell’intera massa stellare della galassia è concentrata lì.

C’è però un grande problema: il nucleo galattico è pesantemente oscurato da dense cortine di polveri e gas. In certi casi le polveri impediscono completamente la vista e le stelle dietro il “sipario” possono essere viste solo da telescopi che operano nell’infrarosso come Spitzer e WISE. In altri casi, l’impedimento è più lieve, così le stelle possono essere osservate anche nella luce visibile, ma appaiono più rosse e meno brillanti di come apparirebbero se la vista non fosse in qualche misura impedita. Ciò accade perché il sistema solare si trova in una regione periferica del disco galattico e tra noi e il centro della Via Lattea ci sono almeno un braccio a spirale principale e diversi addensamenti minori.

Tra il sistema solare e il nucleo galattico sono interposti il braccio a spirale Scutum-Centaurus e altri bracci minori

La funzione di massa iniziale

La difficoltà di osservare chiaramente il nucleo galattico rende di conseguenza difficile tracciare un quadro preciso della sua composizione stellare. Risulta complicato, tra le altre cose, arrivare a determinare con precisione quella che gli astronomi chiamano funzione di massa iniziale o IMF (dall’inglese Initial Mass Function): una relazione empirica tra masse stellari e numero di stelle, che permette di ricavare la numerosità delle stelle di sequenza principale in una certa regione di spazio in base alla loro massa.

La strada per giungere a definire una IMF richiede una procedura complessa:

  • innanzitutto si devono ottenere immagini profonde di un’area di cielo rappresentativa della regione che si intende studiare (per esempio, il nucleo galattico), possibilmente associate a dati fotometrici e spettrali di alta qualità;
  • bisogna poi definire quali sono le stelle che appartengono effettivamente a quella regione, distinguendole dalle stelle che si trovano nel medesimo campo per pure ragioni prospettiche;
  • fatta questa indispensabile scrematura, le stelle che rimangono vanno infine studiate da una molteplicità di punti di vista (magnitudini apparenti e assolute, metallicità, sistemi binari, estinzione), per arrivare a determinare la massa di ciascuna di esse con la maggior precisione possibile.

L’obiettivo di tutto questo lavoro — simile per certi versi a un censimento — è stabilire una gamma minima e massima di masse stellari, e contare, all’interno del campione prescelto, quante sono le stelle in ciascun intervallo di masse: 0,2 masse solari, 0,3 masse solari, 0,4 masse solari … e così via. Da questa certosina analisi si ricava infine la IMF, cioè una funzione matematica che esprime nel modo più preciso possibile la relazione tra masse stellari e numerosità delle stelle ricavata dalle osservazioni empiriche.

Senza entrare in dettagli troppo tecnici, ciò che è importante sapere è che la IMF ha la forma di una legge di potenza: varia cioè in base al valore di un esponente, indicato in genere con la lettera greca α (alfa). L’astrofisico Edwin Salpeter, che per primo quantificò nel 1955 questa relazione per le stelle situate nelle vicinanze del Sole, stabilì per α un valore di −2,35, valido per stelle comprese tra 0,3 e 10 masse solari. L’andamento di una qualsiasi IMF proiettato su un grafico mostra che le stelle diventano tanto meno numerose quanto più aumenta la loro massa. Ciò che cambia tra una IMF e l’altra è la velocità di questa diminuzione, rappresentata dalla differente ripidità delle relative curve riportate su un grafico.

Definire una IMF, tuttavia, è solo uno dei passi necessari per conoscere la struttura e la storia evolutiva di una popolazione stellare. Altri parametri importanti sono la metallicità, l’età media delle stelle, il ritmo di formazione stellare e la relazione tra massa e luminosità.

Guardare nella finestra di Baade

Come fare ad acquisire simili informazioni sul centro della nostra galassia, se è così oscurato da polveri e gas? Per fortuna esiste una piccola finestra che ci permette di avere una visione delle stelle del nucleo quasi perfettamente nitida. È la cosiddetta finestra di Baade, così chiamata dal nome dell’astronomo Walter Baade, che per primo, negli anni ’40 del secolo scorso, si rese conto della sua importanza per l’osservazione del centro galattico.

La posizione della Finestra di Baade, a circa 4 gradi dal centro galattico. Credit: University of Michigan

Si tratta di un’area irregolare che copre circa un grado quadrato, centrata sull’ammasso globulare NGC 6522. Situata a circa 4 gradi dal centro fisico della galassia, è caratterizzata da un arrossamento molto ridotto rispetto alle regioni circostanti, sicché permette di fare osservazioni attendibili sul colore delle stelle e, soprattutto, permette di vedere più in profondità, cioè di osservare un maggior numero di stelle di quelle visibili in aree di cielo adiacenti della stessa estensione, fino alla magnitudine che costituisce il limite di sensibilità del telescopio.

Tra il 23 e il 29 febbraio 2004, Hubble fu puntato per un’intera settimana su un’area di pochi minuti d’arco vicina alla Finestra di Baade. La zona osservata si trova all’interno della Finestra del Sagittario (Sagittarius Window in inglese), una regione anche questa con bassi valori di arrossamento, ottima per osservazioni profonde del nucleo galattico.

L’intento era quello di scoprire con il metodo del transito esopianeti in orbita ravvicinata intorno ad alcune delle tantissime stelle visibili nell’area esaminata. La ricerca fu chiamata Sagittarius Window Eclipsing Extrasolar Planet Search, più brevemente SWEEPS, e si concluse con l’individuazione di 16 candidati esopianeti dal periodo brevissimo, definiti collettivamente — ecco un’altra sigla!— USPP, cioè Ultra-Short-Period Planets. Il più “frenetico” di questi pianeti percorre un’orbita completa intorno alla sua stella, dalla quale dista appena 1,2 milioni di km, in sole 10 ore.

Il campo SWEEPS si trova all’interno della Finestra del Sagittario, a meno di un grado di distanza dalla Finestra di Baade. Credit: DSS2 (modificato)

Il densissimo campo stellare fotografato da Hubble in quell’occasione è tornato utile per una nuova ricerca, orientata stavolta a definire la IMF del nucleo galattico e a esaminare nel dettaglio la composizione della sua popolazione stellare. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal in due studi, uno apparso a luglio 2014 e l’altro a settembre 2015, da un team di astronomi guidato dall’italiana Annalisa Calamida.

Una complicata selezione

I risultati dei due studi si basano sul confronto tra le immagini prodotte da Hubble nel 2004 e altre osservazioni della medesima area, fatte sempre da Hubble ad alcuni anni di distanza, precisamente nel 2011, 2012 e 2013. I nove anni che separano le prime immagini dalle ultime hanno consentito agli astronomi di selezionare le stelle in virtù del loro moto proprio, cioè lo spostamento annuale apparente rispetto al nostro punto di vista.

In blu e magenta le aree di cielo nella Finestra del Sagittario osservate da Hubble con gli strumenti ACS e WFC3 tra il 2004 e il 2013. L’estensione complessiva delle aree evidenziate è minore del diametro angolare della Luna vista dalla Terra. Credit: A. Calamida et al., “First detection of the white dwarf cooling sequence of the Galactic bulge”

Ma procediamo con ordine. Sono circa 1 milione le stelle fino alla 31ª magnitudine visibili in tutti e 12 i campi osservati con le camere ACS e WFC3 di Hubble (marcate in blu e magenta nell’immagine), per un’area totale di circa 12×12 minuti d’arco.

All’interno di questo milione di stelle, i ricercatori hanno selezionato all’incirca 240.000 stelle, le uniche per le quali disponevano di osservazioni anche nel 2004. Ma alcune di queste 240.000 stelle non fanno parte del nucleo galattico. Appartengono invece all’alone o al disco della Via Lattea e si trovano mescolate alle altre per pure ragioni prospettiche. È essenziale, pertanto, separare le stelle del nucleo da quelle del disco e dell’alone, se si vogliono ottenere informazioni attendibili sul nucleo. A tal fine, è stato decisivo disporre di immagini della stessa regione di cielo ottenute in anni differenti: confrontandole, si può vedere quali stelle si sono spostate e misurare il loro spostamento. Si può cioè determinare il loro moto proprio.

Il sistema solare si trova nel disco della Via Lattea. Quando osserviamo il nucleo galattico, le stelle del disco e dell’alone appaiono sovrapposte prospetticamente a quelle del nucleo. Credit: University of Michigan (modificata)

L’importanza di questo calcolo si comprende se consideriamo che, in un campo stellare, non importa se fotografato da Hubble o da qualsiasi altro telescopio, le stelle sono punti di luce privi di profondità. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere tutte equidistanti da noi, come del resto presumevano gli antichi, quando immaginarono le stelle come luci incastonate sulla volta solida del firmamento. Una singola fotografia è insomma nient’altro che un punto di vista appiattito. Il moto proprio ci fornisce, in un certo senso, la terza dimensione mancante. A causa, infatti, della rotazione della Via Lattea, le stelle si muovono con velocità differenti rispetto al nostro punto di vista in base alla loro posizione all’interno della galassia. Grazie a una sofisticata analisi comparativa dei moti stellari, questa differenza può essere utilizzata per separare le stelle del nucleo da quelle del disco e dell’alone.

Armato di questo strumento, il team di astronomi ha in primo luogo selezionato, all’interno del campione di 240.000 stelle, circa 200.000 stelle fino alla magnitudine 25,5 nel filtro del vicino infrarosso (F814W), per le quali la misurazione del moto proprio è stata ritenuta affidabile. All’interno di queste 200.000 hanno poi considerato come appartenenti al nucleo galattico solo le stelle con un moto proprio uguale o inferiore a 2 millesimi di secondo d’arco all’anno. Sono sopravvissute a quest’ulteriore selezione 67.765 stelle, altamente rappresentative della popolazione del nucleo galattico, con una contaminazione da parte di stelle del disco non superiore all’1 per cento.

Va tenuto presente che la scelta di questo campione non vuol dire che solo 67.000 stelle su un milione fanno parte del nucleo. Anzi, uno studio precedente aveva dimostrato che la contaminazione del campo SWEEPS con stelle del disco supera di poco il 10 per cento del totale, quindi quasi il 90 per cento di tutte le stelle osservate da Hubble fa parte del nucleo. Lo scopo di una selezione così conservativa va ricercato, dunque, nella necessità di ottenere un campione il più possibile incontaminato di stelle appartenenti al nucleo galattico, con lo scopo di calcolare con la maggior precisione possibile la IMF di quella popolazione stellare.

Le due IMF del nucleo galattico

Ed ecco infine il risultato di tanto lavoro preliminare. Lo studio pubblicato nel 2015 presenta due diverse IMF. La gamma complessiva di masse per cui le due funzioni sono valide è compresa tra 0,15 e 1 masse solari. La prima funzione è valida per stelle di piccola massa, la seconda per stelle di massa maggiore. L’interruzione tra la prima e la seconda funzione avviene a 0,56 masse solari. Al di sotto di questa soglia vale la IMF per stelle di piccola massa, in cui α = −1,25 ± 0,19; al di sopra vale, invece, la IMF per stelle di massa maggiore, in cui α = −2,41 ± 0,50. Il grafico seguente riporta le curve generate dalle due funzioni, più altre curve prodotte da altre IMF riportate per confronto dagli autori dello studio.

Le masse stellari sono indicate sull’asse delle ascisse come logaritmo in base 10 di una frazione di massa solare. Significa che i numeri sull’asse delle ascisse sono gli esponenti a cui bisogna elevare il numero 10 per ottenere la massa stellare a cui si applicano le IMF riportate nel grafico: 10 elevato a -0,6 è uguale per esempio a 0,25 masse solari. I valori sull’asse delle ordinate sono anch’essi logaritmi in base 10 ed esprimono il rapporto tra numero di stelle e masse stellari (dN/dM significa “number density distribution per mass interval”). Credit: A. Calamida et al., The Astrophysical Journal, Volume 810, Number 1 (agosto 2015)

Come si può vedere dal grafico, le curve delle due IMF valide per il nucleo galattico hanno una diversa inclinazione: quella per le stelle di massa maggiore (α high-mass) è più ripida dell’altra (α low-mass). Posto che entrambe le funzioni stabiliscono una proporzionalità inversa tra massa stellare e numerosità (le stelle più massicce sono sempre meno numerose di quelle meno massicce), la differente ripidità delle due curve indica che, al di sopra di 0,56 masse solari, aumenta la velocità con cui le stelle diminuiscono di numero al crescere della massa. Facendo un esempio concreto, le stelle di 0,3 masse solari sono meno numerose di quelle di 0,2 masse solari, così come quelle di 0,8 masse solari sono meno numerose di quelle di 0,7 masse solari. In percentuale, però, la diminuzione del numero di stelle nel passaggio da 0,2 a 0,3 masse solari, descritto dalla IMF per masse piccole, sarà minore della diminuzione che si ha nel passaggio da 0,7 a 0,8 masse solari, descritto dalla IMF per masse più grandi.

Le barre di errore indicano il grado d’incertezza di un dato osservativo

Ma perché due curve e non una soltanto? Lo possiamo capire osservando la distribuzione nel grafico dei cerchietti neri disposti all’incirca lungo il percorso delle varie curve. Ciascuno di quei cerchietti, con le relative barre di errore (i due segmenti disposti a croce), corrisponde a un valore determinato empiricamente della relazione tra masse stellari e numero di stelle. Le IMF devono approssimare nel miglior modo possibile la distribuzione di quei valori. Se, infatti, osserviamo i sette cerchietti a sinistra in basso nel grafico, notiamo che si dispongono in modo quasi perfetto lungo la linea che corrisponde alla funzione per masse elevate (α high-mass), mentre i sette più a destra in alto si dispongono, quasi altrettanto omogeneamente, in modo da corrispondere alla linea della funzione per masse minori (α low-mass). In altre parole, non è possibile rappresentare correttamente con una funzione basata su un unico valore dell’esponente α la distribuzione dei dati ricavati dalle osservazioni. Ci vogliono due funzioni, ognuna con un diverso valore di α.

Il peso delle incertezze

Le barre di errore visibili nel grafico sono un corollario quasi inevitabile della ricerca in fisica e in astrofisica. Purtroppo le stelle non si lasciano portare in laboratorio per condurre esperimenti controllati. Pertanto, qualsiasi misurazione che le riguarda è soggetta a imprecisioni piuttosto grandi, dovute ai limiti di ciò che, dalla Terra, riusciamo a vedere o a desumere. Più le barre di errore sono grandi, maggiore è l’incertezza che offusca i dati ottenuti. Nel caso che stiamo esaminando, gli elementi principali che gettano incertezza sulle due IMF ricavate per il nucleo galattico sono quattro:

a) l’impossibilità di quantificare i sistemi binari presenti nel campione di stelle fotografato da Hubble. La causa sono diverse: per esempio la mancanza di adeguati rilievi spettroscopici e la notevole distanza del centro galattico, che non permette di separare visivamente stelle troppo vicine tra loro.

La presenza o l’assenza di sistemi binari fa una certa differenza nel calcolo delle due IMF, soprattutto per quella che descrive la distribuzione delle stelle di piccola massa. Con zero sistemi binari, cioè se tutte le stelle del campione fossero singole, la IMF per stelle di massa maggiore assumerebbe il valore di α = −2,25 ± 0,50, mentre con il 100% di sistemi binari diventerebbe α = −2,62 ± 0,52: una variazione massima dell’esponente di 0,37. L’altra IMF diventerebbe invece α = −0,89 ± 0,20 in caso di zero sistemi binari e α = −1,55 ± 0,20 con il 100% di sistemi binari: la differenza in questo caso è di 0,66. Da una serie di osservazioni e ragionamenti, gli autori dello studio hanno concluso che la verità sta (quasi) nel mezzo: più del 30% delle stelle nel nucleo galattico dovrebbero essere sistemi binari. Ma si tratta di una stima, non di una misurazione oggettiva. Il grafico che abbiamo riportato imposta le due IMF assumendo che il 50% di tutte le stelle siano sistemi binari.

b) la distanza. Alle stelle del campione utilizzato per definire le due IMF del nucleo galattico è stata attribuita una distanza media di circa 25.300 anni luce dalla Terra. Questo valore si ricava dal modulo di distanza (o DM, dall’inglese distance modulus) riportato nel grafico:

Senza scendere in troppi dettagli, il modulo di distanza è un modo per rappresentare la distanza di oggetti astronomici per mezzo della differenza tra la loro magnitudine apparente e la magnitudine assoluta. Il valore adottato di 14,45 è però anch’esso una stima, per quanto attendibile, non una certezza assoluta. Provando a calcolare le due IMF con moduli di distanza leggermente diversi, entrambi accettabili, cioè 14,35 e 14,55, si ottiene una variazione nella stima delle masse stellari compresa tra l’1 e il 5 per cento.

c) l’estinzione. Quanto più un oggetto celeste è distante dalla Terra tanto più è facile che la sua luce ci arrivi attenuata e modificata nel colore da polveri e gas interstellari interposti tra la sorgente e noi: l’estinzione è una misura di questa variazione. Nel grafico delle due IMF il valore attribuito all’estinzione è espresso dalla formula:

Per capire cosa significhi questa formula, bisogna innanzitutto tener presente che la luce che ci arriva filtrata da nubi interstellari è generalmente più rossa di come apparirebbe se potessimo vederla senza filtri. La luce rossa ha, infatti, una lunghezza d’onda maggiore rispetto alla luce di altri colori, il che le permette di passare più facilmente attraverso gli ostacoli: ecco perché l’estinzione si chiama anche arrossamento.

Gli astronomi misurano l’entità dell’arrossamento con un metodo basato sulle differenze di colore. In primo luogo misurano il colore apparente di un oggetto celeste, che si ottiene dalla differenza delle magnitudini apparenti in due diverse bande dello spettro elettromagnetico, di solito le bande B e V. Successivamente, stabiliscono il colore intrinseco, che si ottiene dalla differenza delle sue magnitudini assolute nelle stesse bande dello spettro. Infine calcolano l’eccesso di colore, indicato con E, che è la differenza tra il colore apparente e il colore intrinseco dell’oggetto. Pertanto, la formula riportata più sopra significa che le stelle del campione analizzato hanno un eccesso di colore di 0,5 magnitudini nelle bande B e V dello spettro. Il fatto è che anche questa, come le due precedenti, è una stima. Valori di estinzione altrettanto possibili sarebbero 0,45 o 0,55 magnitudini. Usando uno di questi due valori al posto di 0,50, si ottiene una variazione nella stima delle masse stellari compresa, come nel caso della distanza, tra l’1 e il 5 per cento.

d) la metallicità. Gli astronomi chiamano collettivamente ‘metalli’ tutti gli elementi chimici diversi dall’idrogeno e dall’elio. La metallicità è, pertanto, la frazione di massa stellare non composta né da idrogeno né da elio. Viene indicata negli studi astronomici con la lettera Z, mentre le frazioni di massa stellare in idrogeno e in elio (di gran lunga più abbondanti) si indicano rispettivamente con le lettere X e Y. La somma X+Y+Z deve dare 1. Poiché la metallicità influenza in qualche misura le magnitudini stellari osservate, anche questo parametro ha la sua importanza nel calcolo della IMF. Gli autori dello studio hanno così testato l’affidabilità del calcolo delle masse stellari nel campione esaminato usando tre diversi valori di Z: uno uguale a quello solare, cioè (Z = 0,0198), uno tipico di stelle molto ricche di metalli, cioè (Z = 0,03) e uno, all’opposto, tipico di stelle molto povere di metalli, cioè (Z = 0,008). L’esito del test è stato che le suddette variazioni di metallicità creano un’incertezza nel calcolo delle masse stellari pari approssimativamente all’8 per cento.

Da questo elenco di incertezze si può ricavare l’impressione che, alla fine, tanto lavoro di osservazione e di calcolo porti a risultati di dubbia utilità. Tuttavia bisogna tenere in conto che le incertezze fin qui delineate, considerato quanto è distante da noi il nucleo galattico e quanto è difficile osservarne chiaramente le stelle, sono tutto sommato più che accettabili. Del resto la ricerca in astronomia non può che procedere per approssimazioni, che diventano sempre più precise a mano a mano che migliorano gli strumenti di osservazione e le tecniche di analisi.

Una vista parziale del campo SWEEPS. Credit: NASA, ESA, A. Calamida e K. Sahu (STScI), e SWEEPS Science Team

Il carnevale delle masse

Quali applicazioni possono avere le due IMF del nucleo galattico presentate nello studio che stiamo analizzando? Possono servire per esempio a calcolare la massa complessiva delle stelle del nucleo osservate da Hubble nel campo SWEEPS. È risultato che, per tutte le stelle di sequenza principale comprese tra 0,16 e 1,0 masse solari (l’intera gamma coperta dalle due IMF), la massa complessiva è pari a 137.527 ± 23.400 masse solari. Estendendo poi la IMF per stelle di piccola massa fino al limite di 0,1 masse solari, cioè fino al limite minimo di massa entro il quale una stella riesce a fondere idrogeno nel nucleo, si ottiene una massa stellare supplementare di 14.310 ± 2.400 masse solari. Ciò porta il totale generale delle stelle di sequenza principale a circa 152.000 ± 23.500 masse solari.

Il “censimento” delle masse non sarebbe però completo se non tenesse conto anche di tutti gli oggetti che sono ormai usciti dalla sequenza principale. Quest’ultima parte del procedimento è inevitabilmente basata su un ampio ventaglio di congetture.

In primo luogo gli autori hanno assunto che giganti rosse, subgiganti e stelle del cosiddetto red clump abbiano tutte una massa pari a quella del Sole. La congettura non è arbitraria, ma discende dal fatto che le stelle che possiamo vedere oggi in una fase successiva alla sequenza principale devono avere ovviamente un’età compatibile con la zona della galassia in cui si trovano. Poiché l’età stimata del nucleo è all’incirca di 11–12 miliardi di anni e poiché non ci sono segni evidenti di formazione stellare dopo i primi due miliardi di anni, le uniche stelle che in questo arco di tempo possono aver raggiunto la fine della sequenza principale senza essere diventate già resti stellari sono le stelle di massa molto simile o uguale a quella del Sole (la permanenza del Sole sulla sequenza principale è stimata in dieci miliardi di anni). L’insieme di queste stelle apporta in totale altre 4.116 masse solari alle 152.000 calcolate in precedenza.

Naturalmente il nucleo galattico non conteneva in origine solo stelle di masse comprese tra 0,1 e 1,0 masse solari. Dovevano esserci anche numerose stelle più massicce. Che fine hanno fatto? Le stelle consumano il loro combustibile nucleare tanto più velocemente quanto più elevata è la loro massa. Ciò significa che tutte le stelle che all’inizio della sequenza principale avevano più di una massa solare sono oggi stelle morte: sono cioè buchi neri, stelle di neutroni o nane bianche.

Basandosi su studi precedenti, i ricercatori hanno definito tre gamme di masse per stabilire il destino finale delle stelle più massicce del Sole:

  • quelle nate con più di 25 masse solari sono diventate buchi neri;
  • quelle nate con masse comprese tra 10 e 25 masse solari sono diventate stelle di neutroni;
  • quelle nate con masse tra 1 e 10 masse solari sono diventate nane bianche.

A questo punto hanno applicato la IMF classica di Salpeter, con α = −2,35, alla gamma di masse compresa tra 1 e 120 masse solari, in modo da ottenere il numero totale di stelle più massicce del Sole formatesi nella regione del nucleo osservata da Hubble (il valore 120 è un’altra stima, dettata da quello che è presumibilmente il limite superiore di massa per una stella formatasi nel nucleo galattico).

Per arrivare alla massa complessiva delle stelle morte presenti nel campo SWEEPS serve però ancora un passaggio. Non tutta la massa iniziale di una stella finisce infatti nel suo resto finale: un buco nero, una stella di neutroni o una nana bianca contengono solo ciò che rimane dopo che una buona parte del materiale stellare originario è finita dispersa nel mezzo interstellare. La dispersione avviene in diversi modi, che cambiano a seconda della massa iniziale: venti stellari più o meno intensi, nebulose planetarie, esplosioni di supernova. Anche in questo caso, decidere il rapporto tra la massa iniziale di una stella e il suo resto finale è una questione di stime: scientificamente fondate, ma pur sempre stime. Gli autori hanno adottato i seguenti parametri di calcolo:

  • la massa dei buchi neri è sempre 1/3 della massa iniziale delle stelle da cui si sono formati;
  • la massa delle stelle di neutroni è sempre pari a 1,4 masse solari;
  • la massa delle nane bianche è stabilita in base a un formula (che saltiamo per brevità), ma può raggiungere al massimo 1,3 masse solari.

Al termine di questa complessa procedura, i valori ottenuti sono stati i seguenti:

  • 11.151 ± 1.900 masse solari in buchi neri;
  • 3.905 ± 600 masse solari in stelle di neutroni;
  • 53.912 ± 9.200 masse solari in nane bianche.

E così, da tutti i valori parziali riportati finora, si giunge finalmente alla massa totale delle stelle del nucleo galattico presenti all’interno del campo SWEEPS. Il totale è 228.814 ± 25.300 masse solari. Comprende le stelle vive (tutte quelle di sequenza principale), le morenti (giganti rosse, subgiganti, stelle del ramo orizzontale) e quelle morte (buchi neri, stelle di neutroni e nane bianche).

Rappresentazione artistica di una nana bianca. L’inventario stellare del campo SWEEPS indica che la somma delle masse delle nane bianche è pari a circa un terzo della somma delle masse delle stelle di sequenza principale. Credit: ESO/L. Calçada

Il conto della luce

Ma le masse stellari sono solo una parte dell’informazione cercata dagli astronomi. Per comporre un quadro più completo delle caratteristiche del nucleo galattico, la massa va messa in relazione con la luminosità. La domanda da farsi, dunque, è ora questa: qual è la luminosità totale emessa dalle stelle del nucleo galattico presenti nel campo SWEEPS?

Il calcolo è stato fatto, in questo caso, a partire dai dati fotometrici delle stelle per le quali era stato misurato il moto proprio. Sono stati ricavati alla fine due valori di luminosità totale, uno per ciascuno dei due filtri utilizzati da Hubble per osservare quelle stelle. Nel filtro per il vicino infrarosso (F814W), la luminosità totale è risultata pari a 104.000 ± 2.000 luminosità solari. Invece, nel filtro per la luce visibile (F606W) il valore ottenuto è stato di 71.000 ± 1.400 luminosità solari.

Sorge a questo punto una nuova domanda: che prove ci sono che questi valori siano attendibili? Non potendo condurre esperimenti di laboratorio sulle stelle osservate, si ricorre, come spesso accade in astronomia, ai software di simulazione. Negli ultimi anni sono stati sviluppati in questo settore prodotti estremamente sofisticati (anche con un importante contributo di studiosi italiani), che sono in grado di riprodurre con un alto grado di attendibilità le caratteristiche di una popolazione stellare in base al suo stadio evolutivo.

Inserendo nel modello gli stessi parametri utilizzati per derivare la luminosità del campione reale di stelle (distanza, estinzione, epoche di formazione stellare, le due IMF, numero presuntivo di sistemi binari, metallicità solare), i ricercatori hanno ripetuto la simulazione 1.000 volte, ottenendo valori medi di luminosità un po’ minori di quelli ricavati dai dati osservativi, cioè: circa 92.800 luminosità solari per il filtro F814W e circa 58.900 luminosità solari per il filtro F606W.

Curiosamente, il miglior accordo con i dati osservativi si è avuto simulando per la popolazione stellare del campo SWEEPS una metallicità molto bassa (Z = 0,008): intorno a 101.600 luminosità solari per il filtro F814W e 70.800 per il filtro F606W.

I risultati ottenuti nelle simulazioni si spiegano probabilmente con il fatto che la luminosità totale calcolata sulla base dei dati osservativi è stata leggermente sovrastimata a causa della contaminazione del campione di stelle del nucleo con alcune brillanti stelle del disco galattico. Ciò spiegherebbe sia la minor luminosità totale ottenuta nella simulazione fatta usando gli stessi parametri adoperati nel grafico delle due IMF sia il valore quasi perfettamente corrispondente ottenuto, invece, nella simulazione con bassa metallicità (le stelle con basso contenuto di metalli sono più luminose delle stelle con contenuto di metalli simile a quello del Sole).

Comunque sia, dopo aver ottenuto la massa e la luminosità totali delle stelle del nucleo presenti nella regione osservata da Hubble, si può finalmente calcolare il rapporto massa/luminosità di questo insieme di stelle. Dato che le luminosità totali calcolate sono due, una per ciascuno dei due filtri usati nell’osservazione, due sono anche i valori del rapporto massa/luminosità:

  • 2,2 ± 0,3 per F814W e
  • 3,2 ± 0,5 per F606W.

Per non lasciare nulla al caso, i ricercatori hanno poi calcolato il rapporto massa/luminosità usando due diversi valori di α per le stelle di oltre 1 massa solare, uno maggiore di quello proposto da Salpeter e uno minore: cioè −2,0 e −2,7 invece di −2,35. I risultati ottenuti sono riportati nella tabella seguente.

Credit: A. Calamida et al., The Astrophysical Journal, Volume 810, Number 1 (agosto 2015)

Da tutto ciò si ricava che la relazione massa/luminosità per le stelle del nucleo galattico comprese nel campo SWEEPS ha un valore compreso tra 3,1 e 3,6 per il filtro della luce visibile e tra 2,1 e 2,4 per il filtro del vicino infrarosso.

Tali cifre ci dicono, tra le altre cose, che questa regione contiene principalmente stelle di sequenza principale di massa inferiore a quella del Sole e resti stellari. La luminosità aumenta infatti esponenzialmente con il crescere della massa, sicché, se quel campione di stelle fosse dominato da stelle più massicce del Sole, il rapporto massa/luminosità sarebbe sbilanciato a favore della luminosità, non della massa: una sola stella di grande massa può emettere, infatti, una luminosità pari a migliaia o anche centinaia di migliaia di volte la luminosità del Sole.

Questo risultato era del resto atteso. Scoprire oggi nel nucleo stelle massicce di sequenza principale avrebbe voluto dire che c’è stata un’attività recente di formazione stellare: la sequenza principale delle stelle massicce dura, infatti, al massimo poche decine o centinaia di milioni di anni. Ma l’età tipica delle stelle della regione indica, invece, che l’attività di formazione stellare si è fermata diversi miliardi di anni fa e non è più ripartita.

Vista totale del campo SWEEPS fotografato da Hubble con lo strumento ACS. L’immagine alla massima risoluzione misura 19.734 x 14.373 pixel. Credit: NASA, ESA, A. Calamida e K. Sahu (STScI), e SWEEPS Science Team

Ringrazio la dr. Annalisa Calamida dello Space Telescope Science Institute (AURA), prima autrice dello studio su cui è basato questo articolo, per le precisazioni e i miglioramenti al testo che mi ha cortesemente suggerito.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.