Un gioviano caldo cotto a fuoco lento dalla sua stella (rappresentazione artistica). Credit: Philip A. Cruden

L’istruttiva storia dei pianeti che non erano pianeti ma raggi cosmici (9/10)

Sul potere della scienza e sui limiti della speculazione

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
4 min readJan 10, 2016

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L’intricata vicenda, conclusasi con l’ammissione dell’errore a proposito delle presunte microlenti gravitazionali, suggerisce alcune considerazioni generali sulla natura della ricerca scientifica.

La prima, e la più ovvia, è che la scienza non è affatto esente da errori. Però tende inesorabilmente a correggerli. Ciò è possibile, in parte, perché esiste oggi una rapida e completa condivisione delle informazioni e delle ricerche, grazie a immensi database pubblici in cui sono archiviati i dati osservativi. Ciò permette agli autori di esercitare un costante e reciproco controllo incrociato sui risultati pubblicati. Ma un altro elemento importante è la disponibilità degli scienziati a riconoscere il potere dei dati: quando emergono fatti nuovi che smentiscono le loro convinzioni precedenti, sono pronti, in linea di massima, a valutare obiettivamente i nuovi elementi, comprendere gli eventuali errori commessi e, se necessario, ammetterli pubblicamente.

La forza oggettiva delle prove — e la disponibilità a cercarle, quando i fatti sono ambigui — permette alla scienza di progredire rapidamente, evitando inutili guerre di “religione”. Ciò, in verità, non sempre riesce, perché a volte le prove si ostinano a rimanere ambigue oppure perché l’elemento emotivo e politico è troppo forte, come nel caso della questione del riscaldamento globale. Ma i progressi incredibili compiuti dalla scienza negli ultimi quattro secoli sono una prova sufficiente che il metodo scientifico (qualunque cosa s’intenda esattamente con questa locuzione), preso nel suo insieme, funziona alla grande.

Un’altra considerazione che nasce dalla lettura degli studi che cercarono di spiegare le presunte microlenti gravitazionali in M22 è quanto siano minuscoli gli indizi sui quali gli astronomi sono spesso obbligati a lavorare e quanto, viceversa, gigantesca la scala dei fenomeni addotti come spiegazione, anche solo congetturale, sulla base di quegli indizi.

Nel caso specifico, tutto ciò che si aveva a disposizione come dato osservativo — prima che si scoprisse che si trattava di artefatti dovuti ai raggi cosmici — era un lieve aumento di luminosità di sei deboli stelle di magnitudine compresa tra 22 e 23. L’evento si era verificato una sola volta per ciascuna stella e la sua esatta durata non era nota.

Astronomi appartenenti a differenti istituti e gruppi di ricerca, persino a continenti diversi, cominciarono a lavorare su quello striminzito insieme di dati, macinando confronti, calcoli, simulazioni, congetture. Quei pochi pixel con valori di luminosità lievemente alterati diventarono l’indizio dell’esistenza di un’immensa schiera di pianeti solitari, che s’immaginava potessero costituire addirittura il 10% dell’intera massa dell’ammasso globulare M22: qualcosa come 30.000 masse solari in pianeti invisibili.

Ma alcune simulazioni indicavano, come abbiamo visto, che quegli ipotetici pianeti non potevano appartenere al nucleo di M22. Così, di deduzione in deduzione, passando attraverso calcoli che fornivano indicazioni improbabili (come quella che nella periferia di M22 potessero esistere tra 20.000 e 2 milioni di pianeti per ogni stella), si arrivò a ipotizzare come spiegazione dei sei eventi un ammasso oscuro, formato da milioni di pianeti solitari e forse nane brune, nati non si sa bene come, nascosti nel buio in qualche punto imprecisato tra noi e il centro galattico, davanti o dietro l’ammasso globulare M22. Quanto aveva viaggiato l’immaginazione scientifica, partendo da quei pochi pixel “illuminati” nelle immagini di Hubble!

Ma gli astronomi che elaborarono quelle congetture avevano anche ben chiara l’alternativa più semplice, suggerita dal rasoio di Occam: cioè che quei sei presunti eventi fossero un abbaglio, che non ci fosse mai stata, cioè, alcuna microlente gravitazionale di origine planetaria, come poi il successivo riesame dei dati da parte di Sahu e dei suoi collaboratori dimostrò.

Tutta questa storia di pianeti solitari, microlenti e raggi cosmici rimanda a un dato di fatto innegabile e, per certi versi, doloroso: ciò che possiamo sapere dell’universo al di fuori del sistema solare è legato spesso a indizi esilissimi, talvolta così deboli che il confine tra presenza e assenza di informazione è sfumato (come quando ci sembra di aver udito un suono debolissimo che invece è solo nella nostra testa). In altri casi l’informazione c’è, ma è talmente ingarbugliata all’interno di un segnale allo stesso tempo ambiguo e complesso che o viene perduta o viene scambiata per qualcosa di differente. Un esempio clamoroso, se i dati lo confermeranno, è la recente scoperta, pubblicata in uno studio guidato dall’astronomo francese Alexandre Santerne, che oltre la metà dei candidati esopianeti giganti individuati dal telescopio spaziale Keplero non erano poi pianeti, ma altre cose: sistemi binari, nane brune, eruzioni stellari, rumore di fondo.

D’altra parte, bisogna riconoscere che gli astronomi riescono a fare autentiche magie con l’unica fonte di informazione a loro disposizione: quei pochi fotoni che, provenienti a volte da miliardi di anni luce di distanza, manipolano nei modi più impensati, spremendoli fino a ottenere ogni frammento di informazione utile su stelle, pianeti, galassie, quasar e altri oggetti dispersi nell’immensità dello spazio (e del tempo).

Tuttavia, più è scarna l’informazione trasportata dalla radiazione elettromagnetica che giunge fino agli specchi, alle antenne e ai sensori dei telescopi, maggiore è il lavorìo d’interpretazione e congettura a cui gli astronomi sono costretti. E qui nasce il rischio di partire per la tangente, costruendo castelli di congetture alla cui base c’è davvero poco materiale solido. Molti, per esempio, degli studi pubblicati negli anni su Eta Carinae e la sua compagna invisibile hanno proprio questa caratteristica: di costruire elaborazioni sofisticate e complesse sui pochi e ambigui dati osservativi ottenuti, lasciando il lettore con l’impressione, almeno in qualche caso, che l’immaginazione abbia avuto la meglio sull’oggettività scientifica.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.