Alieni sì, alieni no. Contatto sì, contatto no

Michele Diodati
Through the optic glass
7 min readSep 29, 2016
Stephen Hawking

Il grande fisico inglese Stephen Hawking è convinto che non siamo soli nell’universo e che certamente da qualche parte, magari in qualche sistema stellare nei dintorni galattici del Sole come Gliese 832, vivano esseri intelligenti in grado di inviare messaggi altrettanto intelligenti.

Hawking pensa che ci sia la concreta possibilità che entro qualche decennio al massimo i radiotelescopi terrestri riescano a captare segnali provenienti da intelligenze aliene. Per questo ha aderito all’iniziativa Breakthrough Listen, finanziata con 100 milioni di dollari dal miliardario russo Yuri Milner e da altri visionari.

La Breakthrough Listen sta già usando alcuni dei maggiori radiotelescopi del mondo per “pettinare” il cielo nelle frequenze tra 1 e 15 GHz alla ricerca di “voci” dallo spazio. Per ora la ricerca è limitata alle 43 stelle più vicine, situate entro 5 parsec di distanza dal Sole, ma il progetto prevede di allargare rapidamente il raggio di ascolto fino a coprire 1 milione di stelle relativamente vicine, oggetti esotici come nane bianche, stelle di neutroni e buchi neri e persino oggetti esterni alla Via Lattea: i nuclei di 100 galassie scelte in base alla vicinanza e al tipo morfologico (spirali, ellittiche, nane, irregolari).

La cosa veramente curiosa, però, è che Hawking pensa che, il giorno in cui dovessimo finalmente captare un messaggio alieno, non dovremmo rispondere. O almeno dovremmo pensarci molto bene prima di farlo. Lo ha detto già molte volte e molto chiaramente:

Meeting an advanced civilization could be like Native Americans encountering Columbus — that didn’t turn out so well.

Tradotto, incontrare una civiltà avanzata potrebbe essere come l’incontro tra i nativi americani e Colombo: non finì molto bene (per i nativi, ovviamente).

Molti uomini e donne di scienza non sono d’accordo con la tesi isolazionista di Hawking. Non è d’accordo, per esempio, Seth Shostak, astronomo senior del SETI Institute, coinvolto da oltre trent’anni nella ricerca di segnali intelligenti provenienti dallo spazio.

Shostak ritiene che, se una civiltà extraterrestre tecnologicamente molto avanzata fosse interessata alle risorse offerte da un pianeta come la Terra, non dovrebbe aspettare di ricevere un invito formale dai terrestri per venire qui e appropriarsene. Degli alieni affamati di risorse sarebbero potuti sbarcare qui già un miliardo di anni fa, per quel che ne sappiamo. O farlo tra un miliardo di anni, quando molto probabilmente non ci sarà più alcun segnale radio in partenza dalla Terra.

Se, invece, la paura è che ci scoprano proprio attraverso le nostre trasmissioni radio, bisognerbbe allora spegnere immediatamente — dice Shostak — le antenne della BBC, della NBC, della CBS e i radar di tutti gli aereoporti. Ma sarebbe comunque troppo tardi: segnali radio prodotti sulla Terra nel secolo scorso si trovano già a oltre 80 anni anni luce di distanza, a disposizione di qualsiasi intelligenza aliena dotata di mezzi tecnologici in grado di ricevere e decodificare quei (deboli) segnali.

Paul Davies, scienziato e divulgatore scientifico di fama mondiale, ritiene che la paura che una civiltà extraterrestre possa invadere la Terra e sottomettere o distruggere la specie umana risente di una visione troppo antropocentrica dell’evoluzione dell’intelligenza. Secondo Davies, «una civiltà che fosse sopravvissuta per milioni di anni dovrebbe aver imparato a superare qualsiasi tendenza aggressiva, e potrebbe aver modificato geneticamente le proprie specie al fine di farle vivere in armonia. Una specie aliena davvero bellicosa avrebbe finito per autodistruggersi molto tempo fa o avrebbe preso possesso dell’intera galassia». Jill Tarter, astronoma ed ex direttrice del SETI Institute, la pensa più o meno come Paul Davies.

Forse ciò che tutti questi autorevoli scienziati hanno davvero in comune, Hawking compreso, è un eccesso di ottimismo: l’idea, cioè, che vi sia qualcuno là fuori, su un pianeta non troppo lontano dalla Terra, che ha evoluto un’intelligenza assimilabile alla nostra, un sistema simbolico analogo a quello umano, motivazioni simili alle nostre e una tecnologia per inviare segnali nello spazio compatibile con le nostre tecnologie. E tutto ciò proprio nella finestra temporale utile: il messaggio alieno di cui siamo in attesa deve, cioè, essere partito dal pianeta abitato da questa ipotetica civiltà esattamente tanti anni fa quanti ne servono perché le onde radio su cui viaggia possano coprire la distanza che ci separa dall’emittente, così da arrivare sulla Terra proprio ora che siamo in ascolto.

I sostenitori del progetto SETI sono ben consapevoli di queste difficoltà, ma credono che, aumentando il numero di sistemi stellari scandagliati con i radiotelescopi e la capacità di ascolto, si riesca alla fine a compensare la bassissima probabilità che tutte le coincidenze sopra ricordate si verifichino. I 50 anni di silenzio dallo spazio accumulati finora, interrotti solo da qualche raro falso positivo, stanno però lì a dimostrare quanto quest’aspettativa sia intrisa di ottimismo.

Ma forse 50 anni di ascolto sono ancora pochi. Forse le tecnologie e le modalità di ricerca che abbiamo impiegato finora non erano adeguate. Forse hanno davvero ragione i sostenitori dei progetti SETI e Breakthrough Listen e ben presto riceveremo l’agognato segnale intelligente da un pianeta a qualche decina di anni luce dalla Terra. Può darsi.

È senz’altro vero che lo spazio intorno a noi pullula di pianeti potenzialmente abitabili. Solo grazie alla missione Keplero, per esempio, sono stati scoperti migliaia di esopianeti, diversi dei quali potrebbero avere condizioni climatiche relativamente simili a quelle terrestri. Nell’intera galassia esistono forse milioni, o addirittura miliardi, di pianeti con condizioni tali da consentire la vita per come noi la conosciamo. Abbiamo inoltre le prove che precursori della vita, come gli amminoacidi, esistono anche su altri oggetti celesti.

E infine, da Copernico in poi, pensare che la Terra sia un posto speciale nell’universo si è dimostrata un’idea fallace. La Terra è solo un pianeta di un sistema stellare periferico in una galassia come tante altre. Non è il centro dell’universo. Perché la vita si sarebbe dovuta sviluppare solo qui?

Tutti ragionamenti condivisibili. Ma finché non avremo le prove che la vita esiste davvero anche altrove, una vita attecchita in modo indipendente da quella terrestre, per esempio sotto i ghiacci di Europa o di Encelado, dovremo accettare il fatto che l’unico pianeta abitato a noi noto resta la cara, vecchia Terra. Per quanto improbabile sia, non possiamo ancora escludere che — per qualche incredibile e ignota ragione — la vita abbia attecchito solo sul nostro pianeta.

Ma se anche non fosse così, se anche l’universo brulicasse di forme di vita, non saremmo per questo un solo passo più vicini alla possibilità di fare la conoscenza via radio con intelligenze extraterrestri.

In primo luogo, la nostra nozione di vita è necessariamente limitata a ciò che abbiamo imparato sugli esseri che hanno popolato e popolano la Terra. Sulla base di questa esperienza, sappiamo che la vita prospera grazie a processi metabolici che trasformano, in vari passaggi, alcune sostanze disponibili nell’ambiente in energia e materiali di scarto. E sappiamo che questa vita non sarebbe possibile in mancanza di acqua, carbonio, azoto e pochi altri elementi. Sappiamo, infine, che la replicabilità della vita dipende innanzitutto da una particolare, lunghissima molecola che si chiama DNA.

Non abbiamo purtroppo la minima idea se questo repertorio di informazioni sia sufficiente a riconoscere forme di vita evolutesi su altri pianeti, in condizioni ambientali completamente diverse da quelle che conosciamo.

Data questa fisiologica ignoranza fondamentale, suona veramente ottimistica la speranza in una imminente comunicazione interstellare con altri esseri intelligenti. Captare un segnale contenente un messaggio significativo proveniente dallo spazio sarebbe il frutto di un’incredibile serie di coincidenze. Vorrebbe dire che su un altro pianeta non troppo lontano dalla Terra si è evoluta una forma di vita dotata di intelligenza, linguaggio, motivazioni, attitudine a risolvere i problemi talmente simile alla nostra, talmente compatibile con le caratteristiche della specie umana, da rendere possibile una comunicazione. E tutto ciò — vale la pena di ripeterlo — proprio mentre noi siamo in ascolto.

La cosa, se si verificasse, sarebbe tanto incredibile da non poter essere considerata più una coincidenza fortunata. Vorrebbe dire che esiste una specifica tensione evolutiva, che agisce come una legge di natura, valida non solo per la Terra ma per l’universo intero (o almeno per quello locale): dovunque la vita riesca ad attecchire, dati un tempo sufficiente e condizioni ambientali sufficientemente stabili, evolverà prima o poi una specie intelligente, in grado di usare linguaggi simbolici e desiderosa di comunicare con altre intelligenze simili.

Questa idea, ovviamente, non è campata in aria. Indizi che la vita proceda per convergenze evolutive e livelli di complessità crescenti sono chiaramante visibili sulla Terra. Ci sono strutture evolutesi più volte e in modo indipendente, come gli occhi e le ali. E l’intelligenza non è un’esclusiva della specie umana: corvi e topi, per esempio, sono in grado di risolvere problemi complessi, che dimostrano il possesso di sofisticate capacità mentali.

È lecito, pertanto, immaginare che, se la vita è un fenomeno universale, allora problemi simili possano aver trovato soluzioni simili anche su mondi differenti. Forse l’intelligenza, la capacità di astrazione, il linguaggio simbolico e la tecnologia sono il destino più o meno inevitabile di ogni processo evolutivo biologico sufficientemente lungo (e fortunato).

In conclusione, se la vita non è un fenomeno unico e irripetibile e se questa convergenza evolutiva effettivamente esiste, allora, forse, sperare di imbattersi in una comunicazione intelligente di origine extraterrestre non è un sogno del tutto impossibile. Ma si tratta di due grandi ‘se’.

Uno studio pubblicato nel 2015 ha analizzato la luce infrarossa di circa 100.000 galassie, confrontandola con la luce visibile emessa da quelle stesse galassie. Gli autori erano alla ricerca di prove dell’esistenza di super-civiltà tecnologiche, in grado di “sequestrare” ingenti porzioni dell’energia stellare di un’intera galassia per i propri scopi energetici (civiltà di III livello nella cosiddetta scala di Kardašëv).

Se vi fosse una galassia dominata da una simile civiltà, la sua emissione nell’infrarosso apparirebbe molto più potente di quella nella luce visibile, come conseguenza della trasformazione in calore di parte dell’energia sequestrata (una conseguenza inevitabile del secondo principio della termodinamica). Purtroppo nessuna di quelle 100.000 galassie ha evidenziato il minimo segno di una simile, diffusa attività intelligente: un risultato piuttosto deprimente per chi crede che l’intelligenza e lo sviluppo tecnologico siano un destino pressoché inevitabile nell’evoluzione della vita.

--

--

Michele Diodati
Through the optic glass

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.