Nessuno è più disposto a usare qualcosa che non rispetti i principi di usabilità
Jobtrotter per vocazione, outsider per definizione (secondo la nostra), Guido è l’unico tra noi ad aver creato una sua realtà reinterpretando e cavalcando quel nuovo “contesto in piena esplosione” di cui parla qualche riga più in giù.
Partiamo con le domande di circostanza: Nome, eta’, posizione geografica e attuale job role.
Guido, 36 anni, Firenze (ma girando parecchio), CDO&Partner @temera.
Come mai hai deciso di fare il DAC? Raccontaci un po’ della tua triennale, da dove venivi e dei motivi che ti hanno spinto a iscriverti a questa specialistica.
Venivo da una triennale in Scienze Della Comunicazione, indirizzo Comunicazione di Massa. Scelsi di fare il DAC perchè dopo tre anni di “scienza delle merendine”- anche se con esami molto interessanti e stimolanti ma non proprio funzionali a una formazione lavorativa - volevo qualcosa di più specifico. Mi suggerì il DAC il professore con cui mi ero laureato, Oronzo Parlangeli. Grazie a lui, quando mi sono iscritto sapevo più o meno che cosa era l’interaction design.
Col senno di poi quale e’ stato il corso che ti e’ piaciuto di più?
A parte i primi 3 o 4 corsi, dove mi sentivo un alieno, tutti gli altri erano molto interessanti, soprattutto per l’approccio teorico con sviluppo pratico.
Ho la memoria di un chihuahua, non mi ricordo assolutamente i nomi né dei professori né dei corsi…
…non c’è problema, le prossime domande sono su questo ma figurati. 😒
Ma fra i più interessanti metterei quello legato a processing…
Ti aiuto io, il corso era quello di Physical Computing con Giorgio Oliviero.
E quello legato alla creazione di nuovi artefatti digitali.
Intendi Design dei Media Digitali. Invece, il corso che ti e’ servito di più?
Per il mio lavoro, nello specifico, nessuno. Diciamo che mi è servito tutto il corso di laurea, per entrare consapevolmente nel mondo degli ambienti digitali e avere una visione d’insieme chiara sulle potenzialità e possibilità di un contesto in piena esplosione.
Quindi stai dicendo che hai imparato sul campo?
Beh, facemmo l’esame sull’usabilità delle interfacce e lo smartphone più avanzato era il blackberry. 😄
Siamo curiosi di sapere cosa hai fatto dopo la laurea, le difficolta’ che hai avuto e le soddisfazioni che ti sei preso, ma anche le motivazioni che ti hanno portato verso certe decisioni. Raccontaci brevemente…
Dopo la laurea avevo la possibilità di entrare da tirocinante in due aziende di prodotti SW&HW ma avevo già deciso di fare qualcosa per conto mio, in un momento in cui tutti volevano la propria start up.
Aprii la mia WHPH (Work Hard Party Harder), si lo so, il nome era trash.
L’hai detto tu eh!
E, in maniera molto nerd, comprammo il dominio delle filippine workhard.ph (eravamo “spammatissimi” ovviamente). Partimmo nel 2011 in quattro, io, un ragazzo che aveva fatto il mio stesso percorso di studi, un laureato in informatica e uno in economia.
A livello di team avevamo le varie componenti: sviluppo, project management e user experience, amministrazione e commerciale. Di fatto, se tolgo i primi due progetti, non ho mai fatto l’interaction designer, troppi miracoli da compiere per portare avanti un’azienda senza clienti, senza una minima agevolazione e senza stipendi. Quindi ho iniziato a prendere lavori, fare accordi di sviluppo per altre aziende più grandi, che avevano troppo lavoro e non riuscivano a farlo internamente.
È stato positivo o negativo?
L’unica soddisfazione: quella di sovrintendere quello che producevamo e dare le linee guida in base all’analisi fatta col cliente.
L’azienda è cresciuta e dopo due anni e mezzo siamo stati acquisiti da una azienda più grande, eravamo già 8-9 persone. Siamo diventati -noi, i soci fondatori- dei soci di minoranza della nuova società, che lavorava (e lavora tuttora) nel mondo dell’RFID e nel settore della moda di lusso. Era il 2013 e, in Temera, ero il responsabile di quella che era la mia ex azienda, quindi il responsabile del settore digitale.
Siamo cresciuti ancora, con l’ingresso in società di una multinazionale leader nel mondo Rfid e un’azienda italiana produttrice di tag. Adesso l’azienda ha 75 dipendenti. Io mi occupo dei progetti di customer engagement e retail solution, con un focus particolare su tutto il mondo legato all’interazione con i tag NFC e progetti di IOT tramite utilizzo di Rfid.
Bello, intelligente e di successo insomma (il tuo numero ce l’ho 🤙🏻).
Dato il tuo recente passato lavorativo, siamo curiosi di sapere se la tua opinione su cosa e’ l’Interaction Design è cambiata dall’università al mondo del lavoro?
Non ho sufficiente esperienza per rispondere.
Posso sicuramente confermare l’utilità quasi imprescindibile della UX per fare prodotti di successo, soprattutto negli ultimi anni dove gli standard dell’utilizzatore finale si sono molto alzati e nessuno è più disposto a usare qualcosa che non rispetti i principi di usabilità.
È chiaro e ci rassicura sapere che la pensi così. Riesci a rispettare questa convinzione nel tuo lavoro? E in che modo?
Noi non lavoriamo con grafici ma con UX designer e non potremmo farne a meno. Il prodotto di punta della nostra azienda è un middleware -una sorta di gestionale- che dagli albori è stato pensato secondo i principi base della UX, responsiveness e web based a differenza dei preistorici gestionali da terminale.
Lavorare con UX designer nella progettazione di interfacce è fondamentale affinché le nostre soluzioni siano facilmente utilizzabili, soprattutto dai dipendenti delle aziende che le usano a scopo operativo.
Come e dove ti vedi tra 5 anni?
Mi vedo sempre impelagato da mattina a sera, ma in un contesto maggiormente creativo e di comunicazione.
Hai mai pensato di andare all’estero? E se si, perché?
No. Sto bene nel mio contesto, non sono mai voluto andare all’estero.
In Italia non hai supporto dallo Stato anche se lanci un’azienda da zero, con soci quattro laureati under 30. L’unico modo per farcela è farsi un bel culo, senza tanti giri di parole.
Beh, questo sembrerebbe un buon motivo per voler andare via…
La frustrazione spesso è tanta, ma non è vero che non ci sono possibilità. Conosco tante belle realtà nate da zero e che adesso incentrano la propria cultura aziendale sul benessere dei dipendenti, alla maniera della Silicon Valley (con i mezzi italiani ovviamente).
In questi anni ho notato come un’esperienza all’estero elevi il CV e in alcuni casi anche la qualità del lavoro, principalmente perché la persona si trova a lavorare in un contesto maggiormente internazionale.
Ho avuto la fortuna di poter fare questo processo rimanendo in Italia, perché ho un socio estero, lavoro spesso con clienti internazionali e in maniera continuativa con un nostro partner americano che sento quotidianamente.
Ti vedi a fare il tuo attuale lavoro per tutta la vita o pensi di cambiare ad un certo punto?
Cambiare…come si fa a fare la stessa cosa tutta la vita?
C’e’ qualcos’altro che vuoi aggiungere? Sei libero di dirci quello che vuoi…
Mi dispiace che sia stato tagliato il DAC dopo così pochi anni, era un’esperienza italiana di successo in quanto portava a una formazione fatta da persone competenti, sia professori universitari che professionisti del settore, con una struttura degli esami stimolante e creativa. Credo che con la possibilità di investimenti sarebbe diventato un caso di successo dell’università italiana.
Guido ha risposto a tutte le nostre domande da una spiaggia della Tanzania.
È stata l’ultima volta che lo abbiamo sentito.
A quanto ci dicono i social è tornato nella sua Firenze per dedicarsi a un nuovo progetto -Virgo- una piattaforma che misura la sostenibilità della moda.
Se volete conoscerlo potete trovarlo qui.