“Non ho mai incontrato un Interaction Designer che fosse uguale a un altro: c’è chi ha un background da graphic designer, chi da product designer o da programmatore e poi ci sono avventurieri come me.”

Alessia
UX Italics
Published in
6 min readOct 31, 2018

Fabiola, 33, Dublino, Service and Interaction Designer

Si definisce una “avventuriera del design” e a noi questa definizione piace. Un po’ perché ci riguarda tutti, un po’ perché le calza a pennello.

Voleva fare questo percorso universitario “tipo frontiera americana”- come dice lei -
e, attraversare un confine in movimento, genera rottura, crea innovazione e nuove esperienze, nel bene e nel male smuove.
E lei è sempre stata in grado di fare tutto questo meglio degli altri, a nostro parere.

Anche lei outsider del gruppo, - parlando di quelli che tempo fa avevamo definito come gli “estranei del DAC” - in questa intervista ci racconta come è stato il suo rapporto con l’interaction design e come lo vive adesso.

Ciao Fab, iniziamo col chiederti come mai avevi deciso di fare il DAC e quale è stato il tuo passato universitario prima di quel momento.

Venivo da una triennale chiamata “Analisi e produzione testi”, che voleva dire aver studiato Linguistica, Semiotica e Scienze Cognitive.
Fatta la tesi triennale in Letteratura Americana (!) avevo tre opzioni: fare la specialistica in Linguistica, fare una scuola di traduzione o fare questa specialistica nuova, in cui le scienze cognitive avevano una certa rilevanza.

And “the winner was”…

Una nuova avventura in cui buttarsi, nonostante non avessi fatto nulla nell’ambito del design fino ad allora o utilizzato un computer con sistema Linux. Però, mi consideravo leggermente sopra la media nell’interazione uomo-macchina.

Quindi, perché no?!

Volevo fare qualcosa di nuovo, volevo dire la mia in un contesto nuovo dove c’era ancora spazio per dire qualcosa, tipo “frontiera americana”.

Dunque non sapevi cosa fosse l’interaction design prima di allora?

Vagamente, ma sapevo che c’erano di mezzo alcune delle cose che avevo studiato e che Norman è, in realtà, uno psicologo non un designer. Perciò mi sono sentita autorizzata a fare la specialistica.

Dicci quale corso ti e’ piaciuto di più.

Storia socio tecnica dei media. Ho sempre avuto un debole per i rapporti tra causa ed effetto. E physical computing perchè era creativo, nerd e dovevamo fare qualcosa di concreto.

Quello che ti e’ servito di più?

Col senno di poi physical computing.

Siamo curiosi di sapere come te la sei cavata dopo la laurea.

Mi sono laureata molto tardi, nel 2015!
Avevo già iniziato a lavorare come interaction designer prima della tesi
- in una piccola azienda - facendo soluzioni interattive per il turismo.

Dopo ho deciso di trasferirmi a Torino e lì ho incontrato casualmente il mio ex professore di Physical Computing, Giorgio Olivero, che mi ha chiesto di collaborare come UX designer in TODO, a mio avviso uno dei migliori studi di interaction design in Italia.
Qui progettavo soprattutto exhibit interattivi, website e visitor experiences, perchè il mio background in semiotica e scienze cognitive mi rendeva una figura di relazione tra interaction e content design.

Da quel che ci dici, l’unica tua “vera” esperienza lavorativa italiana.
È stata soddisfacente?

Ho lavorato lì per 5 anni tra alti e bassi: gli alti derivati dai progetti su cui sono riuscita a mettere le mani (Museo Egizio, Padiglione Enel ad Expo, Mozilla etc etc), i bassi dati dalle condizioni di lavoro in Italia: clienti prepotenti, budget ridicoli, mancanza di cultura del design e un mio senso di inadeguatezza verso il ruolo.

Proprio per questi alti e bassi ho messo in standby la tesi per tre anni, non avevo tempo ed ero demoralizzata.
Alla fine ho dovuto prendere tre mesi di ferie arretrate e l’ho fatta, laureandomi nell’ultima sessione del 2015.

“Last but not least”, insomma.
E poi cosa è successo?

Con la tesi ho dato anche le dimissioni, la disdetta del contratto di casa e son partita per Londra. A Londra ho preso le sberle per due mesi, poi sono stata assunta come UX Architect ad Immediate Media (azienda di Publishing ndr).
Nel frattempo avevo fatto application per Fjord e dopo poco più di sei mesi dal primo colloquio, è arrivata una proposta e così sono partita per l’Innovation Center di Dublino.

Dopo tutti questi spostamenti, cambi di lavoro e di vita, avrai anche cambiato la tua opinione su cosa e’ l’Interaction Design…

Certo. Da quando ho iniziato a lavorare non ho usato praticamente nulla di quello che ho fatto all'università in specialistica ed ero abbastanza delusa da questo.
Un giorno la mia relatrice di tesi - la Professoressa Marti - mi ha detto "Bhe, ma l'accademia è una cosa, il lavoro è un'altra". Per quanto semplice come risposta mi ha letteralmente aperto gli occhi.

Come mai non ci avevi pensato prima? Ti sei data una spiegazione?

Mi sentivo come uno dei Principianti di Carver. Quello che sapevo non aveva applicazione in quello che facevo tutti i giorni e, se l’aveva, la gente non era comunque interessata al processo, ma al prodotto finale.

Però quando ho iniziato a lavorare in Fjord, come Service e Interaction designer, è cambiato tutto. È come se mi fossi ricongiunta col binario universitario: facevo cose molto diverse da quelle dell’università, ma tutto sulla base del Design Thinking. Non c’è prodotto finito, ma solo processo.

E ora, cosa è l’Interaction Design per te?

La mia definizione standard di interaction design è “buonsenso che fattura”, mentre la UX è “la narrativa dei sistemi interattivi”, progettare non solo l’esperienza in se, ma provare a progettarne il ricordo.

Che cosa vuol dire fare Interaction Design in Italia per te?

Correre i 400 metri con le zavorre ai piedi. Devi patire talmente tanto tra clienti, capi, lavori, competizione e affermazione sociale che se sopravvivi sviluppi dei super poteri.

Siamo dei super artigiani dell’interaction design, siamo molto bravi nel “crafting” delle esperienze e produciamo lavori di altissima qualità anche in realtà molto piccole di freelancing, con budget a ribasso.

Quali sono le cose che cambieresti se potessi?

La cultura del design.

I clienti non sanno cosa sia il Design Thinking, non lo capiscono e quindi non vogliono pagarlo e questo danneggia il progetto e il ruolo del designer, ci fa sentire dei geni incompresi.

Cambierei anche il nostro atteggiamento: ci piace definirci designer agli aperitivi, ci fa sentire fighi, poi però facciamo un lavoro da ufficio, non sempre creativo, cavandoci gli occhi davanti al computer per far fare più soldi ad un cliente.

All’Università, invece, farei fare progetti più realistici: per esempio con un budget o con i tipici feedbacks dei clienti.

Come e dove ti vedi tra 5 anni?

Probabilmente sarò sempre in questo settore, solo un po’ più in alto, in una azienda grande, spero lontano da uno schermo.

Come sappiamo hai lasciato il Bel Paese un pò di anni fa.
Quale è stato il motivo principale?

Sono andata via dall’Italia due anni fa perchè volevo vedere come era fare l’interaction designer all’estero, guadagnare di più e avere migliori opportunità una volta tornata in Italia.

Quindi il tuo obiettivo è tornare in Italia?

Ci penso sempre, soprattutto nel tornare a Torino, ma per gli stipendi bassi e la mancanza di cultura i tempi non sono ancora maturi.

Ti vedi a fare il tuo attuale lavoro per tutta la vita o pensi di cambiare ad un certo punto?

Mi piace molto quello che faccio ma sono molto aperta ai cambiamenti, specialmente se riguardano settori culturali. Inoltre, credo che nell’ ámbito dell'Interacion Design, ad una certa eta' ci sia bisogno di fare un passo indietro e far progettare le esperienze ai cosidetti "nativi digitali".

Ne riparliamo tra qualche anno.

È il momento delle parole in libertà. C’e’ qualcosa che non ci hai detto con cui vorresti chiudere?

Non ho mai incontrato un Interaction Designer che fosse uguale ad un altro: c’è chi ha un background da graphic designer, chi da product designer o da programmatore e poi ci sono gli avventurieri come me.

Aver frequentato il DAC per me è stato sempre motivo di orgoglio, perchè -come tutte le cose all’Università — mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con la teoria — non con articoli “clickbait” — dandomi la sicurezza nell’esprimere le mie opinioni, nell’avere uno spirito critico, nel sapere le cose per averle studiate e non sentite dire.

E’ vero: l’accademia è una cosa e il lavoro è un’altra.

Fabiola in questo momento non lavora più in Fjord Dublino e ha scelto come sua nuova terra di frontiera l’Olanda, dove vive e lavora come Senior UX designer per MediaMonks.

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