Linguaggio inclusivo: 3 falsi miti e cosa tenere a mente quando si disegna una esperienza.

Semplice guida per UX/UI Designer.

Desiree Ciofi
UX Tales
10 min readDec 21, 2020

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Linguaggio inclusivo: tema caldo, non trovate? In un 2020 così particolare e costellato di situazioni inverosimili ed inimmaginabili trova fortunatamente spazio anche un tema così delicato e fondamentale come l’inclusività di genere. L’obiettivo che mi pongo in questo articolo, però, non è quello di fare una trattazione sull’evoluzione dell’italiano (o e-italiano) verso un genere neutro e né quello di concludere il tema suggerendo di aggiungere il genere femminile a qualsiasi sostantivo per lavoro.

Reg* asterischi come se piovessero!

L’obiettivo, bensì, che mi pongo in questo articolo è quello di sfatare 3 falsi miti e quindi di definire delle modeste linee guida per districarsi in questo complesso e tortuoso tema. Questo perché credo che sia importante, per chi fa il nostro lavoro, comprendere quali siano le vere necessità dietro alla costruzione di un liguaggio inclusivo.

Quindi cari miei e care mie se pensavate di cavarvela aggiungendo un bel “Altro” come selezione nel vostro campo input della form di registrazione, alla richiesta del genere dell’utente beeeeeeeeeeeeh no. Non proprio.

No, non proprio.

Prima di cominciare voglio però fare un piccolo inciso: cosa intendiamo per linguaggio inclusivo, e perché è così importante?

Linguaggio inclusivo: definizione per UX/UI Designer e il caso Sailor Moon

Tutte le società, compresa la nostra si basano sul linguaggio, che sia parlato, scritto, visivo, comportamentale o gestuale il linguaggio ci definisce e definisce le nostre percezioni. Il linguaggio inclusivo è appunto un linguaggio (evviva alle ripetizioni! Tutti insieme ora gridiamo LINGUAGGIOOOO) che si pone come fine quello di essere comprensibile, leggibile, facile da usare per tutti e capace di far sentire a chiunque che le proprie emozioni, i propri valori e le proprie scelte di vita vengono rispettate.

Per molti e per molti aspetti può sembrare banale, ma perché è così importante che il linguaggio utilizzato rispetti e comprenda tutti questi aspetti?

Per spiegarvelo vi faccio un esempio capace secondo me di rendere totalmente l’importanza dell’inclusività nella società e di conseguenza quella del linguaggio inclusivo, pronti? Voi tenete bene a mente la definizione di linguaggio inclusivo scritta poco sopra.

Il caso Sailor Moon

Avete presente Sailor Moon? Si dai sono sicura che a grandi linee ognuno di voi ha presente di cosa sto parlando. Ecco quando ero bambina io adoravo Sailor Moon, e come me molte altre bambine e bambini. La particolarità triste però di Sailor Moon è che spesso e volentieri la trama originale è stata stravolta da pesanti censure e cambiamenti. Per continuare con il mio esempio, le mie preferite Sailor Uranus e Sailor Neptune erano state trasformate da coppia omosessuale a cugine. Ecco, qui sta il punto.

Sailor Uranus e Sailor Neptune

Cambiare i particolari di quei due specifici personaggi può sembrare cosa da poco, cosa vuoi che sia, al posto di essere amanti sono cugine. Cosa vuoi che cambi? Secondo voi cambia qualcosa?

Vi ricordate la definizione di linguaggio inclusivo che vi avevo detto di tenere a mente?

comprensibile, leggibile, facile da usare per tutti e capace di far sentire a chiunque che le proprie emozioni, i propri valori e le proprie scelte di vita vengono rispettate.

Quello sconvolgimento della trama in Sailor Moon ha modificato il linguaggio inclusivo dell’opera, perdendo la possibilità di rispettare emozioni, valori e scelte di vita dei personaggi e implicitamente comunicando quella mancanza di rispetto anche all’interno della società.

Adesso che in qualche modo spero di aver chiarito cosa si intende per linguaggio inclusivo e la sua importanza, passiamo subito a sfatare 3 falsi miti a riguardo.

1. “Chiamatemi Ministra”, come l’imposizione della A ci salverà

Fake News

Analisi del falso mito

Scommetto che su questo punto avete preso parte almeno una volta, in una fazione o dall’altra, a questa polemica. Ho letto fior fior di puristi e puriste, presunti linguisti e presunte linguiste parlare di come sia scorretto e obbrobrioso utilizzare ed imporre il genere femminile relativo ad alcuni lavori e funzioni che sono nati ed utilizzati storicamente al genere maschile. D’altro canto, agli antipodi, ho letto fior fiori di altri presunti linguisti e presunte linguiste sostenere come sia necessario imporre ed iniziare ad utilizzare questa soluzione per rendere la lingua italiana un linguaggio inclusivo.

Ministro, Ministra, Ingegnere, Ingegnera, Presidente, Presidentessa ecc

Mi è capitato di leggere, nella fattispecie, su un famoso social network che chiamerò per mantenere l’anonimato “Faccia libro”, una interessante conversazione sul tema. Un acceso scambio di battute tra due ragazze:

  • Ragazza 1- sostenava di essere un dottorE e di volersi definire tale, esortava addirittura i suoi pazienti a chiamarla in questo modo ed abolire dottoreSSA quando si rivolgevano a lei.
  • Ragazza 2 - sostenava che così facendo lei annullasse le lotte di genere condotte dalle donne e che dovesse portare avanti e anzi educare all’uso del genere femminile in tutti gli ambiti.

Secondo voi, tenendo a mente la concezione di linguaggio inclusivo, chi ha ragione?

Sfatiamo il mito

L’errore principale della concezione di questa casistica sta nell’imposizione del genere femminile come soluzione. L’esigenza a cui si è cercato di rispondere con questa soluzione è quello di rispettare il genere con cui le persone si identificano. Quindi banalizzare ed identificare la soluzione nella distinzione dicotomica di molti sostantivi italiani in maschile o femminile è essa stessa una mancanza di inclusività.

Questo è il motivo per cui sulla carta ha ragione la Ragazza 1. Se lei si definisce dottorE è giusto rispettare il sostantivo con cui si indentifica, questo è essere inlcusivi.

Dottore

Tips per UX/UI Designer

Imporre non è mai il metodo corretto di affrontare e progettare una esperienza inclusiva. Quello che sarebbe importante e doveroso fare per noi professionisti e professioniste del settore, dovrebbe essere quello di capire i nostri utenti, o meglio le persone per cui disegnamo, principalmente come si identificano. Come parlano di loro stessi e loro stesse? Come si rivolgono e come manifestano le loro emozioni e scelte di vita?

Si lo so amici cari e amiche care , fare questo spesso e volentieri è impossibile, costoso e out of scope per il modello di business del nostro cliente. Cosa possiamo fare allora? Se non possiamo chiedere, quanto meno sarebbe buona norma non assumere per partito preso.

Cerchiamo di lasciare aperta e generica il più possibile l’esperienza che stiamo progettando, rendendola magari adattabile ai comportamenti e alle decisioni dei nostri e delle nostre utenti , non solo come abitudini di acquisto, ma anche come interazione e adattamento del tipo di linguaggio usato dal servizio e se proprio dobbiamo chiedere un determinato dato come ad esempio il genere lasciare la possibilità alle persone di inserire liberamente il genere in cui si identificano.

2. Easy, basta scrivere al plurale per essere inclusivi

Fake news

Analisi del falso mito

L’analisi di questo mito sembra abbastanza breve, molti e molte credono che tutto si risolva semplicemente utilizzando sempre il plurale per esprimere un concetto o dare una comunicazione.

N.B. Per spiegare questo punto sarò più prolissa e farò affidamento alla bellissima pubblicazione di Giuseppe Balirano sull’argomento. Quindi mi spiace se potrà sembrarvi fuori tema o troppo lunga, ma sono fermamente convinta che avere una visione di insieme sia fondamentale per lavorare come UX/UI Designer.

Vi riporto quindi come esempio la traduzione italiana di alcuni estratti del pamphlet pubblicato e condiviso dall’Unione Europea ed inititolato “La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento Europeo”:

[…]the creation of a Taskforce on Lesbian, Gay, Bisexual and Transgendered (LGBT) people’s rights within the Council Working Group on Human Rights (COHOM) and the upcoming adoption by the latter of a EU Toolkit on LGBT rights.

[…] la creazione di una taskforce per i diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) in seno al Gruppo “Diritti umani” del Consiglio (COHOM), e la prossima adozione da parte di quest’ultimo di un insieme di strumenti dell’UE sui diritti di LGBT.

Transgender and intersex persons are a particularly vulnerable group among LGBTI people.

Transgender e intersessuali costituiscono un gruppo particolarmente vulnerabile tra gli LGBT.

Avete notato qualcosa?

Sfatiamo il mito

Mi sono presa la libertà (perché questo articolo lo sto scrivendo io e decido io lolololol) di enfatizzare alcune parti degli estratti che vi ho riportato.

Ora un po’ di grammatica e sintassi: come potete vedere nelle parti in inglese i soggetti sono “people”, a cui sono sempre correttamente abbinati gli aggettivi usati per identificare i diritti delle persone LGBTI (Lesbiche, Gay, Bisessuale, Tansgender e Intersessuale). Nell’esempio italiano invece gli aggettivi diventano sostantivi e vengono perciò privati del sostantivo persone o individui, come invece si può vedere nell’esempio inglese (dove sono attributi). Quindi pur essendo stato utilizzato un linguaggio plurale e si sia cercato di mantenere un linguaggio neutro questo non è risultato un linguaggio inclusivo. Anzi se ben notate nella traduzione italiana (la seconda parte) viene a mancare la I finale di LGBTI escludendo così le persone intersessuali da qualsiasi rappresentazione linguistica.

Il fatto che si parli al plurale non basta. No no questo non è un linguaggio inclusivo signori e signore.

No sir

Tips per UX/UI Designer

Il nostro compito è rendere un prodotto fruibile a tutti, esatto tutti e a tutte. E per farlo è necessario conoscere e riconoscere in quali modi le persone si raccontano e si identificano, tenendo sempre bene a mente che di persone parliamo che avranno non solo una identità di genere, ma anche una appartenenza culturale, una età e anche delle disabilità. Quindi a fronte di ciò la cosa migliore che possiamo fare è trovare un modo per comunicare quello che vogliamo comunicare cercando e avendo cura di non far percepire in nessun modo alcuna differenza. Usiamo delle accortezze come verbi impersonali o pronomi generici, ma prima di tutto cerchiamo di capire ed applicare davvero il concetto di inclusività.

Ritraducendo l’estratto dal documento pubblicato dalla Comunità Europea:

[…] la creazione di una taskforce per i diritti di persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) in seno al Gruppo “Diritti umani” del Consiglio (COHOM), e la prossima adozione da parte di quest’ultimo di un insieme di strumenti dell’UE sui diritti di LGBT.

Persone transgender e intersessuali costituiscono un gruppo particolarmente vulnerabile tra gli LGBTI.

3. Mettici un asterisco e via

Analisi del falso mito

Oh questo è il mio preferito. Come per i miti precedenti è stato ed è tuttora oggetto di critiche e polemiche. Perché proprio un asterisco? Serve? Questo povero asterisco passa da essere inutile, a fuorviante, all’essere la più autorevole delle soluzioni tanto da essere utilizzato anche con fin troppa veemenza e sicurezza, tanto da tralasciare alcuni aspetti propri del linguaggio inclusivo.

Usare l’asterisco è davvero la soluzione?

Sfatiamo il mito

Ormai credo abbiamo imparato che l’italiano non ha il genere neutro, quindi trovare una soluzione per questo problema non è affatto facile e ne sta a noi poveri e povere designer. Attualmente si stanno portando avanti più tentativi per affrontare il problema, svariati a dirla tutta per darvi un’idea ve ne elenco un po’…

  • Il maschile sovraesteso (classico e non inclusivo): Ciao a tutti
  • Il femminile sovraesteso (non inclusivo): Ciao a tutte
  • La doppia forma: Ciao a tutti e ciao a tutte
  • La circonlocuzione: Ciao persone
  • L’omissione dell’ultima vocale: Ciao a tutt
  • Il trattino basso: Ciao a tutt_
  • L’asterisco: Ciao a tutt*
  • L’apostrofo: Ciao a tutt’
  • La chiocciola: Ciao a tutt@
  • La U: Ciao a tuttu
  • La X: Ciao a tuttx
  • La Y: Ciao a tutty
  • La schwa: Ciao a tuttə
  • Entrambe le desinenze: Ciao a tuttei
  • Entrambe le desinenze divise da un punto: Ciao a tutte.i
  • Entrambe le desinenze divise da una barra: Ciao a tutte/i

Come potete vedere i tentativi sono tanti, ma vanno tutti incontro a differenti problematiche. Alcune versioni non sono facili o immediate da pronunciare, per dire come pronuncereste “Ciao a tutt@”? o “Ciao a tutt*”? Altre ancora come la schwa sembrano avere una pronuncia più semplice e già collaudata in alcune zone di Italia, ma non sono effettivamente facili da utilizzare (quando trovate come farlo con uno shortcut da tastiera avvisatemi). Immaginate poi di duplicare le desinenze in ogni sostantivo, può effettivamente risultare complesso.

Io che cerco di trovare la schwa

Tips per UX/UI Designer

Una risposta a “allora usiamo l’apostrofo?” io non posso darvela. Quello che però trovo importante fare sia quello di rimanere parte della conversazione. La lingua italiana sta evolvendo, la nostra società sta evolvendo e così il nostro lavoro, quindi sicuramente come UX/UI Designer sarebbe utile rimanere sul pezzo e capire in quale direzione si sta muovendo la discussione in merito.

Su questo argomento specifico poi portiamo e ragioniamo sull’impatto di una soluzione rispetto ad un’altra. Per noi l’asterisco potrebbe compromettere la lettura? E in caso di persone non vedenti il reader come leggerebbe il nostro “Ciao a tutt*”? Può davvero la schwa essere la risposta?

Facciamoci domande, sempre.

Dalla vostra affezionata Desy qui è tutto! E come sempre mi raccomando state attente e attenti, fate le brave bimbe e i bravi bimbi, ma soprattutto…

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