È stato torturato. Chi ha ucciso Giulio Regeni?

Episodio 1: È l’ennesima vittima delle sparizioni forzate in Egitto, nel 2016. Chi ha ucciso il ricercatore Giulio Regeni?

Verità per Giulio
12 min readFeb 26, 2016

Parte 1 (episodi 123)

Giulio Regeni non è mai arrivato in piazza Tahrir. Era un ricercatore italiano di 28 anni che studiava al Cairo, aveva i capelli neri che gli stavano sempre per aria e sorrideva in ogni fotografia. Stava per concludere la tesi di laurea per il dottorato all'università di Cambridge sui diritti dei lavoratori e sui movimenti operai in Egitto, studiava i sindacati indipendenti e raccoglieva le storie dei venditori ambulanti. Era la sera del 25 gennaio al Cairo quando Giulio è scomparso, il quinto anniversario della rivoluzione che aveva portato alla deposizione dell’ex presidente Mubarak durante la “primavera araba” nel 2011. Quella sera le forze di sicurezza egiziane erano di pattuglia nelle strade in stato di massima allerta per evitare il ritorno di una protesta in piazza Tahrir e altre manifestazioni contro il governo attuale dell’ex generale Abdel Fattah al Sisi.

Giulio Regeni al Cairo. La foto del suo profilo di Facebook

Anche Giulio doveva raggiungere Tahrir. Lo stava aspettando un amico con cui doveva prendere un taxi. “Sto uscendo”, gli aveva detto Giulio al telefono. Dopo aver lasciato l’appartamento, il ricercatore si stava spostando a piedi tra il quartiere di El Dokki nella periferia del Cairo, sulla sponda sinistra del Nilo, e il centro della città. Era diretto dalla stazione della metropolitana di Bohoot a quella di Bab Al Louq, circa cinque chilometri in linea d’aria più a ovest, quando due uomini lo hanno fermato, gli hanno chiesto i documenti e poi lo hanno fatto salire su una macchina. C’erano dei filmati delle telecamere di sorveglianza dei negozi che hanno registrato il momento esatto in cui Giulio è stato prelevato dai due uomini. Un video di cui adesso non c’è più traccia.

Si teme che Giulio Regeni sia incappato in quell'apparato semiclandestino delle forze di sicurezza egiziane che sequestrano, torturano e a volte fanno sparire centinaia di persone al di fuori di ogni procedura giudiziale. Quel sistema repressivo definito delle “sparizioni forzate”.

Il giorno prima di essere portato via con la forza, Giulio Regeni aveva sentito i genitori su Skype. A marzo, il ricercatore sarebbe dovuto rientrare in Italia.

Non lo avrebbero rivisto mai più.

Nessuno ha più sentito Giulio Regeni dalla sera del 25 gennaio. Una settimana dopo la sua scomparsa, l’1 febbraio, il compagno di corso Robin Mydlak ha pubblicato una foto di Giulio su Twitter e ha chiesto a tutti di iniziare aiutarlo a ritrovare il suo amico. “È scomparso al Cairo alcuni giorni fa. Passate parola, in caso qualcuno lo avesse visto” — ha scritto Robin Mydlak. “Dov’è Giulio”.

La foto di Giulio Regeni pubblicata da Robin Mydlak su Twitter l’1 febbraio 2016

I genitori di Giulio, Claudio Regeni e Paola Deffendi, nel frattempo avevano raggiunto l’Egitto, il 30 gennaio, alla ricerca del figlio disperso. Fino a quando, tre giorni più tardi, è arrivata la notizia del ritrovamento di un cadavere nella periferia del Cairo.

A nove giorni dalla scomparsa, il 3 febbraio, il corpo senza vita di Giulio Regeni, il ricercatore italiano di 28 anni originario del comune di Fiumicello, un paese di cinquemila persone nella regione del Friuli Venezia-Giulia, è stato ritrovato in uno sterrato a Giza una grande area metropolitana contigua al Cairo. Era sotto l’insegna di una banca, coperto da un muro di cemento, lungo la strada che collega il Cairo ad Alessandria. A quaranta chilometri da luogo della sua scomparsa. Nell'area urbana “Città 6 ottobre”.

È stato trovato senza alcuni vestiti. Sulle braccia e sul resto del suo corpo di Giulio c’erano tagli, bruciature di sigaretta e ustioni.

Era stato torturato per giorni, prima morire.

“Il corpo di Giulio è stato ritrovato, e la notizia della sua morte è stata come un pugno sullo stomaco. Il suo cuore è sempre stato tra l’Italia e l’Egitto, e con i suoi amici provenienti da tutto il mondo, che hanno tenuto alta la speranza fino a questa mattina” ha scritto l’amico Robin Mydlak su Facebook, il giorno del ritrovamento del corpo di Giulio.

“Le notizie sono state vaghe, quindi cerchiamo di astenerci da ogni speculazione finché non ne sapremo di più, e attraverso un’indagine indipendente e approfondita. Ricordiamo la passione e la dedizione di Giulio. La foto che ho condiviso è stata scattata a Vienna, dove avevo revisionato il suo lavoro, e lui mi aveva aiutato con il mio. Ricordiamoci di come Giulio si prendeva cura dei suoi amici, e prendiamoci cura a nostra volta l’uno dell’altro”.

Giulio Regeni è diventato la vittima numero 341. L’Egyptian Commission for Rights and Freedoms ha registrato 340 casi di sparizioni forzate nel corso di soli due mesi, dall'inizio del 2016 — una media di tre casi al giorno. “Significa torture, estorsione di confessioni e informazioni su chiunque scenda in piazza o semplicemente critichi il governo. Chiunque si esprima liberamente, su qualsiasi fatto sociale o politico, è in pericolo” — scrive la giornalista e scrittrice Randa Ghazy.

Giulio ha vissuto come un egiziano, parlato come un egiziano, mangiato come un egiziano. Ed è stato ucciso come un egiziano. Quello che è successo a Giulio non è una sfida alla libertà accademica, di viaggiare e fare ricerca nel mondo. Giulio era visiting scholar all’ Università Americana del Cairo. Mi ricordo dell’estate trascorsa in quella stessa università a migliorare il mio arabo, quando la sede era ancora a due passi da piazza Tahrir. Arrivare all’università era sempre un’impresa: traffico, caos e alterchi con tassisti opportunisti o guardoni un giorno si’ e l’altro pure. Ma poi, superate le porte dell’università, respiravi un clima diverso: lì dentro ragazzi e ragazze potevano socializzare senza essere accusati di immorale promiscuità, gli studenti stranieri erano la norma e si poteva quasi sperare che l’Egitto ce l’avrebbe fatta, la gioventù egiziana ce l’avrebbe fatta. Si occupava di sindacati, di diritto del lavoro, frequentava incontri con gli attivisti del sindacalismo indipendente egiziano e amava Pasolini. Aveva voglia di studiare, di aiutare, di coltivare uno spirito critico”.

“L’Egitto ha bisogno che i liberali uniscano le forze, e che combattano simultaneamente due tumori uguali e contrari: la militarizzazione del paese, e l’islamizzazione del paese. Giulio è stato ucciso da entrambi, perchè entrambi hanno impedito all’Egitto di marciare verso la democrazia. Giulio è stato ucciso anche da tutti coloro che preferiscono fare affari con questo Egitto e tacere sul resto”.

Mohamed Zarea, a capo dell’ufficio egiziano dell’Istituto per gli studi dei Diritti Umani del Cairo, ha dichiarato che il caso porterebbe “le impronte digitali dell’apparato di sicurezza egiziano” e potrebbe servire a concentrare le indagini internazionali sui reiterati casi di abuso.

Se Giulio non fosse stato un cittadino europeo, il suo caso probabilmente non sarebbe stato mai raccontato. Come accade a centinaia di egiziani.

“Quelli che hanno ucciso Giulio sono gli stessi assassini che uccidono gli egiziani”

“Il 17 febbraio 2016 il Centro Nadeem per la gestione e riabilitazione delle vittime di violenze e tortura, fondato nel 1989, ha ricevuto una ordinanza amministrativa di chiusura dalle autorità del governatorato del Cairo le quali affermavano che il centro aveva violato i termini le condizioni del suo permesso, ma senza fornire ulteriori dettagli” — ha denunciato l’organizzazione Human Rights Watch.

“È irragionevole che le autorità egiziane abbiano chiuso una clinica per vittime di tortura, specialmente dal momento che gli abusi subiti dalle persone tenute in custodia dagli agenti del Ministero dell’Interno sono sempre più numerosi”, scrive Sarah Leah Whitson, direttrice della sezione mediorientale di Human Rights Watch. “Il governo egiziano dovrebbe immediatamente revocare la chiusura del Centro Nadeem. Le origini del Centro Nadeem risalgono al 1989, quando Seif al-Dawla e i suoi colleghi rimasero attoniti dinnanzi agli effetti delle torture delle forze di sicurezza avvenute in seguito allo sciopero dei lavoratori siderurgici e decisero di aprire una clinica di riabilitazione psicologica, questo è quanto riporta il sito d’informazione indipendente Mada Masr, nell'ottobre 2015”.

“Il lavoro del centro si è fatto sempre più intenso, fino a comprendere oltre le vittime di tortura anche le donne che avevano subito violenza e hanno iniziato a collaborare in proprio all'interno della clinica”.

“Le forze di sicurezza egiziane, in particolare la Sicurezza Nazionale del Ministero degli Interni, hanno torturano regolarmente le persone in stato di detenzione e nel corso dell’ultimo anno sono scomparse forzatamente decine di egiziani, a volte per dei mesi interi. L’ordine di chiudere il Centro Nadeem è arrivato subito dopo l’apparente tortura e omicidio del dottorando italiano Giulio Regeni al Cairo. Diversi media, citando testimoni e funzionari della sicurezza, hanno riferito che Regeni, scomparso il 25 gennaio, sarebbe stato arrestato dalle forze di sicurezza prima che il suo corpo bruciato e mutilato fosse scoperto il 4 febbraio”.

Se Giulio è finito dentro la macchina delle “sparizione forzate” al Cairo, chi sono i responsabili della sua morte? E chi sono i mandanti?

Giulio Regeni potrebbe essere incappato in un ordinario controllo della polizia quando è uscito dal suo appartamento. Oppure lo stavano aspettando per prelevarlo, proprio quella sera del 25 gennaio.

Nei giorni precedenti la sparizione di Giulio, un testimone ha raccontato alla stampa che degli uomini avevano fatto visita al condominio in cui viveva il ricercatore, alcuni giorni prima della sua scomparsa. “Non stavano cercando lui in particolare, ma hanno chiesto i documenti. Io non c’ero, mi hanno detto che sembravano poliziotti in borghese. Sono venuti qui due o tre giorni prima che quel ragazzo sparisse”.

Non c’è ancora alcun legame accertato tra il sistema delle sparizioni forzate e la morte di Giulio Regeni. Ma c’è un’indagine avviata dalla procura di Roma per stabilirlo e per scoprire la verità sul caso. Un fatto è certo, il ricercatore italiano è sparito in una zona centrale del Cairo alla fine di una giornata in cui le misure di sorveglianza erano al massimo. C’è un altro dettaglio che non è affatto trascurabile. Giulio aveva detto di avere paura.

Giulio Regeni era stato fotografato da uno sconosciuto l’11 dicembre 2015, durante un’assemblea di un sindacato indipendente egiziano — una riunione a cui non era così facile accedere per uno straniero — e questo fatto della fotografia lo aveva impaurito. Lo hanno riferito tre ricercatori universitari, colleghi di Giulio, al procuratore di Roma Sergio Colaiocco che ha il compito di svolgere le indagini sulla morte del giovane ricercatore.

Dopo le vacanze natalizie in Italia, al ritorno in Egitto le paure erano passate. Lui e i suoi amici erano concentrati sul 25 gennaio, l’anniversario della rivoluzione a piazza Tahrir, dopo il quale speravano che la situazione al Cairo diventasse meno tesa.

A “Città 6 ottobre” dove è stato ritrovato il corpo di Giulio, tra complessi industriali, sede dei media, golf club e ville con le palme, c’è anche uno dei principali uffici della Amn el Dawla, una sezione dei servizi segreti egiziani della Sicurezza di Stato. Non molto distante si trova anche il “Kilo 10.5”, uno dei principali campi di detenzione della Sicurezza Centrale dove vengono portati i prigionieri politici.

Secondo Ahmed Nagi, il procuratore egiziano che segue il caso della scomparsa di Giulio Regeni, “la morte del giovane è stata lenta e dolorosa”. Alcuni testimoni sentiti dall’Associated Press hanno affermato che il corpo ritrovato era seminudo, con segni di accoltellamento e evidenti bruciature. Il procuratore ha parlato anche di possibili torture prolungate per giorni e del fatto che gli assassini avrebbero tentato di bruciare il cadavere prima di disfarsene.

Il procuratore Ahmed Nagi ha anche sconfessato la polizia, che fino a una mezza giornata dopo il ritrovamento del corpo aveva parlato di morte “a causa di incidente stradale”. Il generale Khaled Shabaly, capo del dipartimento di polizia di Giza, aveva detto al sito filogovernativo Youm 7 che “non c’erano segni di violenza” sul corpo di Giulio. Non diceva la verità. Lo prova l’autopsia.

Lo hanno torturato per giorni e lo hanno finito con un colpo alla testa. Il corpo di Giulio era stato abbandonato in strada all'aperto, aveva lesioni e abrasioni ovunque. La cause sono oggetto di valutazione da parte del team di medici legali coordinato dal professore Vittorio Fineschi, che ha svolto l’autopsia sul corpo di Giulio Regeni quando è rientrato in Italia. Le lesioni sarebbero compatibili con ripetute percosse, con un bastone o una mazza. Sulle parti sporgenti del volto di Regeni ci sono evidenti di contusioni. Il cadavere di Giulio è stato sottoposto a una Tac, sono state fatte diverse radiografie e un esame tossicologico per definire con precisione la data della morte. Il procuratore Sergio Colaiocco indaga per omicidio a carico di ignoti e ha avvitato le rogatorie internazionali.

Attraverso gli attivisti locali, è emersa un’altra inquietante piega del tentativo di insabbiamento da parte di settori delle autorità inquirenti egiziane. Secondo la denuncia di Mona Seif (sorella del blogger incarcerato Alaa Abd El-Fattah), l’investigatore di polizia assegnato al caso di Giulio Regeni era stato indagato per torture. Khaled Shalaby era stato condannato nel 2003 per aver falsificato rapporti di polizia e per aver torturato un uomo fino a ucciderlo, insieme ad altri due poliziotti. Una sentenza che in seguito fu sospesa.

La camera mortuaria di Zenhom, nel quartiere di Sayida Zeinab al Cairo (Reuters)

Gli amici di Giulio, subito dopo la scomparsa, avevano contattato l’avvocato egiziano Mohamed Sobhi, che ha raccontato dei giorni in cui stavano cercando Giulio fino al momento in cui lo hanno ritrovato senza vita in uno sterrato di Giza. Mohamed Sobhi ha dovuto dire agli amici e alla famiglia, dopo nove giorni di straziante attesa e di ricerche disperate, che il corpo di Giulio si trovava nella camera mortuaria di Zenhom, nel quartiere di Sayida Zeinab al Cairo. Il legale ha dovuto protestare con uno degli agenti per riuscire a entrare e identificare il corpo del giovane. Alla fine, i poliziotti gli hanno concesso di vedere solo il volto del ragazzo.

“Il 25 gennaio, Giulio si era mosso dal quartiere di Dokki per incontrare alcuni amici in centro al Cairo, ma non è mai arrivato. È scomparso, come altre centinaia di egiziani. Sono un avvocato e ho subito ricevuto telefonate da amici italiani e egiziani che chiedevano aiuto, con altri miei colleghi abbiamo subito chiesto notizie di Giulio a diverse stazioni di polizia. Ma è stato del tutto invano”.

“Se Giulio fosse stato rapito da dei criminali, sarebbe seguita una richiesta di riscatto. Se fosse stato rapito da terroristi, sarebbe seguita una rivendicazione. Ma la vera domanda da porsi è questa: chi può aver rapito un cittadino straniero a El Dokki, il 25 gennaio, mentre migliaia di soldati e poliziotti erano dislocati per le strade?”.

“A tutti i miei amici italiani dico che questo è ciò che affrontiamo ogni giorno in Egitto, e che purtroppo abbiamo migliaia di ‘Giulio egiziani’. Per favore, insistete nella ricerca della verità e delle responsabilità dei colpevoli, per darci la speranza che un giorno, insieme, potremo restituire i diritti a tutti i Giulio”.

I funerali di Giulio Regeni a Fiumicello, 12 febbraio 2016, Italia (Ansa)

I funerali di Giulio Regeni si sono svolti a Fiumicello il 12 febbraio 2016, in una fredda giornata di pioggia. C’erano circa tremila persone nella palestra del piccolo paese per ricordare il giovane ricercatore che studiava i diritti dei lavoratori. Un amico, durante la funzione, ha letto dall’altare una lettera scritta dalla madre di Giulio, Paola Defendi: “Grazie Giulio per avermi insegnato tante cose. Nel mio cuore resterà il tuo pensiero libero e fluente” ha scritto la madre di Giulio nel messaggio. Resta nel mio cuore l’energia del tuo pensiero. Il tuo pensiero, per amare, comprendere, costruire tolleranza. Con affetto, la mamma”.

Ha parlato anche padre Mahoud, durante i funerali, il religioso copto che al Cairo ha benedetto la salma del ricercatore. Lo ha definito un “uomo cosmico” che è diventato “un capro espiatorio”.

Appendete striscioni, condividete le foto, per mio fratello, per Giulio Regeni, per il mondo intero. Lo ha scritto online Irene Regeni, la sorella di Giulio, pubblicando la foto dello striscione appeso sul terrazzo di casa: “Verità per Giulio Regeni”.

(Questa storia è stata scritta da Martino Galliolo con la collaborazione di cristina giudici il team di reporter della pubblicazione “Verità per Giulio”: Luca Magrone, Carolina Orlandi, Matra Wu Perroni, Remo Gilli — della Reporting SH)

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