Weareable technologies e la metamorfosi del postumano

Nell’era dell’implemento biologico-macchinico, le innovazioni hi-tech che contribuiscono a migliorare la vita e la società si devono scontrare con studi che affrontano più attentamente il futuro dell’uomo. Alcuni dei contributi più importanti arrivano dalle filosofe femministe.

Fitness tracker, smartwatch, braccialetti tech, fino ad arrivare al fashion: secondo Forbes nel 2017 il mercato dei wearable valeva circa 12 miliardi di euro. Si tratta di tecnologie indossabili e connesse alla rete che operano soprattutto nell’ambito della salute e del benessere e che si promettono di rivoluzionare le nostre vite, migliorando le prestazioni fisiche dell’uomo in varie situazioni, dallo sport al lavoro.
Il primo dispositivo wearable nacque negli anni ’60 del secolo scorso, dal genio matematico Claude Shannon e un professore del MIT, per assicurarsi vincite più alte nel gioco d’azzardo. Funzionava così bene che il Nevada lo mise fuori legge nel 1985.

Proprio negli stessi anni, nell’ambito di alcune ricerche biomediche, i due ricercatori Clynes e Kline coniarono il termine cyborg dall’unione dei termini cybernetic e organism. Traducibile in italiano con organismo cibernetico, indica il miscuglio di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi e altri impianti. I due scienziati stavano ideando un essere umano potenziato per sopravvivere in ambienti extraterrestri inospitali. Da quel momento si fece strada un sempre più diffuso interesse sul cyborg, che trovò posto nei romanzi, nei racconti e nei film di fantascienza, rivoluzionando il genere. Il cyborg appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione.
Nello stesso periodo, l’interesse arriva fino alle accademie e, nell’ambito delle teorie del postumano, nasce il dibattito filosofico sul cyborg: l’assunto di partenza è che il soggetto non è mai “uno”, ma sempre multiplo. Questa considerazione, nata con i poststrutturalisti francesi e soprattutto con Michel Foucault, è stata poi utilizzata da alcune filosofe femministe come punto di partenza per indagare la condizione e la metamorfosi del soggetto nell’era contemporanea, e quindi anche nel suo rapporto con la macchina. La strada individuata dai filosofi, in un clima di cambiamenti per l’uomo come quello del secondo Novecento, era quella di un superamento dell’antropocentrismo.

Siamo tutti già dei tecno-corpi. Per indagare le origini di questa dichiarazione, basta pensare ad esempio all’utilizzo di pacemaker o della chirurgia estetica: non viene in mente nessun modo migliore per pensare ad una correzione del corpo. Lo spiega bene Yuval Noah Harari in Homo Deus. Breve Storia del Futuro, dove ricorda che la chirurgia estetica e molti altri tipi di protesi erano nati con lo scopo di restituire il proprio corpo alle vittime di guerra, per poi trasformarsi in una ricerca della bellezza e del miglioramento corporeo slegati dalla presenza di traumi. Se passiamo poi alle mani bioniche e alle nanotecnologie, il passo è ben comprensibile. Nel 2018 Arnav Kapur, uno studente laureato al MIT Media Lab, creò un prototipo wearable chiamato AlterEgo, una specie di lungo auricolare da applicare su un lato del viso che permette di cambiare i canali della TV, il colore delle lampadine, ordinare una pizza ma anche risolvere complicati problemi aritmetici senza dire o fare nulla. Lui stesso, riferendosi all’oggetto che ha creato per un progetto di ricerca, afferma: “Mi sento come un cyborg, ma nel miglior senso possibile”.

AlterEgo

AlterEgo non legge ancora nel pensiero, ma funziona captando piccoli segnali elettrici prodotti da piccoli movimenti dei nostri muscoli facciali mentre leggiamo o parliamo con noi stessi. Gli elettrodi catturano questi segnali e li inviano via bluetooth ad un computer, dove vengono trasformati in algoritmi funzionando come input ad “Accendi la luce”, per esempio. Si pensa che per il futuro, dopo adeguati miglioramenti, questo device potrà rendersi particolarmente utile a persone con disfunzioni comunicative per entrare meglio in contatto con il mondo.

Un altro esperimento positivo riguarda una prigione a Leyland, nel Lancashire, dove molte volte succedeva che durante la notte i detenuti si sentissero male nelle loro celle e perdessero i sensi senza essere sentiti da nessuno perchè lontani dal controllo delle guardie carcerarie. Spinto da questi pericolosi episodi, il personale del carcere decise insieme ad un’assistente sociale di installare Vibby, un sistema di Telecare che attraverso dei bracciali fornisce assistenza a distanza: indossato da un detenuto, può avvertire svenimenti e infarti e comunicarlo subito ad un call centre. I prototipi e i dispositivi tecnologici indossabili attualmente in uso che forniscono assistenza sociale e in alcuni casi un ampliamento della sicurezza di persone instabili sono numerosi.

Vibby, di Tunstall, è in grado di percepire le cadute dell’utente e di avvisare i soccorsi

Esiste anche un’altra realtà, però, in cui si discute di luci LED colorate e magneti applicati sotto la cute, che non sempre mira ad una terapia. La differenza è tra innovatori tecnologici, che ideano oggetti che possono migliorare drasticamente la condizione umana, e ambizioni transumane: il rischio che si corre è che l’eccitazione data dall’aprire le porte grazie ad un chip sottopelle porti presto a preferire un corpo completamente bionico al posto di quello umano. Mark O’Connell nel suo ultimo libro To Be a Machine descrive il comportamento transumano come “un’espressione della profonda brama di trascendere la confusione e il desiderio di impotenza dell’uomo, di nascondere il naturale decadimento del corpo”.

“Questa brama appartiene storicamente al dominio della religione, mentre ora è sempre di più il terreno fertile della tecnologia”.

A questa descrizione si avvicina molto il lavoro del professor Kevin Warwick della Reading University, un altro uomo che si autodefinisce un cyborg e che si presta ad esperimenti di questo tipo. Egli ha aperto la strada ad un impianto costituito da centinaia di elettrodi in contatto con il suo sistema nervoso che trasferiscono segnali attraverso internet, con lo scopo primario di controllare i movimenti di una mano bionica. Tra gli individui che necessiterebbero realmente di un oggetto di questo tipo, chi ad esempio ha perso un arto o non lo può controllare, sono in molti a dichiarare che tra i modelli più all’avanguardia e tecnologici e quelli basici preferiscono un nuovo arto più “umile”, perchè le braccia robotiche per quanto interessanti risultano ancora troppo pesanti e scomode per essere usate in modo continuativo.
Uno dei lati negativi più evidenti di questo tipo di tecnologie è che, se non usate in situazioni realmente problematiche, contribuiscono a produrre inutilmente una mole impressionante di dati dai quali è possibile scoprire molti aspetti della vita delle persone. Anche quelli che si vorrebbe restassero privati. Come ipotizzato da Focus, “una compagnia assicurativa potrebbe per esempio decidere di acquistare l’azienda che produce un bracciale per il fitness e utilizzare i dati registrati per classificare il nostro movimento, quanto siamo a rischio e calcolare di conseguenza il premio per la nostra polizza.” Gli esempi potrebbero continuare, se pensiamo che la maggior parte dei wearable è localizzabile tramite gps.

Professor Kevin Warwick.
Photograph: David Vintiner

In questo spazio borderline, nel quale tecnologia e biologia si fondono, non solo la privacy viene meno, ma non ha più senso parlare di corpi denaturalizzati: il “corpo” non c’è più. Non è più la corporeità carnale a dover essere requisito fondamentale dell’essere uomo. Donna Haraway è una filosofa femminista californiana che nel suo Manifesto cyborg si chiede cosa conta allora per essere umano in questo mondo postumano. È interessante notare come siano sempre state proprio delle filosofe femministe ad essersi occupate del cyborg in filosofia: hanno individuato una somiglianza tra la condizione della donna e quella degli ibridi uomo/macchina. Secondo la Haraway la struttura delle società occidentali è fondata su una mentalità segnata da una serie di dualismi: sé/altro, naturale/artificiale, maschio/femmina, e così via. Questo dualismo concettuale non è simmetrico, perchè queste coppie sono costituite da un elemento dominatore ed uno dominato e proprio per questo va superato . Il modello più interessante per la possibilità di un superamento e di nuovo rapporto tra le coppie è dato, per la Haraway, proprio dal cyborg, in quanto ibrido uomo/macchina che rompe il dominio di un’identità pura e forte, a scapito di una molteplicità creativa. Tutto ciò che è cibernetico viene quindi utilizzato come una vera e propria metafora che si scontra con il rigetto della diversità e con la supremazia. La soluzione etica fornita dalla Haraway e da altre filosofe femministe rende conto di una soggettività molteplice e aperta, piuttosto che “unica” e chiusa in se stessa.

Copertina italiana di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo

Quella di Rosi Braidotti, docente di studi di genere nel dipartimento di filosofia dell’università di Utrecht, è una teoria critica — ed etica — perfettamente funzionante: descrivendo la positività del postumano, non dimentica di sottolinearne gli aspetti disumani, fornendo numerosi spunti interessanti. La filosofa italiana pensa alla tecnologia anche come ad un pericolo ma non in termini moralizzanti e tecnofobi, bensì come eccesso dei suoi stessi meriti: la tecnologia è una forza liberatrice, che contribuisce ad avvalorare il soggetto in quanto forza plurale e la sua capacità di esprimersi come preferisce. Ogni soggetto deve avere il diritto di autoesprimersi e autodefinirsi, senza per forza essere racchiuso in categorie distinte: nessun dualismo renderà mai giustizia alle pluralità del mondo.

Haraway auspica un sistema di parentela ridisegnato e radicalizzato da legami realmente affettivi con gli altri non umani. E sostiene che le divisioni binarie soggetto/oggetto, natura/cultura sono collegate alle narrazioni patriarcali, edipiche familiari. Per contrastarle, mette in campo un senso più allargato di comunità, basato sull’empatia, la responsabilità, il riconoscimento.

Il punto sta allora nel rendere la tecnologia accessibile, plurale e creativa, e soprattutto controllata. Rigettando la tecnofobia, la ricerca non deve andare incontro a una morale di tipo kantiano: se il cyborg è tra di noi, allora ci serve un’etica del postumano sempre aperta a nuove possibilità. Dove va fissato però il limite? Cosa va inteso il miglioramento della specie umana e dov’è il limite tra terapia e miglioramento? Se il traguardo a cui puntano molti ricercatori e imprenditori che lavorano ogni giorno al superamento dell’essere umano è di arrivare, un giorno, a sconfiggere la morte, ci auguriamo che la consapevolezza sia tale da rendersi conto che una vita vissuta all’infinito potrebbe avere molto meno senso rispetto ad una vita umana. Se l’uomo è destinato a convivere con il suo aspetto tecnologico, dobbiamo fare in modo che questa convivenza sia pacifica e collaborativa: speriamo almeno che questa espansione dei nostri sensi, dei nostri limiti e delle nostre capacità — con sfide sempre nuove da affrontare — ci faccia diventare ancora più umani.

Editor: Diletta Huyskes, Dottoressa in Filosofia, specializzata in Etica dell’Intelligenza Artificiale

Fonti:

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Diletta Huyskes
VISIONARI | Scienza e tecnologia al servizio delle persone

Empirista radicale e idealista pragmatica, studio il rapporto tra tecnologia e società, le discriminazioni algoritmiche, il femminismo tecnologico.