Sui principi base di UX — An Habeetat School Story (Vol. 1)

Cosa vuole l’utente e di cosa ha bisogno (designer POV)

Anna Grazia Longobardi
weBeetle
14 min readFeb 20, 2024

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Sono Anna Grazia e ho 32 anni. Sono della provincia di Salerno e per ricaricarmi devo ascoltare la sigla di “Dragon Ball GT” di Giorgio Vanni. Leggo fumetti, disegno, guardo serie TV e film, vado ai concerti, gioco con la Nintendo Switch. Non esattamente in questo ordine. Sono UI Designer in weBeetle da 6 anni.

So che hai scrollato su (o giù, se hai la mode invertita) per rileggere il titolo. La mia presentazione ti ha stranito, perchè in tutti gli articoli tecnici e nozionistici che hai letto fino ad ora nessunə si è mai presentatə.

Penso che quando ci prendiamo del tempo per leggere un articolo, ci aspettiamo una storia. E questo succede anche quando leggiamo o vediamo i tutorial.

Perché salto, a step di minuti, i tutorial?

Perché mi annoiano. Perché non c’è una storia e quindi ho solo la fretta di imparare quello che mi serve. Che poi è la stessa fretta che me li fa dimenticare.

Invece una storia non la dimentico. Nemmeno la persona che la narra.

Ho cominciato a rifletterci su quando Giovanni Gibiino ha portato in weBeetle la sua “Meccanica della mente”: ha toccato temi come analisi comportamentali, reazioni biologiche, psicologia cognitiva e intelligenza emotiva con semplicità e chiarezza. Insomma, più come storyteller che come formatore/consulente.

E le storie rimangono. I tutorial li dimentico.

Per questo, voglio raccontare una lezione, ripetuta, modificata, migliorata, evoluta. Voglio raccontare una “Habeetat School Story”.

Siamo alla terza edizione della Habeetat School di weBeetle. I ragazzi e ragazze che si iscrivono sono molto diversə ogni anno e ogni anno anche il roster docenti varia leggermente. Sentiamo la chiamata alle “arti” e io e Davide Albanese prepariamo un modulo di UI e UX Design all’interno della scuola per aspiranti sviluppatori e sviluppatrici (lo rileggo e mi fa tanto “Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts”). Che poi anche i docenti sono aspiranti tali, nel senso che chi insegna è prima un professionista o una professionista che pratica quel mestiere ogni giorno, ma di fatto non insegna quel mestiere. Una bella challenge. Ovviamente accepted.

Ovviamente la sfida è stata prendere quello che faccio e spiegarlo.

E strutturarlo.

E renderlo didattico ma non noioso, appunto.

E poi SPIEGARLO.

Quante volte ti hanno chiesto “che lavoro fai?” e ti sei sentitə storditə?

E avresti voluto rispondere:

La domanda è mal posta, forse te volevi chiedere: “Maestro, che ore sono?”

— Quelo (Corrado Guzzanti)

E invece ti sei sentitə come un Metapod atterrato da uno Stordiraggio.

Il punto è proprio la domanda, caro Quelo.

Nessuno domanda mai “che figura professionale ricopri?” (già dirlo è una fatica).

Peccato, perchè richiederebbe una piccola risposta con una stringa di massimo 15 caratteri, ma no, la domanda è sempre “che lavoro fai?”.

E si trascina il peso della responsabilità non solo di identificare la tua figura professionale ma soprattutto di scendere nelle profondità degli abissi del percorso formativo, delle competenze, nelle mansioni, negli strumenti, nelle scelte professionali, nella tua routine lavorativa.

Che fatica.

Immagina questo trasportato davanti a 10/12 ragazzi e ragazze che hanno sparato la Portal Gun verso il pianeta di “chi voglio essere da grande?”.

Quindi che si fa?

Certezza di ansia.

Scarse possibilità di idratarsi durante la lezione.

Cosa stiamo aspettando?

Quindi con certezza di ansia e scarse possibilità di idratarsi, io e Davide Albanese quindi decidiamo di iniziare questo “viaggio inaspettato”.

Prima di parlare di UX Designer, è necessario fare delle premesse:

Chi è il designer?

Tante volte mi hanno detto (ci hanno detto, Davide Albanese) “ah bello, sei un designer, quindi sei un artista!”, ma la cruda verità è che siamo progettisti.

Quando abbiamo iniziato ad avvicinarci al design credevamo, come tutti probabilmente, che si trattasse di prassi, regole, modi di fare e meccaniche, quando poi crescendo e imparando abbiamo capito che non ci sono regole, ci sono mediazioni. E questa è probabilmente l’unica regola “del Fight Club”.
La prima precisazione quindi:

Design non vuol dire disegnare ma progettare.

Mentre un o una artista dà vita più o meno liberamente alle sue sensazioni, alle sue emozioni e si rivolge a persone “a modo suo”, che le sue opere piacciano o no, il designer si insinua tra un problema e una possibile soluzione e cerca una mediazione. Considera l’estetica solo in un secondo momento: per lui sono fondamentali la funzionalità dell’oggetto o servizio, la sua coerenza e il miglioramento (impatto) collettivo che può generare.

Ti domanderai:

Ma quindi, se non disegnate e avete dei vincoli, cosa fate?

Progetta soluzioni.

Pensiamo ad una “banalità” come può essere una sedia. Sei qui a leggere, per minuti, ore. In piedi risulta un po’ “scomodo”. Come risolverlo? Ecco come nasce probabilmente la sedia: nel momento in cui delle persone sono in un posto/posizione/contesto per più o meno tempo, la sua funzione è quella di non farle stancare troppo e quindi farle riposare. Questo è il suo compito e questo è l’obiettivo dei designer… Se poi si riesce a creare una sedia che è anche “bella” tanto meglio!

Quindi tutto il flusso di interazione tra una persona e un oggetto o servizio viene risolto progettando una user experience, ovvero esperienza utente, che soddisfi il goal della persona e di conseguenza dia la possibilità di superare un problema o una frizione.

In questo schema, più o meno chiaro (forse meno), si può avere un’idea di quanto vasta può essere l’area della UX: racchiude tante sfaccettature del design e, non solo, che conosciamo ma non ne abbiamo percezione perchè quello che “vediamo”, con cui ci “interfacciamo” è probabilmente l’ultimo stadio dell’intera esperienza che stiamo vivendo.

Immaginiamolo come un iceberg: la parte visibile è la punta, quindi i tasti che premiamo, le foto che scorriamo con dei gesti sullo schermo, ma sotto, per ogni azione, sono direttamente o indirettamente coinvolti tanti altri aspetti. Ad esempio, il marketing che spinge una persona, il nostro utente ad utilizzare, acquistare, entrare in contatto con un oggetto.

Possiamo quindi dire che la UX è frutto di una mediazione. Più sinteticamente potremmo definire la UX come il risultato, l’insieme, di più fattori che si relazionano gli uni con gli altri.

Tra questi, ovviamente, il design come potevamo immaginare. La tecnologia intesa come limite tecnologico per progettare ma anche come potenziale. E ovviamente non dimentichiamo il business: dato un budget, bisogna riuscire a creare un progetto che rientri senza andare oltre.

Spesso c’è confusione quando si parla di UX (User Experience) e UI (User Interface.

UX e UI si occupano di due momenti diversi della progettazione di un’esperienza e a un certo punto si incontrano, ma sono percorsi che non viaggiano necessariamente insieme.

La User Experience, o UX, si occupa dell’architettura dell’interazione: è quasi invisibile, come per l’uomo l’apparato scheletrico o muscolare.

La User Interface, o UI, si occupa dell’aspetto formale dell’interazione: è esposto e visibile, come la pelle o i capelli (lunghi, corti, ricci, lisci, biondi, castani, ecc).

La UX è responsabile di progettare e migliorare l’esperienza complessiva degli utenti con un prodotto o un servizio. Si occupa della ricerca utenti e della progettazione dell’informazione, le interazioni tra loro e il flusso di navigazione, passando per l’analisi dell’utente fino a creare, magari insieme allo UI Designer, i wireframe che sono dei veri e propri disegni, primi prototipi del prodotto o servizio.

Dopodiché la UI passa a definire il layout, i colori, la tipografia da utilizzare, le immagini più appropriate, quindi tutti gli elementi che compongono la parte visiva ed estetica.

Questo è un esempio dei livelli di prototipazione: si può partire dai wireframe o dagli sketch, passando al low fidelity (diciamo un wireframe più avanzato ma anche senza la parte “visual”), fino ad arrivare all’high fidelity.

In sintesi:

Fatte le dovute differenze.

Cos’è la UX?

“La UX è l’insieme di percezioni e reazioni di un utente che derivano dall’uso o dall’aspettativa d’uso di un prodotto, sistema o servizio.

Le stesse includono le emozioni, le aspettative, le preferenze, la comodità, i comportamenti e i risultati che si verificano prima, durante e dopo l’uso.”

— ”Ergonomics of human-system interaction” (Part 210: Human-centred design for interactive systems)

Tiene in considerazione quindi le emozioni dell’utente, le sue aspettative, le preferenze, la sensazione di comfort, i comportamenti e i risultati di tutta l’esperienza.

Don A. Norman ❤

Il primo ad utilizzare il termine User Experience è stato Donald A. Norman.

Avere esperienze appaganti genera soddisfazione… E lui si diverte sullo scivolo di Epic Games! 80 anni (88 oggi) e non sentirli!

Il modo di progettare, nel tempo, è cambiato parallelamente alle esigenze degli/delle utenti.

L’essere umano ha iniziato a progettare macchine che potessero soddisfare i propri bisogni e che quindi fossero ergonomiche.

Ergonomia, letteralmente “modo di amministrare il lavoro”, è la disciplina che si occupa, in ambito scientifico, psicologico, sociale e medico dei problemi relativi all’interazione uomo-macchina-ambiente.

Si è parlato per la prima volta di ergonomia, concetto genitore del più moderno human-centered design, grazie a Hywel Murrell, psicologo della marina militare britannica che nel 1949 studiò l’interazione delle persone con l’ambiente di lavoro. Murrell venne a mancare nel 1984, esattamente nel periodo in cui si cominciò a parlare di Human Centered Design (HCD) quando Mike Cooley, ingegnere irlandese, ribaltò il rapporto uomo-macchina ponendo l’uomo prima della macchina.

La macchina diventa così elemento di supporto che favorisce le capacità dello stesso.

Nel “The design of everyday things” (1988), Norman trova la soluzione all’enigma dell’usabilità nello Human-Centered Design (HCD), ovvero nel sistema secondo cui al centro di una corretta progettazione di un prodotto, servizio o sistema, ci sono i bisogni dell’utente.

Vero è che non ci sono “regole” fisse, ma ci sono punti di vista (POV) che hanno contribuito a delineare dei punti chiave per la progettazione dell’interazione uomo-macchina. Norman infatti ha individuato 6 principi secondo i quali la progettazione può definirsi usercentrica:

  • Affòrdans: letteralmente significa “invito” e rappresenta la relazione che c’è tra l’uso che suggerisce l’oggetto e l’agente che ne comprende quindi un possibile uso. (Es. Una sedia suggerisce di potersi sedere e per un adulto è anche possibile sollevarla per spostarla: queste sono 2 affordance; per un bambino piccolo, una sedia suggerisce solo l’atto di sedersi e non di spostarla: ciò determina una solo affordance);
  • Significante: Per spiegare questo principio utilizzo una citazione diretta di Norman “Le affordance determinano quali azioni sono possibili, i significanti comunicano dove l’azione va eseguita. (…) per me il termine indica ogni segnale visivo o sonoro, ogni indicatore percepibile che comunichi qual è il comportamento appropriato”¹;
  • Mapping: questo principio prende in prestito un concetto matematico della relazione tra elementi di due insiemi ovvero, nel nostro caso, il mapping naturale che c’è tra un comando e l’azione che ne segue (ad esempio nelle stanze possiamo trovare più interruttori che corrispondono rispettivamente a più luci e un buon mapping potrebbe essere quello di disporre in maniera analoga interruttori e luci);
  • Feedback: è il principio che comunica i risultati di un’azione e lo fa in maniera immediata che sia visiva, uditiva o altro. Il feedback però non deve essere scarso nè invasivo, o almeno in caso di più feedback essi devono avere una scala di priorità, una gerarchia per cui vengono evidenziati quelli più importanti.

Se l’affordance è un insieme di “segnali” o inviti che quell’oggetto o quella macchina ci manda circa le possibilità del suo utilizzo, al contrario, vi sono esistono i vincoli, ovvero tutte quei segnali che comunicano i limiti del suo utilizzo:

  • Vincoli fisici: sono limiti fisici propri dell’oggetto o dell’esperienza che suggeriscono un numero circoscritto di azioni. Se utilizzato propriamente, questo tipo di vincolo rende l’esperienza intuitiva e guidata;
  • Vincoli culturali: sono limiti sociali relativi al contesto culturale in cui ci si trova e che possono cambiare nel tempo. Non esiste una convenzione su come trattare questo tipo di vincolo, ma dagli studi di Norman emerge che esistono dei frame cognitivi, strutture di regole che governano il nostro comportamento in situazioni o culture nuove;
  • Vincoli semantici: sono limiti del significato di ciò di cui si fa esperienza. E in quanto semantici, si basano sulla conoscenza del mondo. Come i vincoli culturali, i vincoli semantici cambiano col tempo e anche molto più rapidamente. Basta pensare alle tecnologie, al design o all’arte che danno un nuovo significato alle cose e al contesto in base al momento in cui viviamo;
  • Vincoli logici: sono limiti che derivano da una deduzione naturale dell’esperienza, magari dopo aver ricevuto già suggerimenti da quelli fisici, culturali e semantici. Ad esempio: quando si costruisce un puzzle e rimane l’ultima casella da riempire per completare l’immagine, per logica poniamo l’ultimo pezzo rimasto nell’ultima casella vuota.

Sempre seguendo il mantra del “dipende” secondo cui non ci sono regole matematiche ma analisi e studi, i fondamenti di UX si possono sintetizzare in una serie di attributi che messi insieme rendono solida l’esperienza utente come i Megazord:

Gif assolutamente non necessaria.
  • Utile: se un prodotto o un servizio non è utile per qualcuno, perché vorresti portarlo sul mercato? Se ha uno scopo, è utile;
  • Usabile: giocheresti un gioco con un pad che ha 3 set di controlli? È improbabile che sia usabile poiché le persone, almeno per ora, tendono ad avere solo 2 mani;
  • Individuabile: se leggessi un giornale online che ha gli articoli disposti casualmente anziché organizzati in sezioni come Sport, Intrattenimento, Tecnologia, ecc. Non è frustrante? l contenuti devono essere facilmente individuabili;
  • Credibile: la credibilità è legata alla capacità dell’utente di fidarsi del prodotto che hai fornito;
  • Desiderabile: la desiderabilità si esprime nel design attraverso il branding, l’immagine, l’identità, l’estetica e il design emotivo. Più un prodotto è desiderabile, più è probabile che l’utente che lo possiede ne parli bene e crei desiderio in altri utenti;
  • Accessibile: l’accessibilità riguarda la fornitura di un’esperienza che può essere utilizzata da utenti con una vasta gamma di abilità, inclusi coloro che sono disabili in qualche modo, come perdita uditiva, visione compromessa, limitazioni motorie o difficoltà di apprendimento;
  • Valorizzante: meglio un prodotto da €100 che risolve un problema da €10.000, o viceversa? Il prodotto deve fornire valore. Deve fornire valore all’azienda che lo crea e all’utente che lo acquista o lo utilizza.

Ma quindi:

Prima di arrivare alla progettazione dell’interazione, è necessario passare attraverso degli step preliminari di ricerca e quindi appunto la User Research:

  1. I Research Reports sono dati registrati preparati da ricercatori o statistici dopo aver analizzato le informazioni raccolte conducendo ricerche organizzate, tipicamente sotto forma di sondaggi o metodi qualitativi;
  2. Le Personas sono dei personaggi immaginari creati sulla base di una ricerca condotta su utenti reali allo scopo di identificare gli utenti-tipo di un prodotto/servizio;
  3. La Customer Journey Map indica il percorso e tutti i punti di contatto tra un consumatore e un marchio, un prodotto o un servizio e include, oltre ai momenti di interazione diretta tra cliente e azienda, anche i contatti indiretti, come le opinioni di terzi (social, blog, recensioni);
  4. La Mental Model Diagram o mappa mentale è una rappresentazione del processo del pensiero di un utente. Una mappa del modello mentale identifica le convinzioni, i comportamenti e le emozioni mentre l’utente sta completando un’attività;
  5. Gli Storyboards sono rappresentazioni visive dei vari scenari possibili e sono utili per migliorare la progettazione.

Le personas sono rappresentazioni semi-fittizie e dettagliate dei diversi tipi di utenti che potrebbero interagire con un prodotto o un servizio. Questi profili sono utilizzati nel campo della User Experience (UX) per aiutare i progettisti a comprendere meglio le esigenze, le motivazioni e le aspettative degli utenti durante il processo di progettazione.

Ma il concetto di personas o di “utente medio” è un tema recentemente messo in discussione. Perchè progettare per l’essere umano significa progettare per una moltitudine di voci socialmente e culturalmente diverse. Significa renderla accessibile e inclusiva a tutte quelle voci.

Per questo si parla di Inclusive Design.

Per spiegarlo, cedo la voce a Francesca Postiglione che ha scritto un articolo fighissimo su “Design for All”.

Vorrei concludere ma non riesco.

C’è talmente tanto da dire che mi sembra veramente poco quello che hai letto fino ad ora. Ma non voglio renderti questa esperienza di lettura noiosa.

C’è sicuramente qualcosa di meglio su Netflix.

La verità è che devo finire “Stick it to the man” sulla Switch.

Quindiaccellerovelocementedicendoche:

Se è stata una bella esperienza, ti dico che c’è una seconda parte sulla UI (link in coda).

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