Abbiamo mulinobianchizzato la maggiore industria creativa mondiale (ergo: il punto più basso dei commercial del Super Bowl LIII)

Nereo Sciutto
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7 min readFeb 7, 2019

Non me ne voglia la Barilla, ma nel mondo della pubblicità lo stereotipo della famiglia felice del Mulino Bianco è un’icona raccontata nei libri di testo e l’ho presa in prestito per un tema importante: la cartina al tornasole dell’industria pubblicitaria mondiale — i commercial che vanno in onda durante il Super Bowl — ha segnato un colore inaspettato. Le peggiori e più deboli, buoniste e poco-ricordabili creatività da molti anni a questa parte.

A dirla tutta, si è trattato anche della più bassa raccolta pubblicitaria dal 2010 che ha costretto la CBS a riempire gli spazi vuoti con spot del suo network (ergo non pagati) per un ammontare in minuti (quasi 10!) che è risultato il secondo più alto della storia del Super Bowl. Anche questo è un elemento da mettere nell’equazione. La “fuga” degli spender segue le controversie legate alla protesta dei giocatori di colore che ha visto l’NFL schierarsi con la linea presidenziale (con tutti gli annessi e i connessi) e quindi una serie di investitori decidere di rimanere fuori da questa manifestazione.

Una premessa: seguo il Super Bowl e il campionato NFL da tanti anni. Con la fortuna di avere tanti amici con la stessa passione, da anni guardiamo l’evento bypassando i canali tv italiani che lo redistribuiscono. Questo ci evita le noiose telecronache de noartri e soprattutto la sostituzione degli spot. Guardando direttamente lo streaming della CBS abbiamo vissuto l’evento, dalla telecronaca ai break pubblicitari. Questo è fondamentale anche per poter vivere in real time il battage social che li segue e che anima l’evento come uno streaming parallelo.

Un esempio del potere del “secondo schermo” è stato l’instant advertising di Oreo durante il lungo blackout che ha colpito lo stadio di New Orleans nel Super Bowl del 2013. Probabilmente uno dei contenuti pubblicitari più condivisi e discussi quell’anno, nato al di fuori dei canali televisivi e senza un budget advertising a spingerlo. Fra leggerlo raccontato dalla stampa il giorno dopo e vederselo in time line in diretta ci passa un mondo di differenza. Anche di interazione con gli altri fan, tutti di fronte a un televisore improvvisamente buio.

Per dovere di cronaca, va detto che la combinazione che è andata in scena domenica notte è stata terribile: pessima partita (ok, grande lavoro delle difese ma spettacolo ai minimi), debole half time show (il tradizionale concertone dell’intervallo) e — maledizione — spot altrettanto noiosi.

Da anni le pubblicità del Super Bowl vengono preparate con un mix di teaser, comunicati stampa roboanti, sneak peek, esegesi preventiva e così via. Un esempio? Adriana Lima per Victoria Secret già nel 2008 con lo spot di Warm Up (copy molto azzeccato) andato in onda nei giorni precedenti, che si conclude con un “See you on Sunday”. Sorry per la qualità del video ma credo si capisca ;-) Da quell’anno in poi, molti spot impattanti sono stati annunciati e il terreno preparato.

Creare un clima di attesa è utile perché molto spesso il commercial che va in onda durante il Super Bowl è in qualche modo unico: non verrà riproposto in TV ma continuerà una sua vita parallela su Youtube o sui canali digitali in generale. Di questa tendenza avevo scritto talmente tanto tempo fa che per l’occasione segnalai Myspace (!) come repository dove venivano salvati — e successivamente votati — gli spot.

Quest’anno, da quello che si era letto prima, mi ero decisamente preoccupato dell’emulazione della strategia acchiappa-millennial di Nike. Le marche concentrate a produrre branded content for good, avvicinandosi a un nuovo pubblico di consumatori interessati apparentemente solo ai valori, alle modalità produttive, al rispetto del pianeta o, più in generale, alla capacità di fare scelte contro-corrente. Aziende che sembrassero meno connesse con il profitto (anche se alla fine si finisce per forza di cose lì). Come Nike che tiene a libro paga uno sportivo “divisivo” come Kaepernick che da quasi 3 anni non ha una squadra e nei fatti non gioca.

Va detto che la schiera di emulatori può arrivare a generare mostri. Quoto una frase letta in giro che riassume questo discorso molto bene: “alla fine di tutto, le aziende esistono per vendere prodotti, non per iniziare movimenti politici”. Amen.

Diverse aziende hanno deciso di provarci. Addirittura con un costosissimo branded content a tema sociale. A volte un po’ forzato.

Il primo caso è di Verizon che dedica più di uno spazio (che continua a costare 5,25 milioni ogni 30 secondi) per ringraziare i first responder cioè chi fornisce il primo supporto in caso di emergenza (come un grave incidente). Lo spot racconta di un’intera squadra — compreso il coach — che non ci sarebbe stata se i soccorritori fossero arrivati tardi. La firma di Verizon al termine del video, sottintende che è stato possibile ricevere la chiamata di soccorso grazie a una rete telefonica affidabile. Ma tutto lo spot è incentrato sull’intervista ai “sopravvissuti” e a ringraziare commossi — in perfetto stile US — i professionisti del soccorso e ai numerosi membri delle forze dell’ordine coinvolti. Un pelo buonista …e stiamo lentamente andando oltre. Sempre di una telco si tratta eh ;-)

Un punto controverso l’ha toccato Stella Artois. Lo spot lo troverete fra i più apprezzati grazie al fatto di aver riesumato Sarah Jessica Parker nei panni dell’inossidabile Carrie Bradshaw e Jeff Bridges nell’ancora più iconico e altrettanto (in)ossidato Drugo del Grande Lebowski.

Entrambi cambiano drink per una buona causa. Perché Stella Artois ha una partnership con Water.org che sensibilizza sull’acqua e che riceve una donazione per ogni birra venduta. Il tema qui è sottile: non conta più il prodotto, il gusto, la marca e tutto quello che volete (una birra vale l’altra come una birra vale un White Russian?) ma devi scegliere Stella Artois perché doneremo qualcosa per il tuo gesto. In altre parole: se devi bere, scegli noi perché lo facciamo per una buona causa. Magari non ti piace la nostra birra, magari neanche la birra (volevi tanto quel Cosmopolitan, eh?) ma ordina noi e puoi anche lasciaci sul tavolo.

Il messaggio sociale è appealing ma nel darlo abbiamo definitivamente ucciso il prodotto. La Nike con Kaepernick non dice “comprami perché i miei prodotti sono succedanei di quelli di Under Armour e uno vale uno, tanto vale noi”. Personalmente, trovo la creatività di Stella Artois rischiosa perché ha coinvolto il prodotto come mero veicolo. Pericoloso.

Ma questo è il minore dei problemi.

La costante ondata di proteste per qualsiasi cosa ha portato le marche a realizzare spot “inoffensivi”

…e di conseguenza deboli.

Il side effect è stato quello di generare contenuti che variano dal noioso al buonista senza la capacità di rimanere nella memoria anche solo dopo un’ora dall’evento. La ricordabilità delle pubblicità di questo Super Bowl è probabilmente ai minimi degli ultimi 20 anni.

Perché? Per paura. Dei backfire di qualche minoranza, associazione o gruppo di consumatori. Una delle capacità della pubblicità è quella di stupire. Si è visto purtroppo molto raramente. La paura dei marketer ha portato indietro alle casalinghe sorridenti, alle famiglie affiatate, al sole che splende e al bucato più bianco. E quindi all’indifferenza.

Pagata 175.000 $ al secondo.

Prendete lo spot del Washington Post che presenta una grande verità sul ruolo della stampa e testimonia il lavoro di giornalisti che hanno perso la vita per raccontare i fatti e garantire decisioni informate…

…che nonostante il messaggio è riuscito a ricevere critiche. In questo caso (purtroppo) dagli stessi reporter del Post:

Oppure un brevissimo riferimento a un party vegan a base di beetloaf (un polpettone dove la carne è sostituita dalla barbabietola) nello spot di Hyundai che ha scatenato l’ira della community e delle associazioni vegane e animaliste.

Nell’epoca delle proteste per qualsiasi cosa, degli haters, delle minoranze chiassose, dell’impossibilità di realizzare un politically-correct che immunizzi da critiche, l’industria pubblicitaria ha capitolato.

Ma c’è speranza. Per l’anno prossimo? Ci spero tantissimo ma forse sarà ancora troppo presto. L’ho però trovata in qualche lampo che si è comunque visto nella piattezza generale. Ve li propongo qua per terminare la lettura più ottimisti :-)

Il miglior spot è stato sicuramente quello della lega professionistica — l’NFL — che puoi apprezzare appieno solo conoscendo un po’ di personaggi ma che ha divertito tantissimo appena prima del concerto. Merita.

A proposito: 2 minuti di spot — equivalenti a una cosa come 21 milioni di dollari — che l’NFL non ha dovuto pagare perché inserito nell’accordo di cessione dei diritti alla CBS.

Un esperimento molto riuscito è il medley di Bud Light insieme a HBO …non ti dico oltre per non rovinare il coup de théâtre (qui in versione estesa):

E da ultimo uno spot che in realtà è un pezzo — trasmesso as-is com’è stato filmato — di una performance di Andy Warhol che Burger King è riuscito a trovare e utilizzare:

Una cosa può strappare una risata: i meglio informati citano il fatto che in quell’occasione Andy Warhol chiese un Big Mac perché la performance era a proposito di un generico “Andy che mangia un hamburger”. Incidentalmente gli arrivò un Whopper e oggi Burger King festeggia.

Al prossimo anno allora. Spero davvero che il clima di contrapposizione su tutto e contro tutti cali di intensità e che le persone riescano di nuovo a ridere e a prenderla come viene (di Lebowskiana memoria).

Un calo di inutile tensione, ecco. Almeno quanto basta per darci quei 5 minuti di creatività pubblicitaria di cui parlare per settimane …senza lamentarci! :-)

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