Riflessioni di design — 1x3 Design ethics: conoscenza, saggezza, e identità. Ancora una volta con Phronesis

Emiliano Carbone
9 min readJan 3, 2019

La connessione tra design ed etica è immediata e molto prolifica, un discorso in cui vengono toccate le corde più profonde della professione del designer. Nell’intro di Riflessioni di design iniziai a meditare riguardo le questioni etiche tramite quella “istantanea” del lavoro-qualitativo, in cui i designer — spesso troppo meccanicamente, cioè senza riflessione critica — coinvolgono gli utenti all’interno dei processi di progettazione. Data l’insensatezza in cui si potrebbe incorrere, è possibile mettere in nuce componenti etiche che sono di tipo concettuale, comunicativo, partecipativo e riguardanti la proattività. E queste componenti, o meglio impegni, devono essere considerate innanzitutto e naturalmente per il valore creato all’interno dei risultati seguenti, e poi per le responsabilità connesse alle conseguenze impreviste e non intenzionali dei progetti stessi. Allora quando si opera con l’etica, una pletora di domande (intrise di moralità, psicologia e filosofia) dovrebbero essere affrontate prima, durante e dopo qualsiasi fase progettuale. La problematizzazione, la decisione delle ragioni da cui le persone dovrebbero essere mosse, la comunicazione dei risultati e dei processi, la privacy e l’identità, tutte queste questioni sono subissate dalla presenza delle etiche nelle pratiche progettuali. Come ha scritto Peter Lloyd, direttamente dalla Design Research Society: “Il processo di qualsiasi progettazione contiene al suo interno eventi che possono essere considerati di natura etica [ndr]. L’etica inizia con la conoscenza. Essa richiede una grande operazione di ricerca e lavorazione delle informazioni e un’importante riflessione radicata nella “phronesis”, ovvero ciò che la filosofia classica intendeva come saggezza pratica, che sono la volontà e il giudizio che guidano il nostro progetto per il futuro, e i suoi fini intrinseci. I nostri comportamenti. Aggiungo, inoltre, che più le metodologie dell’innovazione incrementale/radicale hanno successo, più la riflessione etica nel design necessita consolidamento. Così, la spinta del progetto ci fa oscillare tra la fatica “entropica” e l’incertezza delle possibilità alternative, aprendoci ad una molto potente libertà e allo stesso modo anche ad una molto grande responsabilità. La comprensione del futuro e dei suoi effetti è terribilmente ardua, e la presente era “digitale” è un momento peculiare per riflettere. Calando appropriatamente questa Riflessione nelle pratiche progettuali, dovrebbero essere considerate tre grandi “relazioni” che coinvolgono tutte, credo, profonde questioni etiche riguardanti il libero arbitrio dei designer: la relazione con la concezione della realtà (ovvero la nostra capacità interpretativa), la relazione con la progettazione stessa (come pratica), ed infine, la — ineludibile — relazione con la tecnologia.

Considerando la prima relazione, quella tra le pratiche progettuali e la concezione della realtà, essa è davvero (come ho evidenziato precedentemente nella riflessione riguardo la nostra capacità interpretativa) la nascita dei nostri comportamenti ed azioni. Nell’interazione “interpretazione/azione” — o se preferite, in extremis tra teoria/pratica — un ruolo chiave è giocato dal modo in cui i designer concepiscono le persone e la realtà, e informano di conseguenza le loro progettazioni. Come viene spiegato dal filosofo Maurizio Ferraris: “L’interpretazione non riguarda un fatto un detto o uno scritto ma l’intera storia dell’umanità”. In questa luce, da una prospettiva progettuale, emerge chiaramente il rischio di non riuscire a valorizzare se stessi nella propria storia e nei propri costumi. Scavando la splendida tradizione ermeneutica, è possibile evidenziare ulteriori aspetti per accrescere ulteriormente l’attività interpretativa, come l’etica della “ri-descrizione” di Rorty, e la nozione di “continuità” di Gadamer, le quali, entrambi, segnalano l’importanza e la centralità, per l’umanità nel suo insieme, di trascendere i valori dominati vigenti e mantenere il “mondo-vitale” umano, vivo e creativo (senza aprire qui, il tema della corrente dominanza delle logiche di mercato). Eppur facendo una comparazione con le cosiddette “conoscenze certe” (che sicuramente hanno il loro grande valore informativo), anche uno studioso come John Dewey suggerì fortemente l’importanza di raggiungere “giudizi concreti (…) riguardo fini e mezzi nella regolazione di comportamenti pratici”. Anche l’antropologo Clifford Geertz ha sostenuto che l’importanza non è la “certezza” in quanto tale, bensì il potere di una “migliore mappa della realtà” che, nel caso del design, ci consente de facto di avere una guida all’azione più affidabile. Perciò, l’importanza per i designer di riconoscere la centralità dell’accrescimento interpretativo, critico, e razionale, corrisponde alla produzione di progetti che emancipino scienza e umanità equivalentemente. Ed infine, considerando lo scopo della “design research”, come sintesi di dati per la produzione di insights, un’altra volta si rivela un punto di contatto tra design ed etica.

Di seguito questo accrescimento dell’interpretazione, è naturale proseguire nella relazione con la progettazione stessa, dove il discorso etico rivela una doppia faccia. In primo luogo, la formazione dell’identità e della moralità del designer che avviene, come abbozzato nell’interpretazione, dalla pratica circolare e riflessiva instaurata nel lavoro di “interrogazione” del mondo e dei suoi artefatti, fissa che la maturazione etica può avvenire solo attraverso questa routine. Adesso, rispetto il sopracitato coinvolgimento degli utenti (una “best-practice” oggi necessaria e auspicata), risultano incalzanti le considerazioni dello psicologo Carl Rogers circa il suo lavoro La Terapia centrata-sul-cliente: “In tutti gli organismi, incluso l’uomo, c’è un costante flusso che mira alla realizzazione costruttiva delle sue possibilità intrinseche, una naturale tendenza alla crescita”. Così, il designer, di fronte questa “tendenza” terza, non deve solo scolpire la sua identità e visione del mondo, ma, in secondo luogo, è anche creatore delle sue condizioni di crescita. In linea con questo punto di vista cruciale, il professore e storico Damon Taylor ha giustamente elaborato che: “da quando l’attenzione della ricerca si è spostata dalla natura degli oggetti al comportamento delle persone, s’intende che la progettazione per l’uso sia diventata la progettazione dell’uso” [ndr]. Allora la summa “identità” + “tendenza” è ovviamente critica, e qui il professore Tony Fry circoscrive chiaramente: “progettare eticamente non riguarda solamente l’appropriazione e l’applicazione dell’etica, ma piuttosto, ed essenzialmente, il designer diventa costituito eticamente”. Inoltre spiega: “Diventare un designer etico vuol dire diventare responsabile dell’Essere che viene messo in essere” [ndr]. Questo è un lavoro che richiede, non solo grande conoscenza, tatto e serietà, ma anche una straordinaria competenza cognitiva e comportamentale, in quanto l’introduzione di nuove affordances e significati nella realtà vengono a istruire, come una “legislazione”, uno “script” ci direbbe la semiotica, le nostre possibilità trascendentali di comportamento e consumo. Allora, come può il designer (nonostante non sia solo), riconoscere e prendersi una piena responsabilità per questa sfida? Attingendo alla prospettiva etica di Sartre, lo studioso Philippe d’Anjou fa notare il valore di “autenticità” dell’individuo, che dimostra essere un nodo cruciale in questa questione. Sartre difatti, ben conosciuto per pensare che “l’uomo è condannato ad essere libero”, implica l’impossibilità di evasione dall’atto dello scegliere. Dunque solo un designer “autentico” sarà in grado di criticare se stesso e la realtà, per misurarsi pienamente con la sua libertà generativa. Così, il cuore etico dell’essere/fare il designer si è mostrato nel suo insieme. Se da un lato si misura con l’essere padroni di se stessi (lo homo faber del 21° secolo), dall’altro, demanda saggezza pratica nella produzione di alternative che facilitino, senza ostacoli, la trascendenza delle persone. E di conseguenza, “consegnando” rispetto, trasparenza, e protezione, per i loro interessi futuri. Solo questo tipo di riflessione rende possibile la formazione del loro vero ideale e valore, ed è essenziale soprattutto per il loro posizionamento come professionisti (uno scopo ben più alto, rispetto il management “creativo” in cui troppo spesso sono pressati).

Per quanto riguarda la relazione con la tecnologia, un ponte perfetto per afferrare l’odierna “penetrazione” tecnologica, arriva dalla lezione di Callon e Latour. Oggigiorno parliamo di “ibridazione” o “sistemi socio-tecnici” nel considerare la grande massa di tecnologia integrata nella nostra vita quotidiana. In altre parole, le persone e i loro dispositivi co-producono le società. Come ha spiegato Bruno Latour: “Ho cercato di offrire agli umanisti una dettagliata analisi della tecnologia sufficientemente magnifica e spirituale per convincerli che le macchine dalle quali sono circondati sono artefatti culturali degni della loro attenzione e rispetto”. E questo ci conduce ad un primo punto in merito a questa “relazione” tecnologica: sebbene le tecnologie troppo spesso vengono considerate come qualcosa di inerte e passivo, esse influenzano fattivamente e intangibilmente i nostri comportamenti e attitudini (come nel caso del design per i designer), e questo è il motivo per cui esse non sono “moralmente” o “qualitativamente” neutre. Una profonda intuizione di Luis Althusser può elevare questo passaggio. Il filosofo concepì l’ideologia come un intero “apparatus” delle pratiche quotidiane delle persone, così acquisendo un’esistenza materica. Allo stesso modo, la tecnologia, in quanto incarnata in quell’apparatus, è un’azione tra le varie che abbiamo a disposizione, per concepire noi stessi e le nostre interazioni sociali. La tecnologia è, prima di tutto, la fredda e spietata materializzazione della nostra razionalità. L’utilizzo della tecnologia è pari all’utilizzo della nostra intrinseca critica razionale, depositata nelle nostre teorie sul mondo. Ci può elevare, emanciparci, ma può anche limitare e soffocare la nostra capacità trascendentale. Un altro grande studioso, Karl Popper, circa i suoi studi sulla relazione mente-corpo, ha messo in evidenza la nostra abilità di evolvere proprio attraverso la trasformazione della nostra conoscenza da interna ad esterna. Ha giustamente sottolineato: “invece di sviluppare una vista migliore noi sviluppiamo occhiali e binocoli”. Dunque, questa potente ibridazione ci porta ad un secondo punto: non è abbastanza tirar fuori nuove tecnologie solo perché possiamo farlo, è importante altresì mantenere la responsabilità umana in questo “gioco” con i robots, soprattutto in questo mondo scientista-positivo. In conclusione, anche per le dinamiche digitali, nella interconnessione, informatizzazione e interazione, vale la pena considerare il lavoro di Luciano Floridi attraverso cui emerge l’utilizzatore digitale, lo “inforg”, come un individuo proattivo: “Un padrone del mondo, un creatore di giochi, o un arbitro”. E le dinamiche con le quali gli utilizzatori s’identificano, dovrebbero essere configurate come spazio per lo sviluppo di un “operatore moralmente maturo”, dato il fatto che internet, è ormai, uno “spazio” dove individui e società si producono e si sviluppano. Da qui, anche il cosiddetto “digital”, ha bisogno di seri criteri etici. Le nostre esperienze, come mostrato fin qui, sono basate su questo entanglement. Le tecnologie sono parte di esso. Come ha fortemente suggerito Andrew Keen, autore del libro How to fix the future: “La tecnologia non è mai la risposta. E parte della soluzione”. Inoltre, ponendo l’accento sull’importanza di comprendere la storia della tecnologia, sostiene: “La tecnologia non accade così. Noi la creiamo e riflette i nostri valori, il nostro pensiero e le nostre priorità” [ndr].

Per concludere questa lunga e importante riflessione, una risposta immediata ad un tale caleidoscopio è quella di integrare il popolare “design thinking” (senza menzionare l’abuso poco etico di cui è protagonista, un’altra riflessione trattata precedentemente) con quello etico. Sebbene possa apparire una considerazione frivola, se riconosciamo la phronesis come un passo al di fuori delle nostre impressioni, un orientamento ben radicato nella mitigazione dei valori in competizione delle persone, e una razionalità e immaginazione morale come superamento dei nostri comportamenti inerti, una “liberazione” verso possibilità alternative più positive e profittevoli collettivamente, non è così semplice come “integrazione”. Chiaramente, le informazioni e la conoscenza sono sempre il cuore di qualsiasi nostra regolazione. Bernard Stiegler, riguardo il suo ultimo lavoro, ha dichiarato fermamente: “la conoscenza è una terapia”. Egli ha comparato la conoscenza ad una medicina, che può “limitare i danni dei pharmakon che assumiamo” nella vita di tutti i giorni. Nonostante la velocità e la piattezza delle dinamiche digitali siano contro il ritmo calmo della critica, i designer dovrebbero mirare ad abilitare le persone, e soprattutto gli utenti coinvolti nelle pratiche progettuali, a comprendere sufficientemente l’essenza di ciò che sta accadendo così da produrre opportunamente il loro habitat. Perciò io mi chiedo sempre: sto servendo eticamente gli utilizzatori? Queste condizioni mi permettono di capire e prevedere le possibili implicazioni del mio progetto? In virtù di queste ragioni, i designer non dovrebbero spaventarsi dall’essere pedantemente critici e curiosi, afferrando la complessa idea di non seguire un’identità fissa, o solo una valutazione in termini di bene/male, data la concreta varietà di opinioni sul mondo e di problemi delle persone. Già negli anni 70’, Viktor Papanek, nel suo Design for real world, pose con una certa urgenza la questione etica e sociale dell’essere un designer, soprattutto in termini di “responsabilità” e “consapevolezza”. In questo senso, la cultura del progetto (come nel caso della tecnologia) non può essere trasformata in un processo neutrale di “facilitazione” per l’innovazione. Quando i designer si sovrappongono “circolarmente” con la realtà, la ricerca di feedback che circoscrivano conseguenze inevitabili e non intenzionali, è probabilmente solo la prima parte della sfida etica. Da qui, attraverso questo cerchio, sviluppare la responsabilità intrinseca al loro ethos (che non solo forma se stesso), ma richiede di integrare forme di Essere che siano contestualmente più desiderabili e possibilmente meno umanamente dannose.

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Emiliano Carbone

Senior Business Designer @ Tangity — NTT DATA Design studio #design #research #complexity (views are my own)