Tutta la verità sulla guerra alle droghe: parola di Annie Machon

La war on drugs, il terrorismo, la compressione dei nostri diritti civili e libertà fondamentali. Facciamo il punto con Annie Machon sul perché è ora di cambiare verso sulle droghe, cosa possiamo aspettarci da UNGASS 2016 e il lavoro di LEAP per un mondo che sia — davvero — più sicuro per tutti.

NonMeLaSpacciGiusta
12 min readApr 8, 2016

di Corallina LC

Ciao, Annie! Vorrei iniziare chiedendoti un po’ della tua storia: com’è successo che una ex agente dei servizi segreti britannici, poi diventata whistleblower per denunciare i crimini della MI5, sia ora in prima linea nella battaglia contro il proibizionismo sulle droghe?

(Risata) Beh, questa è sicuramente una domanda interessante. Direi che sono ancora una whistleblower — solo che ora sto denunciando il totale fallimento della guerra alle droghe!

Ho lavorato come agente dei servizi segreti domestici britannici (MI5) all’inizio degli anni ’90 e una delle mie responsabilità era indagare sulle dinamiche logistiche dei gruppi terroristi irlandesi. Per fare ciò, era necessario che lavorassi a stretto contatto con le autorità di confine, e soprattutto con quelle doganali, al fine di controllare l’ingresso di sostanze narcotiche nel Regno Unito.
Questa esperienza professionale mi ha insegnato due cose: la prima è che, nonostante l’Inghilterra sia un’isola, è assolutamente impossibile impedire l’arrivo di droghe nel paese. Gli agenti doganali questo lo sanno benissimo: già allora — e stiamo parlando di venticinque anni fa! — il personale di frontiera era perfettamente consapevole che la guerra alle droghe fosse un fallimento totale.
La seconda cosa che ho imparato, la più importante dal mio punto di vista, è che vi è una preoccupante convergenza tra commercio illegale di droghe e finanziamento dei gruppi terroristici e che l’esistenza di network criminali, utilizzati per trafficare sostanze narcotiche, agevola la circolazione di armi e persone che è necessaria ai gruppi terroristici.

Questo mi aveva colpita molto già allora, ma per anni sono stata impegnata a denunciare altre problematiche (NDR: si riferisce alla sua attività di whistleblower con riguardo ai crimini e gli abusi dei servizi segreti).

La copertina del primo libro di Annie Machon, che racconta della sua esperienza e fuga dal MI5 — insieme all’allora compagno David Shalyer — e soprattutto denuncia i crimini commessi dai servizi segreti britannici.

Poi, nel 2009, qualcuno mi ha parlato per la prima volta di Law Enforcement Against Prohibition (LEAP) e da lì è cominciato tutto: sono stata messa in contatto con il comitato direttivo e ho incontrato a Amsterdam il fondatore dell’organizzazione, Jack Cole, che mi ha subito proposto di unirmi a loro per iniziare a portare l’attività di LEAP anche in Europa.
Per un po’, non è successo molto; poi stata mandata come rappresentante di LEAP all’incontro annuale della Commissione sui Narcotici (CND) a Vienna. Si tratta di un evento delle Nazioni Unite in cui i governi mondiali inviano i loro rappresentanti per rinnovare la loro adesione ai trattati in materia di droghe che sono stati imposti a livello globale dall’ONU. In pratica, i leader mondiali si incontrano a Vienna per darsi grandi pacche sulle spalle a vicenda e complimentarsi l’uno con l’altro per il gran lavoro fatto per conseguire l’obiettivo di un mondo senza droghe; ed io restai davvero inorridita da ciò, da quella compiacenza per delle politiche che hanno spettacolarmente fallito, causando danni irreparabili in tutto il mondo per oltre cinquant’anni. Di ritorno da Vienna, ho deciso che c’era bisogno di fare di più anche in Europa: dalla primavera del 2012 mi sono quindi unita al comitato direttivo di LEAP e da allora coordino l’azione dell’organizzazione nel vecchio continente.

A proposito di quanto accennavi: hai parlato spesso della connessione tra le grandi guerre del nostro tempo — la guerra alle droghe, la guerra al terrorismo, la guerra alle libertà civili, la guerra ai whistleblower ed a Internet. Perché è così importante comprendere che queste problematiche sono tutte collegate?

Qui parliamo di guerre contro concetti, invece che di guerre contro stati: essenzialmente, si tratta di guerre contro le nostre libertà fondamentali.
Abbiamo combattuto per oltre 800 anni per affermare le nostre libertà fondamentali e i nostri diritti umani; solo nel 1948, dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, queste libertà e diritti sono state riconosciute a livello globale con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Io credo che queste nuove guerre ai concetti stiano venendo impiegate come strumento per erodere questi diritti fondamentali tanto faticosamente affermati, privando i cittadini delle loro libertà per riconsolidare il potere delle èlite.

La guerra alle droghe è stata il primo tentativo di fare ciò, ed è iniziata per volontà degli Stati Uniti — che, nel 1961, hanno di fatto imposto il primo trattato delle Nazioni Unite in materia di droghe.
Questo, per due motivi: innanzitutto, gli Stati Uniti avevano bisogno di una scusa per spiare e controllare i propri cittadini — cosa che ovviamente sarebbe stata incostituzionale, ma che le autorità americane sono state libere di fare con la scusa di combattere la guerra alle droghe. In secondo luogo, questo offriva una splendida giustificazione per interventi internazionali, spesso di carattere militare e soprattutto nei “paesi produttori” dell’America del Sud — che sono stati infatti devastati dalla guerra alle droghe.
Possiamo insomma ben dire che la guerra alle droghe è stato un primo tentativo del governo di privarci di alcune delle nostre libertà fondamentali.

Dall’11 settembre 2001, poi, la guerra al terrorismo è diventata il nuovo giocattolo scintillante degli americani. Gli Stati Uniti hanno effettuato interventi militari e fatto tutto quello che avevano già messo in pratica nel contesto della guerra alle droghe — solo, molto più aggressivamente. Da questo punto in poi, gli Stati Uniti non hanno nemmeno più bisogno della guerra alle droghe: adesso c’è la guerra al terrorismo ad offrire una giustificazione per interventi a livello globale.

La guerra al terrorismo — illustrazione di TTK.

Ciononostante, ci sono comunque persone che continuano a tentare di denunciare ciò che non va — e proprio per questo motivo adesso c’è anche una guerra contro i whistleblowers.
Il governo statunitense è stato fortemente impegnato in questa guerra, soprattutto a partire dal 2008: durante l’amministrazione Obama sono stati incriminati — tramite una legge-anti spionaggio risalente al 1917 — più whistleblower di quanto sia mai avvenuto sotto i precedenti Presidenti.

Infine, c’è la guerra a Internet. Internet è più che una nuova forma di comunicazione: è il sistema nervoso delle nostre società moderne. Tutti noi viviamo le nostre vite online, e scoprire che tutto quello che facciamo quando siamo connessi può essere controllato — come abbiamo imparato grazie alle rivelazioni di persone come Snowden — danneggia la nostra sicurezza di essere liberi, anche di opporci a ciò che i nostri governi fanno quando non ci piace. E questo, alla fine, distrugge la nostra democrazia.

Un punto centrale è sicuramente quello della connessione tra le droghe e il terrorismo. Si può dire che la guerra alle droghe stia finanziando il crimine organizzato e le organizzazioni terroristiche come l’ISIS?

Io credo, o meglio, sono sicura, che questo sia il più grande business criminale che il mondo abbia mai conosciuto. Il profitto annuale derivante dal traffico di droghe, come stimato dalle Nazioni Unite, ammonta a una cifra oscillante tra i 320 e i 500 miliardi di dollari — stiamo parlando di un terzo di trillione di dollari ogni anno!

Dove vanno tutti questi soldi e come sono impiegati?
Servono a mantenere il gigantesco commercio di sostanze, a finanziare la costruzione di veri e propri stati dentro lo stato, “sub-stati” che possono corrompere e controllare i governi ufficiali.
Questo è avvenuto in America del Sud e ora avviene nell’Africa Occidentale, che è una delle nuove rotte del traffico di droga tra l’America Latina e l’Europa (in particolar modo per la cocaina). Insomma, questo è un problema grave — che affligge intere regioni, coinvolge i governi, determina la creazione di entità para-statali all’interno degli stati veri e propri.

Poi c’è appunto la convergenza tra le bande di trafficanti e le organizzazioni terroristiche: più della metà dei gruppi terroristici riconosciuti riceve la più cospicua parte dei propri finanziamenti dal commercio di droghe. Questo non succede certo solo per l’Afghanistan e il business dell’oppio — e qui vale la pena sottolineare, a margine, che l’area dedicata alla coltivazione del papavero in suolo afgano è addirittura triplicata dall’intervento militare occidentale di un decennio fa — riguardando bensì anche paesi dell’Asia centrale e dell’America del Sud.
Persino l’ISIS, pare, ricava una consistente parte dei propri fondi dal controllo delle tratte di traffico che collegano l’Asia Centrale all’Europa.
Insomma, la convergenza è davvero significativa: il traffico di droghe finanzia i terroristi, e allo stesso tempo agevola la creazione di network e tratte che permettono il traffico occulto di persone e armi per tutto il globo.

L’ultima componente dell’equazione è l’illegalità che permea le nostre banche. A riciclare il denaro sporco proveniente dal mercato nero delle droghe sono infatti proprio le banche — e questo è un fatto dimostrato, non una qualche vaga teoria cospirazionistica: varie banche sono state infatti indagate e processate per riciclaggio, tra cui ad esempio la banca inglese HSBC, condannata a pagare una multa di oltre 1 miliardo di dollari.
In altre parole: lasciando il mercato delle droghe nell’illegalità, agevoliamo la corruzione del nostro sistema finanziario.

“HSBC Money Laundering” — illustrazione di Adam Zyglis.

Nel 2009, Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’UNODC, dichiarò che, in assenza dei soldi provenienti dal traffico di droga, senza dubbio molte delle più grandi banche del mondo si sarebbero trovate totalmente prive di liquidità a seguito della crisi finanziaria del 2008. Questa è la dimensione del fenomeno.

Inoltre, c’è anche il potenziale abuso del commercio illegale di droghe da parte delle nostre agenzie di sicurezza. È stato infatti denunciato che vi è una sorta di “fondo nero” della CIA che proviene proprio da questo tipo di attività.

Per farla breve? La situazione è veramente incasinata.

Il fatto che la guerra alle droghe lasci il commercio di sostanze nelle mani del crimine organizzato e delle organizzazioni terrroristiche è una delle principali ragioni per cui LEAP afferma che il prossimo passo dovrebbe essere, a rigor di logica, quello di una regolamentazione del mercato delle droghe — analogamente a quanto avvenuto per alcol e tabacco.
Perché affermate che la decriminalizzazione non basta a rendere il mondo un posto più sicuro per tutti?

Molti paesi europei stanno facendo grandi passi nella direzione giusta, decriminalizzando l’uso personale e mettendo in piedi programmi di riduzione del danno. Questo è avvenuto in Portogallo, dove tutte le droghe sono state decriminalizzate nel 2002, ed i risultati sono stati ottimi. Lo stesso si può dire dell’ancora più risalente esperimento svizzero per controllare l’uso di eroina. Questo approccio ha poi contagiato tanti altri stati europei e anglofoni. Tutto questo è ovviamente molto positivo: le persone che fanno uso di sostanze smettono di essere criminalizzate e vengono piuttosto trattate come pazienti, che è assolutamente corretto.

La decriminalizzazione in Portogallo — illustrazione di Rob Arthur.

Ma, comunque, in questi paesi che scelgono di decriminalizzare, il commercio di droghe resta ancora completamente abbandonato a criminali, terroristi e banchieri corrotti — e quindi il circolo di illegalità e criminalità si perpetua. Per questo motivo è necessario avere il coraggio di fare un passo in più e dirsi “abbiamo regolato il tabacco, abbiamo regolato l’alcol, ora regoliamo le droghe”.

Il fatto è che le persone continueranno a fare uso di droghe, e non c’è niente che possa impedirlo: non è cessato il consumo nemmeno in quei paesi dove per il consumo di droghe è prevista addirittura la pena di morte! Alla luce di ciò, perché lasciare il controllo di queste sostanze pericolose nelle mani di criminali, senza nessuna regolamentazione o controllo? Questo rende più facile l’accesso a persone vulnerabili, ai nostri stessi figli. Basti pensare che è assai più difficile per un minorenne comprare dell’alcol che acquistare della marijuana.

Quello di cui abbiamo bisogno è riprendere il controllo di sostanze potenzialmente pericolose, per proteggere le persone vulnerabili e assistere chi è già dipendente. Io credo che sia davvero logico: è questione di togliere il commercio di droghe dalle mani di criminali senza scrupoli e affidare la questione a persone che vogliono aiutare gli altri.

Torniamo a LEAP e al tuo lavoro per l’organizzazione: per quale motivo persone che sono state a lungo in prima linea nel combattere la guerra alle droghe adesso si battono per la sua cessazione? E qual è l’importanza di avere il supporto di membri delle forze dell’ordine nella battaglia contro il proibizionismo?

Le motivazioni dietro la scelta di unirsi a LEAP sono estremamente personali e variegate.
Si può trattare di qualcuno che per anni è stato in prima linea nel combattere la guerra alle droghe sul campo e che ha quindi avuto modo di realizzare la dimensione dei danni provocati alle comunità locali dall’illegalità del commercio di droghe e di comprendere come le attuali politiche sulla droga stiano di fatto allontanando e ponendo in contrasto le forze dell’ordine proprio con quelle comunità che loro dovrebbero proteggere.
Ma si può trattare anche di poliziotti sotto copertura che hanno visto morire i propri colleghi in circostanze orribili, o avvocati che sono stati testimoni dei più grossolani errori giudiziari — come per gli innumerevoli casi di persone condannate al carcere solo per aver fumato della marijuana o per le sentenze palesemente motivate su base razziale (un fenomeno, questo, particolarmente evidente negli Stati Uniti, ma presente anche in altri paesi).
Oppure si può trattare di giudici che sono stati costretti a imporre sentenze importanti anche sapendo di avere di fronte soggetti vulnerabili, anche sapendo che il prezzo di quelle decisioni sarebbe stata la distruzione di intere famiglie, se non addirittura della stessa comunità.
Infine, si può trattare di persone come me, che hanno preso coscienza della conflittualità tra la guerra alle droghe e le altre battaglie che dovremmo combattare, in primo luogo quella contro il terrorismo.

Motivazioni a parte, sono convinta che LEAP aggiunga una voce unica al dibattito. Vi sono ovviamente già numerose organizzazioni — come ad esempio Transform nel Regno Unito (NDR: abbiamo recentemente intervistato anche Steve Rolles, Senior Policy Analyst della fondazione inglese)— che stanno facendo un lavoro eccezionale e usano tutti i giusti argomenti per sostenere l’esigenza di regolare, controllare e tassare le droghe; ma proveniendo noi dall’ambiente delle forze di sicurezza, abbiamo la possibilità di raggiungere con il nostro messaggio anche le frange più conservatrici della società. Inoltre, grazie alla nostra diretta esperienza professionale in materia, abbiamo solidi argomenti per asserire che la guerra alle droghe ha fallito ed il suo unico risultato è stato anzi causare sofferenza a livello mondiale. Le persone si fidano di queste voci ed esperienze.

LEAP sarà a UNGASS2016 e, se sì, che tipo di posizione assumerà in tale contesto?

LEAP sarà sicuramente a UNGASS con una rappresentanza internazionale guidata dal nostro fondatore Jack Cole. Sosterremo la piena legalizzazione, regolamentazione e controllo di tutte le sostanze; quello che vorremmo è che la regolamentazione delle droghe fosse affidata alla stessa autorità della World Health Organization che si occupa di tabacco e alcolici.
Tutto ciò, sulla base della convinzione che non basta parlare di riduzione del danno. Intendiamoci: è ovviamente una cosa positiva che nel contesto delle Nazioni Uniti si sia finalmente iniziato a discutere di decriminalizzazione e riduzione del danno e che si inizi accettare che i paesi del mondo possano decidere come applicare i trattati in materia di droghe in maniera flessibile rispetto alle proprie esigenze — ma questo lascia ancora il commercio globale di sostanze nelle mani di criminali e terroristi, e questo è il punto fondamentale su cui LEAP vuole intervenire.

Quali pensi saranno gli esiti dei lavori della Sessione Speciale, credi ci sia la possibilità di qualche miglioramento significativo?

(Risata) Dopo essere stata alcune volte alle Nazioni Unite, quello che posso dire con sicurezza è che si tratta di un animale molto lento! In ogni caso, non si può non riconoscere che dei passi in avanti sono stati fatti: frequento l’ONU dal 2012, e allora persino parlare di riduzione del danno o decriminalizzazione era off-limits. Il fatto che adesso finalmente ci sia apertura su questi argomenti è positivo, ma ci stiamo ancora muovendo troppo lentamente (su questo, pesa sicuramente il fatto che le Nazioni Unite funzionino sulla base del consenso invece che della maggioranza) e c’è decisamente bisogno di accellarere i tempi — che è proprio quello che LEAP sta provando a fare!

L’ultima domanda, per concludere con una nota locale: nel corso di questi anni LEAP ha affermato la sua presenza in Europa e aperto sedi locali in Inghilterra e Germania. Qual è la situazione in Italia, avete anche qui una rete di soggetti provenienti dal mondo delle forze di sicurezza interessati a combattere il proibizionismo sulle droghe?

Abbiamo lanciato LEAP in Germania e in Inghilterra rispettivamente nell’autunno del 2015 e questa primavera, e ne sono molto contenta perché si tratta di due paesi che hanno un approccio piuttosto conservatore sulle droghe.
Per quello che concerne l’Italia, purtroppo al momento non c’è nessuna attività di LEAP: sarei davvero felice di riuscire a entrare in contatto con qualcuno che ha avuto diretta esperienza nel combattere la guerra alle droghe e ne riconosce il totale fallimento. Per noi sarebbe davvero importante iniziare a lavorare anche in Italia, per cui questo è una sorta di invito a tutti coloro che provengono dal mondo delle autorità pubbliche— agenti di polizia, personale dell’esercito o delle agenzie segrete ma anche giudici e avvocati — che siano interessati a unirsi alla battaglia anti-proibizionista di LEAP: mettetevi in contatto con me!

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Campagna della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili - per un dibattito informato e una riforma delle politiche sulla droga.