Un giorno come tanti

Dalla Costa d’Avorio all’Italia di oggi

salvo fedele
Comunità & Pratica
6 min readNov 17, 2013

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Mirco Nacoti è una delle tante persone splendide che ho avuto la fortuna di incontrare nella vita. Ci siamo conosciuti a Lampedusa molti anni fa lavorando insieme per Medici Senza Frontiere.

Ho letto con avidità il suo libro dedicato alla esperienza in Costa d’Avorio,ma ho perso poi praticamente qualsiasi contatto con lui, anche se continuo a seguire il suo lavoro purtroppo solo tramite le rare notizie che segnala sul suo account G+.

L’incontro con Mirco è stato per me una esperienza forte. Una di quelle cose che il web non può darti. Sono sicuro che anche l’emozione che mi ha dato la lettura del suo libro è stata mediata dalla passione, che ho avuto modo di vedere personalmente, con cui si dedicava al suo lavoro e al modo con cui interpretava il suo ruolo di cooperatore internazionale.

Non trovo altra spiegazione alla semi-clandestinità della diffusione del suo lavoro in Italia, anche se la “commercializzazione” del libro (non poteva essere diversamente…) era stata affidata da Mirco proprio ai clandestini.
Nell’immagine che segue trovate la recensione che avevo fatto del suo libro poco dopo l’uscita; è tratta da una delle pagine del nostro sito dedicata a “persone e storie”, a volte molto difficile da raggiungere per la scarsa cura che dedichiamo alla sua manutenzione.

Bene, il motivo per cui ho pensato a Mirco in queste ore non è per via della sua esperienza di cooperatore e del suo tentativo di avviare una esperienza internazionale di comunità di pratica.

Mi spiego meglio: quando l’ho conosciuto, Mirco sosteneva che uno degli aspetti del colonialismo moderno è la maniera intollerabile con cui i medici locali sono trattati dai cooperatori internazionali.

Così si era dedicato allo sviluppo di una “biblioteca medica locale” e al sostegno di una esperienza di Journal club, utilizzando anche l’innovazione telematica e la possibilità di “rifornire” velocemente attraverso la sua biblioteca di Bergamo non solo i cooperanti ma anche i medici locali.

Per quanto ne sappia quell’iniziativa non ha avuto tutta la fortuna che meritava. E non sono informato sui suoi sviluppi attuali, anche perché nel frattempo la situazione in Costa d’Avorio è molto peggiorata sul versante socio-politico (anche se è difficile immaginare qualcosa di più drammatico di quel che Mirco descrive nel suo libro)

Le nostre conversazioni erano andate però un po’ oltre.

Parlavamo spesso delle somiglianze tra il moderno colonialismo con cui i cooperanti si avvicinano alla medicina locale e la modalità con cui i medici di istituzioni importanti realizzano i loro rapporti con la medicina di base. E anche del moderno colonialismo che regola i rapporti tra gli ospedali del Nord e quelli del Sud d’Italia.
Parlare con Mirco era una straordinaria palestra mentale di libere associazioni, una palestra che non può darti il semplice sapere o anche il saper fare. Mirco era l’interlocutore ideale per trasformare informazione in cambiamento.

Le nostre strade si separarono laddove si erano incrociate, ma in qualche modo continuo a pensare che l’incontro con Mirco è stato una delle ragioni per cui in questi anni più mi sono così ostinato a portare avanti l’esperienza della mia comunità di pratica.

Tranne che attraverso qualche rara telefonata non ho avuto modo di parlare con lui di tutto questo, ma mi piacerebbe riprendere quel dialogo a partire da quello che abbiamo realizzato/non realizzato nelle rispettive realtà lavorative.

Mirco infatti da qualche anno si dedica con passione all’organizzazione culturale della sua realtà lavorativa: è rianimatore in una istituzione di eccellenza e ha recentemente costituito una associazione che si dedica alle modalità del lavoro di gruppo e a tutte le implicazioni mediche e etiche che quel difficile lavoro impone.

La novità di questa sua esperienza è che sta tentando di portare “fuori dall’ospedale” e quindi fuori dalle semplici problematiche di “Team working” la sua organizzazione e il suo lavoro.

Per i non addetti ai lavori cercherò di spiegare in poche parole le differenze più importanti tra le attività di “Team work” e quelle di una “Comunità di pratica”.

Per farlo utilizzerò però una prima opposizione: quella tra “team work” e “social network”
Il team work ha tre parole chiave: collaborazione, strutturata, orientata ad obiettivi. In altre parole una descrizione sintetica del team working potrebbe essere: lavorare insieme con un obiettivo comune

Il social network ha come parole chiave: cooperazione, informalità, opportunità (o se volete serendipidy degli incontri casuali). In altre parole una descrizione sintetica di social network potrebbe essere: condividere liberamente senza alcun obiettivo comune

Le comunità di pratica si collocano a metà tra queste due definizioni e hanno l’obiettivo di andare oltre gli steccati del team work senza ignorare la difficoltà di progettare il cambiamento affidandosi esclusivamente alla casualità del social network.

Un ottimo grafico che sintetizza queste differenze è questo che vi propongo tratto da jarche.com

Tutta la letteratura scientifica che si occupa di cambiamento di sistemi complessi come quello sanitario per molti anni ha privilegiato le attività volte a migliorare il Team work (per esempio l’Audit) e ha a lungo ignorato le potenzialità offerte dalla semplice “cooperazione” e dalla aggregazione “informale”.

Negli ultimi anni questa tendenza è molto cambiata, ma il nostro SSN è ancora rigidamente ancorato alle vecchie tendenze. In questo senso è stata particolarmente deleteria l’influenza del management bocconiano che ha formato le strutture apicali delle nostre ASL.
Ecco perché esperienze come quelle di Mirco e della sua unità ospedaliera sono largamente “minoritarie” (direi “clandestine”) e non ottengono i riflettori dei mass media.
Certo la natura di personalità come quella di Mirco, del tutto estranee alla ricerca di “improbabile popolarità” tra colleghi e istituzioni, non aiuta il successo di queste iniziative, ma prima o poi…

un giorno come tanti

anche nel nostro paese dovremo parlare di queste cose:

The knowledge sharing paradox is that: the more the enterprise directs knowledge-sharing, the less likely it will happen. Conversely, the less structured the process, the more difficult it is for the organization to benefit. Damned if you do, damned if you don’t, or so it seems.
Only people can let knowledge flow

Prima o poi si parlerà dell’esperienza dell’Unità Operativa di Anestesia degli Ospedali di Bergamo come di una esperienza modello che ha coniugato con straordinaria efficacia qualità assistenziale e partecipazione, collaborazione orientata ad obiettivi definiti e cooperazione dettata dalle opportunità offerte dalla apertura al mondo che la circonda.

Buon lavoro Mirco. Ti tengo d’occhio e anche se da molto lontano cerco di leggere sempre la concretezza delle tue proposte.

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salvo fedele
Comunità & Pratica

pediatra a Palermo; mi piace scrivere, ma cerco di non abusare di questo vizio per evitare di togliere tempo al… leggere (╯°□°)