Alan Wake, come “gioco”, non funziona

Facciamo luce sul perché.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
8 min readSep 25, 2019

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È notizia di questi giorni che Control, l’ultima opera di Remedy, stia andando incontro a un flop commerciale, abbastanza tristemente annunciato. Il videogioco in questione ha trovato un generale favore di pubblico e critica, sebbene non siano mancate voci contrarie, a testimonianza ulteriore che le logiche e le regole commerciali solo incidentalmente si approssimino a quelle “artistiche”; ma tutto ciò è tema per un futuro speciale. Piuttosto, la notizia in questione rappresenta per me un ottimo pretesto per parlare di uno dei prodotti più amati del recente passato della casa finlandese, quell’Alan Wake da molti ritenuto un piccolo cult.

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Sam Lake, con una “cup of coffee” di cooperiana memoria.

In realtà l’opera Remedy del 2010 è un perfetto esempio di come il medium videoludico debba solo fare uso in maniera ancillare delle prerogative della letteratura e dell’arte figurativa, non perdendo di vista le coordinate che le sono proprie. Tutti conosciamo la perizia sceneggiativa e artistica di Sam Lake e soci, e i primi due Max Payne sono lì a testimoniarlo; altrettanto candidamente dobbiamo ammettere che Alan Wake sia una ciambella senza buco. “C’ha un brutto gameplay” potrebbe riassumere qualcuno poco amante dei fronzoli retorici, e in fondo avrebbe centrato il problema. Alan Wake funge da cavia perfetta per introdurre un discorso che mi è molto caro, inerente il concetto di primarietà dell’interazione nel videogioco. Dunque, questo articolo affronterà il “gameplay brutto” di Alan Wake sotto due profili: uno più “superficiale” e attinente la concreta giocabilità del titolo Remedy, l’altro più astratto e “di principio”.

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Su una grande imbarcazione raggiungiamo il ridente centro di Bright Falls.

Togliamoci il dente e diciamo subito le cose buone che fanno felici i fan: la cittadina di Twin P… di Bright Falls, sperduta fra le verdeggianti montagne del Nord America, tra baite di legno affacciate su laghi enormi, è un vero piacere per gli occhi. Tutti gli scorci della nostra esperienza in Alan Wake sono impreziositi dalla perizia dei designer finlandesi, capaci di dare carisma a questi luoghi naturistici alternati a desolate strutture industriali e abitative. E ci riescono soprattutto grazie a un uso sapientissimo degli effetti luminosi (del resto sapete bene quanto sia centrale il tema della luce) e a una certa ricercatezza nella fotografia e nei colori. Rimanere incantati a guardare un paesaggio notturno puntellato dalle luci della sera e immerso nella foschia è normale. Allo stesso tempo, Alan Wake racconta una vicenda che, pur non proprio brillante per originalità, riesce comunque a interessare un minimo grazie all’alone di mistero che permea la storia.

Ora, invece, parliamo di Alan Wake come gioco. Purtroppo.

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Alan Wake è capace di regalare scorci come questo.

A un livello superficiale, un intrattenimento superficiale

Analizziamo, passo per passo, in cosa consiste quello che facciamo per il 90% del tempo in Alan Wake, nella maniera più schematica possibile.

Percorriamo un “corridoio mascherato da spazio aperto”, generalmente si trova una zona più ampia (o un’arena), ci viene addosso un’ondata di nemici, usiamo la torcia per illuminare uno alla volta gli assedianti e poi gli spariamo (oppure usiamo uno qualsiasi degli altri strumenti di “luce esplosiva”), affrontiamo qualche sporadico e banalissimo puzzle ambientale, illuminiamo qualche suppellettile volante, affrontiamo una “boss fight” che non si distingue di una virgola nelle meccaniche di base (c’è solo un nemico con più hp o molti più nemici riuniti); ripetere il tutto fino ai titoli di coda.

La parte vagamente meglio riuscita di tutto Alan Wake da un punto di vista ludico.

“Ma Lorenzo, detta così ogni esperienza videoludica risulterebbe svilita!”. Eh no, perché è proprio come questo “flow” (per usare un termine sdoganato in questo periodo) venga reso pad alla mano a risultare sbagliato. Non solo lo shooting non ha un minimo gradiente di attrattiva, riducendosi a un “spara l’omino” senza alcuna differenziazione di danno in base a dove spari, senza debolezze di alcun genere a diverse tipologie di armi (invero poche poche), senza un minimo di interazione ambientale; non solo le tipologie di nemici sono esigue, senza alcuna distinzione rilevante e decisiva da un punto di vista ludico; non solo tutta la fase di “assedio” dei nemici si risolve, sistematicamente, in un arretrare e “fuggire”, cercando di isolarne uno alla volta o di usare “granate” per eliminarli a grappolo, e ripetendo in continuazione il tasto della schivata; ma è proprio come questo schema venga abusato incessantemente nella sua dozzinalità a testimoniare la mediocrità del comparto ludico di Alan Wake.

Non basta qualche sezione di guida, qualche enigma ambientale o qualche sequenza maggiormente originale (come quella del palco) a spezzare la sensazione di “more of the same” che aleggia per tutta la partita. È proprio l’incapacità di sorprendere, se non addirittura la prevedibilità, ad affliggere più di tutto Alan Wake: se entri in un piccolo parco giochi per bambini, magari illuminato dalla luce accecante del plenilunio e pervaso da una leggera nebbia a livello del terreno, e tuttavia sai che di lì a poco i soliti 4 o 5 boscaioli sbucheranno fuori dal nulla dando inizio al solito tram tram senza stimolo, tutta la magia cessa.

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Torcia e sparare, torcia e sparare, torcia e sparare…

A un livello più profondo, un problema più profondo

Nonostante quanto detto, ci credete che non è nemmeno un gameplay così scialbo a rappresentare il vero problema di Alan Wake?

Chi mi conosce sa che sono uno di quei videogiocatori che dà un discreto peso al comparto narrativo, e posso tranquillamente soprassedere su un sistema di gioco non fluido, non esaltante, non calibrato, ma funzionale. L’opera di Remedy potrebbe, dunque, rappresentare il classico caso in cui la mia latente natura da “storyfag” prende il sopravvento e mi fa chiudere un occhio sul lato ludico. Non è così, e il motivo ha radici ben più profonde del mero gusto. Introducendo uno dei miei mantra del mondo del videogame — sul quale un giorno potrei decidere di estendere il discorso in uno o più articoli capillari — il principale problema di Alan Wake è la totale disfunzionalità dell’elemento interattivo con il senso di fondo che Lake e collaboratori intendevano comunicare.

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Assediato da un taglialegna, che novità!

Quando si afferma comunemente che il videogame è il mezzo attraverso cui si realizza una “comunicazione continua” nel rapporto fra il giocato e il giocatore, si dice un qualcosa di ben più che ridondante. È ovvio che un videogioco è tale in quanto c’è “qualcuno che preme un tasto e gioca”; meno ovvio è affermare che mediante quella “pressione di tasti” viene a instaurarsi un “dialogo” che è all’origine della peculiarità del videogame, ossia una “trasmissione di senso attraverso l’interazione”. Sulla base di questa premessa, si capisce perché mi sia del tutto indifferente che un certo tipo di gameplay sia lacunoso, quando tuttavia riesce a essere piegato al senso che l’autore voleva trasmettere. È paradossale che proprio una premessa metodologica simile mi renda molto più suscettibile a dare centralità all’aspetto ludico, pur nel favore che accordo a esperienze più “impegnate” narrativamente.

Il titolo di questo speciale mette tra virgolette “gioco”. Non è casuale la sottolineatura, in quanto è proprio nella sua natura di “gioco”, ossia di oggetto che necessita della partecipazione attiva di un soggetto altro, che Alan Wake deficita: non come opera audiovisiva, non come storia, non come prodotto della creatività umana, ma in quanto gioco. L’opera Remedy del 2010, sia dalla sua estetica, che omaggia un (bel) po’ il Twin Peaks di David Lynch, sia dalla sua vicenda, che pesca a piene mani dall’opera di King e da In the mouth of madness di John Carpenter, è un racconto di follia e di maledizione, un viaggio oscuro nella psiche di un uomo, è un tormentato testamento di un autore e della sua fama.

Come tutto questo viene trasmesso da Remedy? Con infinite sequenze action a sparare taglialegna inferociti. Ah.

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La tavola calda di Twin Peaks riprodotta quasi 1:1.

Perché Silent Hill (1 o 2, è uguale) è un capolavoro? Non certo perché angoscia come poche cose, e nemmeno perché abbia di fatto creato, nel grande pubblico, un certo modo di intendere l’horror videoludico; nemmeno per l’uso del sonoro o la visionarietà di certe soluzione estetiche. No, Silent Hill è un capolavoro perché utilizza in maniera unica la caratteristica del videogioco (l’interazione) per veicolare la disperazione provata dall’uomo che deve affrontare i mostri che albergano nella sua mente. L’aspetto ludico al servizio del senso che si vuole comunicare.

Perché Alan Wake è un gioco mediocre? Perché il gameplay è totalmente avulso dal contesto di senso in cui è inserito, risultando non solo dunque “fuori luogo”, ma soprattutto totalmente inefficiente a coinvolgere il giocatore secondo le coordinate che il videogioco palesa di voler esprimere, ossia la lotta di Wake contro i propri demoni interiori. E, per giunta, è un gameplay anche mal pensato in sè! Le conseguenze di una simile manchevolezza sul lato ludico non sono semplicemente “intellettuali”, per così dire; anzi, si ripercuotono sensibilmente su come il giocatore approccia quelle sequenze di gioco. Quando il “gioco” è così scollegato dalla “storia”, l’esito inevitabile è che il giocatore viva con insofferenza le sezioni di gameplay effettivo, quasi come se fossero “tasse” da pagare prima di arrivare alla ciccia che interessa, la storia narrata (qualcuno ha detto Bioshock Infinite?). Questo è il fallimento più grande a cui può andare incontro un videogioco.

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E diciamocelo, anche la storia non era tutto sto granché.

Immaginate, allora, questo diverso Alan Wake, uno fra i molti possibili. Un gioco con tinte più riflessive, con un ritmo più lento, con marcata connotazione horror, la telecamera è più vicina alle spalle di Alan. Lo scrittore ha poche risorse, può il più delle volte nascondersi o fuggire, mentre i nemici — tutte figure inerenti elementi del suo passato e dei suoi libri — lo braccano. La torcia rimane un elemento di design e iconografico centrale, utile sia per allontanare i nemici che per rischiarare elementi dello scenario (l’ambientazione gioca un ruolo centrale), utili a chiarire i contorni della vicenda e a proseguire nel viaggio.

Lo state immaginando? Beh, siete appena stati i creatori mentali di un videogioco migliore dell’Alan Wake di Remedy.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.