Cronache dal Backlog — Dusk

Un ritorno al passato, con lo sguardo al futuro.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
6 min readNov 15, 2021

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A vedersi, Dusk sembra uno sparatutto uscito direttamente dagli anni ’90, eppure la sua pubblicazione risale appena al 2018.

Siamo del resto nell’era dei revival, dei ritorni al passato, della nostalgia. Tra le tante belle cose che il mercato degli indie ha portato al mondo dei videogiochi nell’ultimo decennio e oltre, un posto di rilievo spetta sicuramente al ritorno di correnti di design ormai lasciate indietro dal mercato tripla A. Abbiamo quindi assistito al proliferarsi di platform 2D e metroidvania, generi che 15 anni fa sembravano destinati a rimanere confinati sulle console portatili, mentre ora ne vengono sviluppati a dozzine ogni anno su ogni piattaforma possibile.

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Shovel Knight è praticamente un gioco NES sviluppato con una sensibilità più moderna.

Ma anche generi meno mainstream e accessibili come i gdr isometrici hanno comunque trovato nuova linfa vitale in fenomeni come il crowdfunding, che hanno mostrato l’esistenza di una fetta di mercato ancora più che interessata ad esperienze ispirate a classici come Baldur’s Gate, Fallout o Planescape: Torment, piuttosto che a esponenti più moderni e action come Mass Effect o The Witcher.

I generi si evolvono nel tempo, ma questo non significa necessariamente ci sia un processo di miglioramento lineare, anzi, più spesso che no si assiste a ramificazioni, nuove strade che sulle stesse basi costruiscono esperienze che possono non essere intrinsecamente né migliori né peggiori, solo diverse.

Tornando agli sparatutto in prima persona, risulta chiaramente evidente quanto siano cambiati dagli albori negli anni ’90 ad oggi. Già nel 1998 Half Life rivoluzionò la concezione di cosa potesse essere un FPS portando alla ribalta un tipo di esperienze più immersive e dal ritmo più rilassato, dal level design meno astratto e più concreto, atto a rappresentare spazi credibili piuttosto che del tutto piegati alle esigenze ludiche(non che sia stato il primo in assoluto, sia chiaro).

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Per gli sparatutto c’è senza ombra di dubbio un pre e un post Half Life.

In certi casi la ricerca di nuove strade può partire da un processo di semplificazione volto ad allargare il pubblico di riferimento, come è successo nel caso di Goldeneye 007 su Nintendo 64 e degli Halo su Xbox: giochi che hanno portato significative innovazioni nel tentativo di tradurre un genere tradizionalmente legato al mondo PC — e quindi pensato per essere giocato con mouse e tastiera — su console e con un controller. Qualche anno dopo era il turno di Call of Duty 4: Modern Warfare, che con la sua incredibile popolarità sanciva definitivamente il trionfo del modello di shooter lineare e scriptato, riprodotto fino alla nausea negli anni seguenti.

Per tutti questi motivi, sembravano ormai destinati al reame dei ricordi i tempi di DOOM, Quake e Duke Nukem, quegli FPS caratterizzati da movimenti fulminei, ritmi forsennati, level design labirintici e segreti in ogni dove. Questo almeno fino a qualche anno fa, quando è esploso il fenomeno dei cosiddetti “boomer shooter”, sparatutto “nostalgici” che si propongono proprio di strizzare l’occhio ai fan dei sopracitati classici riproponendone tanto l’estetica low-poly quanto il game design, rigettando i decenni di cambiamenti intercorsi.

Se il rischio di tali operazioni nostalgia è certamente quello di proporre giochi fuori tempo massimo, che si limitano a scimmiottare il passato senza avere niente di nuovo da dare e da dire, a volte ne viene fuori qualcosa che è capace di ritagliarsi un’identità propria al di là delle influenze. È il caso di Dusk, lo sparatutto firmato da David Szymanski e pubblicato da New Blood Interactive.

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Volendo identificare la principale influenza sull’opera di Szymanski, il primo indiziato non può essere altro che Quake, l’originale del 1996 (l’unico bello insomma, coff coff). La filiazione dal cult id software si intravede tanto nell’estetica poligonale e nel “gibbing” (quella deliziosa tendenza dei nemici a esplodere in mille pezzi sanguinolenti alla morte), quanto soprattutto nel gameplay. Quest’ultimo riprende la lezione di Quake mettendo al centro di tutto una velocità di movimento fulminea, tanto che venendo da un FPS moderno la sensazione che si ha è di star giocando a velocità raddoppiata.

Il risultato è un’esperienza di gioco galvanizzante, in cui al giocatore è richiesto di prendere decisioni in una frazione di secondo, giostrandosi tra la pioggia di proiettili sparati dai nemici. Un aspetto importante di Dusk, infatti, è che nel suo piuttosto variegato cast di nemici esclude del tutto le armi hitscan, optando invece per avversari dagli attacchi puramente “projectile-based”, ovvero con colpi chiaramente visibili e schivabili (alcuni che è persino possibile respingere al mittente, col giusto tempismo), scelta che accentua ulteriormente l’importanza della mobilità e spinge il giocatore a non stare mai fermo.

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I piccoli capitomboli di Dusk risiedono principalmente nella gestione dell’arsenale e nelle boss fight: se infatti il feeling delle armi da fuoco a disposizione è eccellente, la loro varietà e creatività non lo è altrettanto, il che può lasciare un po’ l’amaro in bocca; allo stesso modo se il design dei nemici è generalmente di ottimo livello, lo stesso non si può dire per quello dei boss (che a essere onesti sono un po’ un tallone d’Achille del genere tutto).

Dove invece Szymanski mostra tutta la sua creatività, e dove la sua opera riesce a ritagliarsi davvero un’identità propria e unica, è nel design dei livelli, che riescono spesso a sorprendere il giocatore con trovate inaspettate. Se nei primi livelli, più tradizionali, a farla da padrone è il realismo delle geometrie degli edifici e delle paludi in un immaginario alla Texas Chainsaw Massacre, man mano che si va avanti il gioco si inoltra più nel surreale, sia nell’estetica che nella struttura dei livelli. Come non menzionare Escher Labs, un livello che inizialmente appare più che altro un omaggio alla Black Mesa di Half Life, ma che ben presto inizia a sfociare totalmente nel surrealismo, a giocare con le prospettive e le geometrie impossibili, lasciando il giocatore completamente spaesato.

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Una chiara citazione a un capolavoro del level design surreale: la missione The Sword di Thief (1998)

Dusk è riuscito spesso a spiazzarmi non solo per la struttura dei livelli, ma anche per la diversità di scopi che questi si propongono di raggiungere.

Normalmente in un FPS, come più in generale in un gioco d’azione, l’esperienza che si cerca di suscitare nel giocatore è di empowerment: lo scopo è farlo sentire potente, gli ostacoli e i nemici sono lì per spingerlo a padroneggiare i sistemi di gioco e dominarli, ottenendo gratificazione. In Dusk abbondano livelli di questo tipo, come Erebus Reactor o Dweller in the Darkness, vere e proprie botte di adrenalina, accompagnati dalle incalzanti musiche di Andrew Hulshult.

Poi, però, improvvisamente il gioco sfila il tappeto da sotto i piedi e cambia faccia, mettendo il giocatore in posizioni di parziale e momentaneo disempowerment, magari chiudendolo in un luogo buio, senza torcia e con nemici che sembrano usciti direttamente da un survival horror. La capacità di Szymanski di bilanciare queste due anime, passando da un’elettrizzante scontro in cui si sfreccia ad alta velocità tra decine di nemici a un teso avanzare in un cunicolo buio, con il respiro di un Wendigo dietro al collo, è encomiabile.

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Queste sezioni danno inoltre modo di brillare all’eccellente sound design del gioco e alla poliedricità di Hulshult, che riesce ad adattare egregiamente la colonna sonora alle diverse situazioni con tracce variegate, ma sempre memorabili.

Il debito di Dusk con gli sparatutto anni ’90 che omaggia è palese, ma l’opera di Szymanski dimostra di avere le idee giuste per ritagliarsi un posto tra i classici del genere, senza doverli guardare dal basso verso l’alto. Dimostra anche le potenzialità del rivolgersi al passato, non per limitarsi a scopiazzarlo, ma per usarlo come base da cui imparare e su cui costruire. Perché non tutto ciò che è stato lasciato indietro merita di essere dimenticato.

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