Un mondo di mondi aperti — Parte 1

Storie dimenticabili e distese infinite.

Fabrizio "Bix" Salis
Frequenza Critica
10 min readSep 14, 2020

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la sagoma di Arthur Morgan a cavallo in Red Dead Redemption 2

Nell’ultimo decennio siamo stati letteralmente invasi dagli open world, intere aziende devono la gran parte del loro successo a questa formula e sembrano incapaci di dedicarsi ad altro. Il termine open world non può essere utilizzato per indicare un genere specifico, quanto per individuare una sorta di intelaiatura di base sulla quale poi ogni sviluppatore dà vita alla sua creatura, che si tratti di un gdr, di un action puro (esistono ancora?) o di un automobilistico. Eppure, nonostante l’enorme varietà di approcci all’open world, questa impalcatura si rivela molto spesso scricchiolante, se non del tutto inutile.

In molti casi ci si ritrova a essere esaltati nelle prime fasi di gioco, ma poi andando avanti il castello di carte è quasi sempre condannato a crollare disastrosamente. Per fare un esempio pratico, chi non è rimasto senza fiato quando è uscito dalla prigione di Oblivion? Fino a quel momento non si era ancora visto un gioco capace di mostrare la grandiosità del suo mondo fin quasi dal primo momento: il panorama che si pone davanti a noi una volta usciti dalla prigione è sterminato e completamente aperto, possiamo andare dove ci pare senza limiti, o quasi. Bastano però poche ore per capire che quella libertà non è così soddisfacente come si può pensare.

panorama in Oblivion

In questi articoli cercherò di trattare i principali punti deboli dei giochi a mondo aperto, proponendo esempi tanto positivi quanto negativi e cercando di formulare proposte per migliorare i suddetti giochi. Non ho ovviamente pretese di assoluta oggettività e onniscenza — anche se ho completato il primo Two Worlds senza barare, e qualcosa deve pur significare— , lo scopo è piuttosto quello di offrire qualche spunto di discussione.

Perché senza la discussione Frequenza Critica non esisterebbe. Se no per quale ragione siamo su Discord?

Iniziamo.

Una narrazione complicata

Apro con quello che è il tema che personalmente ho più a cuore; si tratta forse del problema più diffuso e più lontano dall’essere risolto. Se in alcuni casi si nota una più o meno evidente incapacità di raccontare una storia nel modo giusto, in tanti altri non si riesce neanche a creare qualcosa capace di mantenere un filo logico dall’inizio alla fine. Qui mi sto riferendo in particolare (ma non solo) a numerose produzioni Ubisoft, tra le quali trovo davvero complicato trovarne una anche solo vagamente interessante dal punto di vista narrativo. Penso che con i recenti Far Cry 5 e Assassin’s Creed: Odyssey si sia raggiunto un picco negativo non indifferente, col primo che addirittura interrompe brutalmente l’esplorazione per portare avanti la (mediocre) narrazione.

combattimento in Far Cry 5

Le questioni da affrontare sono sostanzialmente quella del ritmo e della frammentazione narrativa: una storia, per funzionare a dovere, ha bisogno di un suo ritmo, delle sue accelerazioni e dei suoi momenti di calma, dell’approfondimento dei personaggi e del luogo in cui essi agiscono. Mantenere un ritmo giusto è complicatissimo anche se si sceglie la via della linearità, figuriamoci quando il giocatore stesso può decidere arbitrariamente di spezzarlo.

Quello che spesso si percepisce è un mancato senso di urgenza, soprattutto in prossimità del climax della storia. Sarebbe a dir poco rivoluzionario creare un gioco dove le conseguenze derivano non solo dalla scelta, ma anche dalla non scelta, dal decidere di tergiversare. Esempi in contesti diversi se ne trovano, basti pensare al limite di tempo di Fallout e, in misura minore, alla fase finale di Mass Effect 2. Non deve per forza essere cercata una soluzione punitiva, ma piuttosto una che dia l’impressione che l’universo di gioco esista in maniera indipendente dall’utente. Sulla questione della dinamicità degli open world tornerò più avanti.

Red Dead Redemption 2 tenta di risolvere il problema piegando spesso il gameplay alla storia, a costo di far cozzare tra loro le due componenti. L’enorme livello di coinvolgimento offerto durante le fasi esplorative va a perdersi in missioni di stampo cinematografico ricche di spunti narrativi, ma anche estremamente lineari e piene di costrizioni; non fa mai piacere vedere un messaggio di game over solo perché si è usciti di una manciata di metri dal sentiero predeterminato. Sembra quasi di vedere due giochi diversi messi insieme e mal amalgamati, in questo Rockstar deve ancora migliorare parecchio.

Da lodare è invece la capacità del gioco di aprirsi in maniera progressiva e (quasi) mai forzata sulla spinta degli spostamenti a cui la gang di Arthur Morgan è costretta. Red Dead Redemption 2 è dotato di quello che mi piace definire “senso del viaggio”, con lo spostamento che diventa naturale e integrato nel flusso narrativo, non un semplice intermezzo tra le attività o i “pezzi” di storia.

Arthur Morgan e la banda di Dutch in Red Dead Redemption 2

Si potrebbe avere l’impressione che la trama si sviluppi troppo a compartimenti stagni, quasi come se avessimo a che fare con gli episodi di una serie TV. Non è del tutto falso, ma il senso della narrazione si trova nell’evoluzione (o involuzione) del protagonista e nella progressiva disgregazione del suo gruppo e non negli eventi per se stessi, per cui il peso di questa struttura non si sente minimamente.

Un esempio per certi versi simile lo troviamo nello sfortunato (e mai troppo lodato) Fallout: New Vegas. Il titolo Obsidian è formalmente aperto come l’episodio che lo ha preceduto, perché possiamo in linea teorica andare dovunque fin da subito, senza limitazioni fisiche, ma in realtà l’approccio è ben diverso: posizionando dei nemici fortissimi sulla strada diretta per New Vegas, lo sviluppatore costringe il giocatore a fare il giro lungo per arrivare dal Sig. House.

Questo non solo conferisce alla produzione quel senso del viaggio di cui ho parlato prima, ma permette anche di costruire l’ambientazione e la narrazione in maniera progressiva e controllata, il tutto senza dare al giocatore l’impressione di avere tra le mani un gioco lineare sotto mentite spoglie. Nella fase iniziale gli viene infatti data la possibilità di fare deviazioni più o meno importanti, che assumono maggiore coerenza perché non esiste una qualche minaccia incombente a cui bisogna reagire. Insomma viene eliminato quasi del tutto il senso di urgenza della storia invece di cercare qualche complicato modo per potenziarlo. Quando poi arriviamo in città la struttura narrativa cambia, il mondo si apre e i costanti spostamenti da una parte all’altra della mappa di gioco diventano il fulcro stesso delle vicenda.

Possiamo estremizzare ancora di più le idee dietro a New Vegas e iniziare a farci una domanda: siamo davvero sicuri che sia necessaria una trama principale? Perché non rendere un mondo aperto realmente tale e rinunciare alla via maestra, permettendo al giocatore di forgiare davvero il suo destino? Tante storie più o meno grandi che permettono di creare un vero e proprio affresco, senza la necessità di un minimo comune denominatore. Si tratta di una soluzione usata in alcuni MMORPG più o meno recenti, ma che in ambito single player non sembra essere presa realmente in considerazione. Non è un caso probabilmente, perché in un gioco online sono i giocatori che contribuiscono a dare realmente vita a un mondo e a scriverne la storia, mentre in singolo sarebbe necessario un livello di dinamismo controllato dal computer decisamente elevato.

artwork di Fallout New Vegas

Prima di passare al prossimo punto ci tengo a precisare che tutto questo discorso non sta a significare che un open world debba necessariamente avere una componente narrativa significativa. Ci sono alcune produzioni a cui semplicemente non serve, e in alcuni casi può anche essere dannosa. Un Just Cause avrebbe qualcosa in più da dire se la storia fosse più presente? Non credo.

D’altro canto sono parecchi i giochi che ci tempestano di filmati, dialoghi e interruzioni varie durante il gameplay per poi non dire assolutamente niente di interessante.

La gestione degli spazi

Ogni volta che esce un nuovo open world la campagna pubblicitaria non può fare a meno di affermare fieramente che è X volte più grande del predecessore o dei concorrenti, come se fosse un qualcosa di necessario, per non dire inevitabile. Gli open world stanno diventando troppo grandi, e lo fanno solo per questioni di marketing e non perché le loro dimensioni hanno un qualche significato.

C’è solo un modo per ampliare sempre di più le dimensioni: farlo fare a un computer. E così ecco arrivare strumenti come SpeedTree, capaci di ridurre notevolmente la necessità di un intervento umano e, di conseguenza, i costi. È il proverbiale cane che si morde la coda: le dimensioni continuano a crescere ed è sempre più difficile evitare di usare software appositi, che a loro volta stimolano un ulteriore aumento dell’estensione delle mappe. Quella degli alberi può sembrare un’inezia, ma il discorso è più complesso di così: quando proviamo ad orientarci in un ambiente, un albero particolare può essere un fondamentale punto di riferimento, nonché un elemento distintivo di una zona che contribuisce a renderla memorabile.

panorama dell’Appalachia in Fallout 76

Oltre a far presente la questione del tempo e delle risorse necessarie per creare un mondo interamente a mano, si potrebbe obiettare che una generazione almeno in parte automatica è per certi versi più simile alla realtà, perché la natura “lavora” in maniera casuale, non in base alla comodità degli esseri umani; lo sviluppatore che posiziona manualmente ogni elemento, viceversa, rischia di dare vita a qualcosa che il giocatore può percepire come finto. È una questione senza dubbio interessante, ma la mia posizione è che stiamo parlando di videogiochi, per cui il realismo assoluto non è necessario. Se cerco qualcosa di diverso allora mi rivolgo a prodotti come il recente Flight Simulator, che riproduce l’intera superficie terrestre utilizzando Bing Maps, la fotogrammetria e un’intelligenza artificiale (e devo ammettere che il risultato finale è davvero incredibile).

In molti casi non si tratta di riprodurre dimensioni realistiche, quanto credibili e proporzionate. La Novigrad di The Witcher 3 e la Los Santos di GTA V hanno una superficie ragguardevole, ma — soprattutto nel secondo caso — non paragonabile alla controparte reale. Eppure non si ha mai l’impressione di trovarsi in una città in miniatura. Il merito va alla cura maniacale con cui ogni zona dei due centri abitati è stata realizzata e al fatto che le dimensioni sono coerenti con le zone che le circondano.

Più in generale, si può far sembrare un’ambientazione più grande di quello che effettivamente è rendendone la navigazione non lineare. Questa è un’arte che è stata perfezionata nel corso degli anni da Piranha Bytes e che ha raggiunto l’apice con Gothic 3, titolo parecchio problematico ma con quello che ritengo essere uno dei mondi videoludici geograficamente più stimolanti di sempre. Una produzione che arrivava quasi in contemporanea a Oblivion, caratterizzato invece da una geografia molto piatta e da un abuso strutturale del viaggio rapido che ne frustravano la componente esplorativa. Tornerò sulla questione nella seconda parte di questo speciale.

piazza del gerarca di Novigrad in The Witcher 3

Molto spesso si ha l’impressione che le dimensioni di una mappa siano decise a priori, invece che in base al tipo di gioco che si sta realizzando. Se si vuole puntare su esplorazione e scoperta bisogna fare moltissima attenzione a non esagerare: l’attenzione del giocatore deve rimanere sempre elevata perché possa effettivamente “vivere” il mondo che lo circonda e quando le dimensioni si dilatano è molto più complicato raggiungere tale obiettivo.

Un gioco come Outer Wilds non sarebbe altrettanto efficace se non fosse di dimensioni (relativamente) limitate e realizzato interamente dalle sapienti mani dello sviluppatore. Viceversa, gli infiniti pianeti generati proceduralmente di No Man’s Sky, nonostante le promesse, non riescono a suscitare un senso di meraviglia che vada oltre qualche bel panorama che pare preso di peso da illustrazioni fantascientifiche d’altri tempi. A diversi anni dall’uscita e dopo moltissime ore di gioco, sono arrivato alla conclusione che il peccato originale di Hello Games è stato quello di non decidere mai veramente se la sua creatura era un gioco di esplorazione spaziale o uno incentrato su crafting e sopravvivenza (che in linea generale necessita meno di una mappa strutturata). Il risultato è stata un produzione insoddisfacente da entrambi i punti di vista.

In un titolo automobilistico, dove si sfreccia in giro a grande velocità e il mondo è più uno sfondo, le limitazioni dimensionali sono meno rilevanti, a patto che si riesca a mantenere un colpo d’occhio di livello e una grande varietà geografica e di strade percorribili. Forza Horizon 4— probabilmente il migliore esponente del genere di questa generazione — riesce alla perfezione in ciò, ma i suoi limiti si fanno sentire quando si esce fuori dal tracciato per cercare auto segrete e cartelloni. In quelle situazioni ci si ritrova a girare in zone piuttosto ampie e non particolarmente caratterizzate, davvero tediose da controllare palmo a palmo. Ma è solo il pelo nell’uovo in un gioco altrimenti fantastico.

McLaren Senna in Forza Horizon 4

Si chiude così questa prima parte dello speciale dedicato agli open world. Nella prossima affronterò una serie di questioni strettamente correlate con quanto trattato in questo primo spezzone, esplorazione e spostamenti in primis.

Ci leggiamo tra un paio di settimane.

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