Un’esperienza di Pathologic — ANTITHESIS

Le linee della terra scarlatta di sangue.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
8 min readFeb 24, 2021

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Cominciare una nuova partita. Davvero sto per farlo? Mi sono trascinato, con Daniil (ne parlo quì), fino al dodicesimo giorno, senza avere nemmeno la forza residuale di spingermi nel Poliedro, ad ascoltare quello che le Autorità avevano da dirmi. Perché, dunque, sono di nuovo qui, di fronte a questo palco?

Eccoli ancora, i tre che discutono sugli avvenimenti che graveranno sulla contrada in 12 giorni. Assisto come uno spettatore pagante alla medesima scena, prima di dirigermi all’uscita laterale. Che il sipario si alzi, di nuovo.

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Riluttante, Artemy Burakh posa un piede sul suolo natio, appena giunto con l’ultimo treno arrivato in stazione. Artemy ha studiato la scienza medica e la chirurgia, ma i suoi interessi e la sua provenienza socio-familiare lo hanno portato, sin da giovane, ad approfondire la cultura e le usanze dei popoli della zona. In molti, per questo, lo hanno preso a chiamare “Aruspice”. Un uomo con le mani lorde di sangue e lo sguardo proteso al cielo. Mani appena irrorate di quello di un gruppo di uomini che per qualche strano motivo lo hanno attaccato, accusandolo di un assassinio.

Così inizia la mia nuova 12-giorni nella città, questa volta al fianco dell’Aruspice. Un principio molto più burrascoso di quello di Daniil, ma non per questo meno atteso. Burrascoso perché per la prima volta faccio i conti con un parametro finora piuttosto ignorato, la reputazione: in quanto ricercato, Artemy è attaccato a vista dai cittadini maschi ed evitato da donne e bambini, e non può intrattenere rapporti commerciali con nessun venditore. Una condizione disastrosa ma non sorprendente: finalmente capisco perché, nei panni di Daniil, avessi percepito questo odio nei suoi confronti. Ora ho la prova dell’infondatezza delle accuse di omicidio.

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Artemy Burakh.

Ma dell’omicidio di chi? Di nostro padre, anche lui appena deceduto così come il suo amico Simon Kain, “l’immortale”. Le mie prime ore nei panni di Artemy si concentrano proprio sul comprendere cosa sia accaduto a Burakh padre e a ripulire la mia reputazione. A tal fine, il videogame offre almeno due soluzioni: uccidere malviventi o compiere quest che ricompensino con un boost alla reputazione. La consapevolezza della planimetria cittadina e una maggiore propensione a risolvere i conflitti in maniera violenta (magari con una buona bocca da fuoco) capovolgono la mia percezione in questo secondo walkthrough.

È vero, il design cittadino continua a essere inutilmente irrisolto e i contrattempi si annidano fastidiosi e non sempre corretti a ogni angolo della strada; le barre all’angolo in alto a destra dello schermo sono ancora un perpetuo campanello d’allarme e la struttura di gioco rimane immutata nel suo tremendo ripetersi. Eppure qualcosa è cambiato in me.

Percorrendo il borgo con Artemy, comincio a ragionare su un equilibrio di gioco che è tanto fragile come carta velina quanto profondo nella capacità di stimolare il dissidio interno del giocatore fra ragioni utilitaristiche e dinieghi morali. Quei valori riportati sulla barra non sono isolati indicatori ma operano di concerto gli uni con gli altri, comportando la necessità di dover soppesare di continuo l’opportunità di aggravarne uno per beneficiare un altro. La necessità di porre rimedio a una situazione di difficoltà spinge sovente il giocatore a compiere delle scelte di “permuta” fra uno stato di pericolo pressante per uno meno “critico”. Pathologic spinge a far tesoro di ogni bene, giacché ciò che può valere poco per alcuni, può significare un tesoro per altri. Ad esempio, noci, braccialetti o rasoi possono essere offerti ai bambini che scorrazzano in strada in cambio di beni ben più costosi come farmaci e proiettili; dell’acqua, invece, può essere scambiata con gli ubriaconi in cambio di preziosi emostatici e kit di cura. Pure la limitatezza dell’inventario assurge a fattore decisionale non da poco.

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“Sappiamo tutto di te…”

Questo bilanciamento costante di priorità deve rapportarsi con l’unica “moneta” non fungibile, il tempo: entro la mezzanotte le quest giornaliere (main o side che siano) vanno completate, pena il fallimento delle stesse e l’impossibilità di ottenere premi (che potrebbero essere vitali per la sopravvivenza), o la morte di un personaggio centrale. E, in base all’orario (così come in relazione al tasso di infezione del quartiere), diverse sono le tipologie di cittadini rinvenibili: è inutile andare in cerca di bambini una volta scoccata la mezzanotte, così come vano sarà vagare in un quartiere infetto nella speranza di incontrare donne o uomini.

Non solo esiguità di risorse, priorità vitali e tempo che scorre inesorabile: anche il freno morale può confluire nei fattori alla base di una decisione. Siamo disposti a irrompere in un’abitazione per razziarne le preziose risorse o, addirittura, per ucciderne gli abitanti e depredarli? Per la nostra sopravvivenza (che riteniamo necessaria per salvare la città) siamo pronti a stroncare la vita di un bambino? Quesiti ancora più febbrili sapendo che, per ogni azione delittuosa, la barra della nostra reputazione cala. Ancora una volta Pathologic mette in campo il proprio diabolico equilibrio di gioco.

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Nei quartieri ammorbati non sarà possibile trovare normali cittadini con cui intrattenere rapporti di scambio, piuttosto vagheranno appestati con intenti non amichevoli.

Artemy è un outcast. Se Daniil bazzicava soprattutto i salotti aristocratici della città, l’aruspice frequenta i confini del borgo, laddove gli edifici abitativi lasciano spazio ai grandi conglomerati in lamiera delle fabbriche, e poi le vaste e uniformi distese steppose. I suoi “seguaci” sono perlopiù alcuni rilevanti bambini, figure che in questa opera sembrano dire sempre meno di quello che sanno e sapere più di quello che dovrebbero; e poi c’è la famiglia Olgimsky, una delle tre contendenti al dominio cittadino e proprietaria del grande Mattatoio che domina la skyline.

In questo mio secondo passaggio nei panni di Artemy, i personaggi che colorano Pathologic brillano di una luce diversa. Reticenze, antipatie, menzogne, misteri e azioni: guardando il tutto da una prospettiva diversa, se non opposta, ciò che prima difettava di senso ora diviene più intellegibile, più comprensibile. Nuovi pezzi di psicologia, nuove porzioni di background personale, nuovi stralci di storia arricchiscono il quadro di ciascun individuo.

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Vlad Olgimsky.

Prendiamo Vlad Olgimsky (Big Vlad), ad esempio. Se nella mia prima esperienza non potevo non certificare una malcelata antipatia nei confronti di Daniil, di modo che il patriarca Olgimsky risultasse ai miei occhi un personaggio mellifluo, elusivo, maligno; ora, invece, di fronte ad Artemy, la sua indole mi appare opposta: premuroso, comprensivo, propenso al sacrificio. Il suo astio nei confronti di Daniil aveva ragioni ben più profonde della semplice spocchia. Medesima epifania coinvolge eventi o azioni che, prima facie, risultavano inesplicabili, mentre ora, scrutandoli da un punto di vista differente, si incastonano in motivazioni e cause prossime ragionevoli. Pathologic permette di rileggere avvenimenti e di riconsiderare ciò che veniva dato per assodato, che si tratti della responsabilità per gesti compiuti o di personalità caratteriali.

Anche l’ennesima lunga incamminata per i medesimi percorsi sembra ora accorciarsi nella mia percezione. Anzi, la diuturnitas delle azioni mi appare preordinata alla possibilità di riconsiderare gli avvenimenti alla luce della rinnovata consapevolezza degli stessi. L‘equoreo ripetersi di quegli incamminamenti mi permette di riannodare i fili di una storia che, nel suo infittirsi, tuttavia si rischiara passo dopo passo.

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Un Verme.

Artemy ha ricevuto un’eredità dal padre; un’eredità che lo lega ai popoli della steppa che preesistevano al sorgere della grigia cittadina. Nel suo sangue scorrono secoli di adorazione di idoli naturali e sacralizzazione della terra; il sangue e la terra sono avvinti da un legame indissolubile che ora riaffiora, come le piante che germogliano nelle vaste distese ai confini del borgo. I “Vermi”, così sono chiamati, sono figure antropomorfe che abitano nella steppa, accompagnati da ancelle devote alla terra, e raccolgono queste erbe dal multiforme utilizzo. Nella loro visione del mondo, la terra è un gigantesco agglomerato di carne, sotto la cui superficie scorrono fiumi di sangue che nutrono il suolo e permettono l’affiorare delle prodigiose piante: il loro compito è prendersi cura della terra, irrorandolo di nuova linfa — sangue — e raccogliendone i frutti. I “Macellai”, invece, sono gli unici deputati ad “aprire” i corpi (pratica, altrimenti, assolutamente vietata in città), in particolare quelli dei tori, bestie venerate.

Sangue, terra, corpi. In qualche modo Artemy sa che la soluzione ai mali della città si situa in una dimensione prossima a questi elementi; e c’è un unico luogo che li raccoglie tutti: il Mattatoio. Questa struttura si erge gargantuesca sulla città, come un inconcepibile bubbone di carne, una protuberanza nella quale grandi quantitativi di carcasse di toro finiscono per essere macellate. I popoli della steppa vi sciamano, unici deputati alle azioni ivi compiute, unici officianti di riti celebrati dalla notte dei tempi. Li capeggiano due figure: una bambina (ancora un’esponente di queste figure mediane) e un sacerdote. Artemy è l’erede designato, ma deve superare le loro prove.

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Uno degli ingressi per il Mattatoio.

Se Daniil mirava alla creazione di un vaccino, Artemy crede che le erbe che nascono su quel terreno scavato da linee invisibili siano la vera soluzione: una mistura definitiva produrrà una Panacea. E Klara, il santo demonio? Il suo pensiero sembra trascendere facili ipostatizzazioni, la sua stessa posizione sembra variare. Non c’è tempo per correrle dietro, i 12 giorni stanno per estinguersi.

Negli anfratti oscuri della terra, nelle cavernose voragini che si aprono nel suolo, nei fluidi che scorrono come fiumi nei canali erosi nella roccia, lì deve nascondersi l’origine del male, così pensa Artemy. Il corpo è stato violato, come se un agente patogeno esterno vi avesse fatto accesso da una ferita sulla pelle. Ma cosa è stato? I popoli della steppa non hanno dubbi: la struttura spiraliforme che si protende verso il cielo.

Giunti alle soglie del dodicesimo giorno, il proposito è chiaro: occuparsi del Poliedro. Né Daniil (lo so bene) né Klara sono d’accordo, ma l’aruspice ha preso la sua decisione. Tuttavia, questa volta, decido di ottemperare alla richiesta di comparizione da parte delle Autorità (le quali, nella mia partita con Artemy, sono rimaste finora silenti). Penetrerò nel Poliedro un’ultima volta per incontrarle.

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Con estremo sbigottimento mi accingo a impartire l’ordine risolutivo al Generale. Prima, però, non posso fare a meno di rendicontare Daniil sulla mia audizione — ma mi risponde con il suo solito sdegnoso razionalismo; non posso fare a meno di confidarmi con Klara. Che sapeva già tutto.

Chi è Klara?

Anticipazioni:

L’ultimo confine è stato alfine valicato. Daniil e Artemy assistono, attoniti, alla distruzione di un luogo che non è mai esistito, mentre dal ventre della terra una ragazza alza lo sguardo al cielo per la prima volta. Le sue mani creeranno un ponte fra realtà inconcepibili o disgregheranno un mondo di sogni infantili? Questo e altro nel prossimo atto intitolato “SYNTHESIS — Or Knockin’ on Heaven’s Door”.

L’emozione continua per un’ultima volta!

P.S. Secondo hiatus, seconda parte dell’articolo di Rock Paper Shotgun!

[Oppure all’ultimo atto di “Un esperienza di Pathologic”]

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.