Un’esperienza di Pathologic — THESIS

I bambini dimorano nelle lanterne magiche.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
9 min readFeb 8, 2021

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Voglia il lettore perdonarmi l’incipit fortemente autoreferenziale. Ormai svariati anni fa, scrissi e pubblicai su un fossile di blog (credo, peraltro, ancora online) un componimento che recava il nome “Dialogo di un automa e il suo creatore”. Come i più solerti colleghi topi di biblioteca fra di voi avranno da subito intuito, era uno scritto che prendeva a piene mani, tanto nella forma quanto nell’humus tematico, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi. Immaginavo che una macchina senziente avesse preso coscienza e si trovasse a confrontarsi con il proprio costruttore nel momento in cui quest’ultimo approntava gli ultimi accorgimenti. Potete immaginare il tenore delle domande che il robot rivolgeva al suo demiurgo. Questi quesiti incalzavano sempre più, fino a quando, posta una domanda evidentemente eccessiva per il creatore, quest’ultimo sceglieva di resettare l’automa e riprendere da capo.

Sono tornato con la mente a quel mio contributo giovanile nel momento in cui mi accingevo a terminare la mia esperienza con Pathologic, videogioco dell’ormai lontano 2005, assurto tuttavia a cult nel corso degli anni. L’opera di Ice-Pick Lodge è un provocatorio gioco di scatole cinesi, immerso nelle nebbie di una scrittura elusiva e trasmesso nelle forme di un survival game tanto raffinato quanto straziante (non in senso positivo) nella sua esecuzione. In fondo sono proprio questi i due elementi che hanno maggiormente caratterizzato la mia esperienza con questo indie dalla terra di Tarkovskij e Gogol.

Da una parte il disinteresse quasi provocatorio del titolo ad accalappiare l’attenzione del giocatore, e a coinvolgerlo mediante un’azione ludica gratificante; dall’altra una gestione del materiale narrativo sconcertante per consapevolezza e lassismo espositivo.

Per questi motivi, ritengo che un movimento dialettico integrerebbe ben due finalità. Da una parte, riuscirei in maniera efficace a raccontare il mio rapporto con l’opera (capovolgendo la prassi secondo la quale si ha esperienza di un qualcosa per infine parlarne; io, invece, ne parlo al fine di raccontare della mia esperienza), dall’altra, sarei fedele alla maniera con cui Pathologic decide di “mostrarsi” al giocatore.

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Allora, ecco che tre individui discutono su un palco, dinnanzi a un proscenio ritraente una grigia cittadina abbarbicata sul dorso di una collina. Tre individui consapevoli che uno spaventoso morbo sta incombendo e flagellerà per 12 giorni quella grigia cittadina. Tre individui che vogliono salvare la grigia cittadina, ciascuno a modo suo. Si alzi il sipario.

Daniil è uno studioso, un uomo di scienza, giunto in città per tentare di portare a termine l’impresa ultima: sconfiggere la morte. Per farlo intende studiare un uomo che si ritiene immortale; sennonché gli viene riferito che, proprio quel giorno, l’uomo immortale è morto.

Comincia così il mio peregrinare fra “ossa, arterie e tendini”, un inesauribile andirivieni fra abitazioni da un gusto architettonico indecifrabile. La città è un intricato dedalo di viuzze malamente collegato: è praticamente impossibile percorrerla senza avere sotto mano la mappa. Non tanto per la vastità della planimetria cittadina, quanto per la presenza soverchiante di vicoli ciechi e barriere artificiali che si frappongono alla mia traversata. Daniil ha fretta ma la sua falcata non è poi così precipitosa. Spesso, e soprattutto nelle prime ore, quando siamo ben lungi dall’aver familiarizzato con l’urbanistica cittadina, ci si imbatte in ostacoli o divisori che sembrano esser stati posti dai designer con il preciso scopo di scoraggiare o canzonare il giocatore: un’apertura che conduce a un parco recintato del tutto inutile e senza un secondo sbocco, una viuzza che conduce a uno spazio invalicabile fra due palazzi. Diventa presto chiaro che farsi guidare dal senso di orientamento è solo una perdita di tempo; e il tempo è l’unica cosa di cui non si può fare scorta, avanza inesorabile.

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Daniil Dankovsky.

Poche altre esperienze, nella mia pur selettiva carriera videoludica, hanno messo così a dura prova la saldezza del mio ideale di “portare in fondo qualsiasi videogioco”. Pathologic sfibra la resistenza mentale dell’utente; e lo fa attraverso una ridondanza dei compiti (per giunta spesso inesplicabili nella loro rilevanza narrativa) e dei modi con cui eseguirli, esacerbati ancor più da una navigazione controintuitiva della città. Ben presto prendo a riconoscere, pur nella omogeneità nauseante di vie ed edifici, i percorsi ottimali (se non, in concreto, unici) attraverso cui raggiungere gli hotspot del tessuto cittadino. Pathologic allora si srotola, ai miei occhi, in tutta la sua “sostanza”: si tratta di incamminarsi dal punto A al punto B, ancora e ancora, giorno dopo giorno, sempre per i medesimi percorsi.

Poi esplode la peste. E il percorso che collega A e B si lastrica di contrattempi, di pericoli. Non si tratta di eventualità, bensì di una certezza, quella di rimanere infettati; l’immunizzazione cala inesorabile, l’infezione, invece, ha una curva esponenziale. Al contempo la fame è una mia nefasta compagna di cammino e i soldi, fra mezzi di difesa, cibo e farmaci, sono sempre inadeguati. La barra della salute si restringe al diffondersi della malattia nelle mie cellule. Nel frattempo, di notte o nei quartieri ammorbati, malviventi e sciacalli si aggirano, pronti a farmi la pelle. Combatterli è possibile, ma le munizioni sono più esigue dei farmaci, e usare le armi bianche è sconsigliabile, dato che il semplice parlare dell’esistenza di un combat system per Pathologic equivale a un complimento immeritato. Il tempo avanza.

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Dare a pugni è un tiro di dadi.

Non solo il tedio, anche la sofferenza monta come la furia a ogni morte ingiusta. Ma io e Daniil cosa stiamo perseguendo nel frattempo? Da una parte pare sempre più chiaro — è così? — che l’immortale sia morto per la piaga, dall’altra è deontologicamente necessario (e poi le Autorità così hanno impartito) che il forestiero, in quanto medico, trovi una cura per questa epidemia. In 12 giorni tutto sarà finito, mi viene detto allo scoccare della prima ora di ogni nuovo giorno: tocca muoversi. I miei “seguaci” (dei cittadini particolarmente rilevanti che mi è stato detto di proteggere, a qualunque costo) sono perlopiù individui dell’alta società, benestanti, invischiati in lotte di potere — ben tre famiglie anelano al controllo cittadino. Io mi prodigo alle loro richieste (spesso imperscrutabili), sebbene non mi fidi di tutto ciò che macchinano. Al contempo, porto avanti la mia ricerca per la creazione di un vaccino, di concerto con uno studioso del luogo.

Non sono l’unico che si dà da fare per la città. Anche Artemy e Klara sembrano impegnati a debellare il morbo; però il primo viene dipinto come un assassino, per giunta ricercato, la seconda invece additata alternativamente come una santa o come un demonio delle steppe. I miei incontri con loro sono sempre interlocutori ma non me ne do molto cruccio: ho priorità e scadenze troppo pressanti.

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Maria Kaina. Molto ruota attorno a lei, per ora.

Anche la sopravvivenza però diventa un impegno paritario alla salvezza della città, che nel mentre si ritrova sempre più invasa dalla peste. La mia salute è sempre manchevole, a ogni isolato una nuvola venefica (che, imprevedibile, spawna dal nulla) mi rincorre o un folle attenta alla mia vita, e la fame e la stanchezza (Daniil deve dormire regolarmente, pena un ulteriore decremento della salute) incedono senza pietà. Ora, al tedio e alla rabbia, si aggiunge il fastidio per una condizione del mio personaggio in perenne precarietà. Pathologic non dà scorciatoie, in ogni accezione. Che si tratti di un fumoso obiettivo o di un’esigenza vitale, il videogioco è muto di fronte al mio spaesamento. Le uniche alternative sono vagare in una zona imprecisata alla ricerca del soggetto o del luogo sommariamente indicati dalla missione; o improvvisare, barattando beni per altri beni, sperando nella fortuna di trovare un tozzo di pane sul cadavere del malvivente ucciso con tanta difficoltà. E il tempo avanza, ogni secondo è cruciale: chissà che non sia comunque troppo tardi.

Anche l’insofferenza si aggiunge al tedio, alla rabbia e al fastidio. Cosa diamine blaterano questi personaggi della città? Che senso hanno le parole che mi rivolgono e i compiti che mi impartiscono? Cosa sono quelle costruzioni paradossali? Il Mattatoio che svetta come un monte nella skyline del borgo, e quell’edificio spiraliforme e senza logica, chiamato Poliedro? Proprio su quest’ultimo costrutto paiono concentrarsi i miei sforzi, e per qualche motivo insondabile mi viene detto che la struttura abissale potrebbe essere all’origine del male che affligge la città. Così interrogo l’autore del Poliedro, un architetto da poco giunto in città; così decido di perlustrare l’interno del Poliedro.

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Il Poliedro.

Mi trascino con sempre maggiore difficoltà, all’avvicinarsi del dodicesimo giorno. La sopravvivenza è sempre più una questione di ottimizzazione dei tempi e ormai mi sento come un topolino instradato nel percorso da una mano aliena e invisibile. Il Poliedro, a questo punto, rappresenta la mia via d’uscita, il premio dopo tanto vagabondaggio. All’interno dello stesso, in una sciarada di geometrie non euclidee e cromie psichedeliche, risiede un vasto nugolo di bambini a guarnigione di verità insondabili. Nemmeno da loro riesco a ricavare deduzioni luminose; anzi, il loro intelletto appare ancora più rarefatto di quello degli adulti, come proteso ad altezze vertiginose. Pathologic sembra divertirsi a sfaldare le mie speranze.

Non potrebbe essere diversamente. Gli eventi e le parole pronunciate della grigia cittadina sfidano una percezione deduttivista della realtà, infrangono una comprensione empirica del mondo. L’intelletto razionalista di Daniil è destinato a scomporsi contro le vette di metafisica contemplazione che la città richiede. Il suo sconcerto è il mio sconcerto.

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I bambini all’interno del Poliedro.

Giunge, infine, l’ultimo rintocco della mezzanotte. Con la volontà residuata da quei dodici giorni estenuanti compio gli ultimi preparativi per un piano tanto chiaro nei suoi esiti prossimi quanto oscuro sulle ragioni remote. Artemy e Klara sono giunti a conclusioni diverse, ma a me non interessa: a ragione o a torto, quella torre impossibile è il mio faro intermittente che fa capolinea in una oscura notte di burrasca. Daniel e io siamo, sia nel fisico che nello spirito, al limite.

Poco prima di dare il via agli eventi terminali, mi era giunta una richiesta, alquanto stramba, da parte delle Autorità: volevano incontrarmi nel Poliedro. Mentre scorrono i titoli di coda, non posso fare a meno di domandarmi: proprio nel Poliedro? Cosa volevano? Perché le Autorità si esprimevano in maniera così dissimile rispetto al passato? E i bambini?

Non ebbi la forza di trascinarmi fin lì. Tuttavia, nonostante la prostrazione, giunto ai titoli di coda, avvertivo che la mia esperienza non era ancora conclusa. Qualcosa mi spingeva a continuare.

Anticipazioni:

Un uomo giunge infine per fare i conti con il proprio passato. Tormentato da un’eredità paterna da cui non può svicolarsi, sarà braccato proprio da coloro che tenterà di salvare con tutte le proprie forze. Ed è così che, nell’ora più buia del giorno, proprio quel legato a lungo rimosso fungerà da panacea per il male della città e del proprio cuore. Cosa celerà il lugubre popolo della steppa? Quali segreti risiederanno nel ventre della montagna di carne? Di chi potrà fidarsi il giovane uomo, destinato alla scelta nel dì fatale?
Tutto questo e molto altro nel prossimo atto intitolato “
ANTITHESIS — Le linee della terra scarlatta di sangue”.

L’emozione continua!

P.S. Nell’attesa, potete consultare la prima parte di questo splendido trittico di articoli. Ancora il numero tre. Avete fatto caso a quante volte ricorra il tre anche in questo mio primo atto di tre?

[Oppure vai direttamente alla seconda parte e poi alla terza parte]

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.