Un’esperienza di Pathologic — SYNTHESIS

Or Knockin’ on Heaven’s Door.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
9 min readMar 8, 2021

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AVVISO ai lettori: quest’ultima parte contiene elementi di storia di Pathologic ben più rivelatori delle precedenti parti uno e due. Il contenuto, dunque, potrebbe considerarsi come SPOILER.

Un mondo finisce, così come erano terminati tutti i precedenti. Un nuovo mondo prende il suo posto, pronto a perpetrare la rappresentazione. Che cos’è la realtà?

“Quindi…dov’è il mio sogno?”

“Il tuo sogno è alla fine della realtà.”

“E la mia realtà…dov’è sparita?”

“Si trova alla fine del sogno.”

Klara si sveglia sormontata dalla bruna terra, ma i suoi occhi si posano prima di tutto sul cielo plumbeo, verso cui allunga l’esile mano.

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Arterie, ossa, tendini, tessuti. Sono i nomi dei quartieri della città appestata. Un organismo le cui membra stanno deperendo per il morbo. Il Grande Toro del Mondo su cui gli uomini poggiano i propri piedi.

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La realtà della carne, la realtà dei sensi. Le linee dell’epidermide solcano la terra e permettono agli aruspici di vaticinare i destini del mondo. Il sangue, il nutrimento della terra, scorre silente nel suo ventre, mentre nuovi sacrifici vengono immolati nel monte per ingrossare i letti dei fiumi color rubino. Il monte, il Mattatoio, lo stomaco deputato a sminuzzare i corpi, a ridurli a unità, il luogo ove la carne si fa linfa scarlatta a opera di parassiti e Vermi.

Una ferita si è aperta sulla superficie del mondo, una ferita ha incancrenito il sangue, cagionando il deperimento del corpo. Una sostanza incompatibile, un elemento patogeno, ha attecchito, ed è il Poliedro che, come un sottile ago, inocula questo veleno sotterraneo, penetrando fra i lembi di pelle squarciata.

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La realtà del pensiero, la realtà del sogno. Un pinnacolo di assoluta contemplazione si innalza dal capo della bestia, elevandosi ad altezze innavicinabili dalla pura osservazione esperenziale. Il Poliedro è un contenitore di universi infiniti poichè è infinita la potenza poietica dell’immaginazione, irriducibile alle categorie della razionale segmentazione dello spazio fisico. Le anime di vite passate, presenti e future albergano fra gli specchi variopinti di mondi possibili. La realtà della libertà; ovvero la negazione della realtà stessa.

L’illimitatezza del pensiero ascetico non può convivere con i confini del corpo. Pertanto il corpo rifiuta il pensiero, produce anticorpi virulenti che finiscono per distruggere la carne stessa e zavorrare ciò che tende verso l’alto.

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“Dove mi trovo? Che mondo è questo? Non è il Poliedro, eppure fino a poco fa mi trovavo lì…Voi…chi siete?! Che orrore, dei bambini! Eppure… così grandi da essere capaci di guardarmi dall’alto in basso! Che posto è questo? Voi chi siete?”

“Noi siamo i tuoi creatori. E questo è il mondo della realtà. Il tuo, invece, era il reame del sogno, il nostro sogno. Qui non facciamo esperienza che del dolore, e la nostra città affronta il dilagare di un morbo inarrestabile. Proprio ieri una persona che ci era molto cara è stata seppellita. Così, ci siamo ritrovati qui, davanti a questo recinto di sabbia e ci siamo detti che, forse, giocando, con l’immaginazione avremmo potuto allietare i nostri animi. Forse, creando un nuovo mondo, un mondo destinato ma in cui avremmo riversato il nostro dolore e le nostre speranze, avremmo esorcizzato le nostre paure. Tali sono i vostri affanni, i vostri caratteri, i vostri dubbi: nient’altro che un pallido riflesso dei nostri.”

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“Io…esisto solo per il vostro diletto? Non è possibile, tutto ciò che ho patito, tutto ciò che ho visto…non può essere solo un gioco di infanti! Io ho avuto la facoltà di scegliere, io ho deciso di essere qui! Nonostante l’orrore di quel mondo, io ho avvertito che ci fosse qualcosa che valesse la pena di salvare, e ho lottato per raggiungerlo, ho annichilito la volontà di chi voleva impedirmelo, Io non sono una semplice marionetta nelle vostre mani, tutto questo non è un gioco!”

“La tua è una nozione alterata della realtà, prodotta da una verità ristretta. Laddove tu scorgevi vasti orizzonti da percorrere a piacimento, noi innalzavamo invalicabili mura invisibili che recintavano i vostri sensi. Siete stati convinti di agire secondo coscienza, soppesando le alternative che la vostra realtà sottoponeva al vostro giudizio, e non vi avvedevate che il vostro intelletto era troppo prono per scorgere che quella libertà era indotta come quella di una fiera fra le spire di un labirinto vastissimo ma senza uscita. E le vostre azioni gravavano sul vostro animo giacché di valore coloravate le conseguenze delle stesse, illusi che la vostra realtà celasse una verità ultima, tanto inaccessibile quanto pregnante le cose del mondo. Tale è la vostra condizione, e sebbene aneliate a una ragione ultima, lo spazio di esistenza dei vostri esseri si limita al trastullo senza ragioni e senza regole del nostro piacere, fanciulli che giocano.”

“Ma allora…cosa sono io, chi sono io?!”

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Klara a piccoli passi si incamminava per la città ormai deserta. Il dodicesimo giorno era infine arrivato, e la ragazza recava il fardello di una decisione e il peso di una verità troppo ingombrante per essere sopportata. Guardava le proprie mani, tanto sottili e diafane da non credere che un tale potere potesse esservi contenuto. Eppure con le stesse era stata capace di portare tanto la morte quanto la salvezza a coloro che le si ponevano di fronte: un demonio o una santa, così dicevano. Era come se due spiriti, due individui, due atteggiamenti, due destini in lei convivessero. Era come se due mondi si fossero fusi in lei, un ossimoro vivente di realtà inavvicinabili. Una sintesi impossibile.

Che cos’è la realtà?” continuava a chiedersi Klara mentre percorreva quelle vie che ormai aveva imparato a conoscere. E, riluttante, non poteva fare a meno di pensare alla sofferenza che aveva visto in quei dodici giorni; alla morte che aveva ghermito, indistinti, condannati e innocenti; alla fatica che l’aveva spossata anche solo per procurarsi una fetta di pane. Dal momento in cui era nata sulla nuda terra, l’unica verità che le appariva ineluttabile è che, per quanto terribile, la realtà è una sola: cercarne un’altra, vuol dire chiudere gli occhi.

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“Non si deve fuggire, non si deve fuggire!”. Ancora adesso sembrano rimbombare nella testa le parole che Artemy le aveva rivolto qualche istante prima. Radicati alla materia comune, gli uomini non hanno alternativa se non abbracciare il suolo da cui sono sorti. L’unica reale fondazione di un sapere autentico poggia sull’accettazione dell’incontrovertibilità dei dati dell’esperienza. E se, osservando il mondo dritto negli occhi, ne scorgiamo una vacuità che atterrisce, allora l’unico atteggiamento possibile è, con ironica moderazione, sorriderne.

Sebbene rinfrancata da quelle parole, la ragazza non poteva sopprimere un tarlo che scavava nella sua mente. Se l’attribuzione di senso alle cose del mondo ha in ogni caso carattere di illusorietà, quale valore può mai avere un apodittico statuto di primarietà dell’esperienza immanente — quella che viene considerata “l’unica vita possibile”, con i suoi traguardi terreni ma mondani, le sue esigenze fisiologiche ma collettive? E, soprattutto, quand’anche sussistesse un fondamento ontologico al reale fisico, da dove deriverebbe questa esigenza deontologica di adeguarvisi?

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Klara, persa nei suoi pensieri, si era avvicinata inavvertitamente alla grande struttura spiraliforme del Poliedro. Sollevò il capo nel tentativo di scorgerne la cima, ma le propaggini convolute di quell’edificio parevano fuggire dal suolo per nascondersi nell’aria rarefatta della volta celeste. Daniil era convinto che fosse necessario salvaguardare quel groviglio informe, le aveva fatto intendere che l’unica chance per gli abitanti del borgo era preservare il Poliedro, come una rinnovata Torre di Babele.

La fanciulla avvertiva ancora adesso l’inebriante sensazione di libertà che aveva provato all’interno di quell’edificio. Una pace priva di turbamenti, perché priva di limiti angusti era quella realtà, imperio del pensiero. L’uomo ha fatto esperienza del mondo: ne aveva esplorato gli anfratti più reconditi, ne aveva sminuzzato le parti più piccole, ne aveva catturato un’immagine il più ampia possibile. Ma, infine, per quanto rigirasse il mondo fra le proprie mani, l’uomo ne aveva decretato l’inutilità. L’uomo trovò insopportabile tramestare con gli ingranaggi di un gioco senza fine; così ne creò di propri.

Forse, pensava Klara, era destino dell’uomo rifuggire in una propria realtà. Forse quell’edificio, con le sue scale dirette al cielo, era un passaggio offerto da Dio per una destinazione promessa. Forse questo mondo non era che una gigantesca messa alla prova prima della vera esibizione, uno spettacolo di ombre sul fondo della caverna, mentre gli attori gesticolano all’infuori. Forse, se la realtà della terra si smarca da evidenti comprensioni e percuote l’uomo con la sua indifferenza, allora una “verità più giusta” esiste in una dimensione di contemplazione e imperatività; o, quantomeno, la si può inventare.

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Le promesse del sogno cullano l’uomo, prelevandolo da un fato di rassegnazione. Eppure Klara avvertiva qualcosa di sbagliato; sentiva che le malie del pensiero, quando disancorato dal suolo, possono tramutarsi in un escapismo del fantastico. In fondo, in quella realtà, era come non esistere: non è possibile avere cognizione di sé senza avere la possibilità di scontrarsi con ciò che è diverso da sè.

La ragazza si guardò di nuovo le mani, strumenti di vita e morte; e in quel momento comprese. Lei, dualità incarnata, era l’emissaria di un compromesso possibile: quel compromesso era l’uomo stesso. Dimidiato da dimensioni tra loro confliggenti ma altresì inalienabili, l’uomo aveva l’onere di aderire al principio di realtà della propria esistenza, senza tuttavia disattendere la connaturata tensione all’infinito. Con una mano Klara avrebbe stretto in una presa gentile le persone con cui avrebbe affrontato questa unica vita; con l’altra avrebbe reciso il legame di coloro che erano disposti a immolarsi pur di permettere la prosecuzione del mondo. Il dolore è l’unico attributo di un’esistenza consapevole.

Che cos’è la realtà?”. Sebbene Klara non avesse ancora trovato una risposta, ora sapeva che non avrebbe mai smesso di chiederselo, insieme a tutti gli altri.

ONE MORE FINAL: “Vero è soltanto il desiderio di verità”

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Una delle strutture principali della città è un grande teatro situato nel cuore del tessuto cittadino. All’interno uno strano figuro, Mark Immortell, insieme a un gruppo di maschere, mette in scena, allo scoccare della mezzanotte di ogni giorno, gli eventi principali che hanno coinvolto il borgo. I suoi attori, nelle sparute occasioni in cui si sono concessi a una chiacchiera, hanno sempre palesato una certa riluttanza a rimanere nel solco delle regole del mondo: era palese che il loro linguaggio celasse verità aliene alle menti degli uomini che popolano la città. Come se un attore, durante la recita, rendesse palese, tanto agli altri attori in gioco quanto agli spettatori, di stare recitando.

Nel dodicesimo giorno è data facoltà di discutere con due di loro, i quali si dichiarano essere gli sviluppatori di Pathologic. L’eco della voce dei creatori si riverbera in un “linguaggio eternizzato” alla mercé del giocatore, che ora li interroga: in un certo senso quella voce è immortale, perché immutata e disponibile rimarrà anche fra cent’anni, presente nei file di gioco, testimonianza dell’afflato vitale — perché vita hanno dato nella forma di un videogioco — di un’intelligenza primigenia. Dunque Pathologic, in fondo, non era che un gioco; meglio, era un gioco all’interno di un gioco. Un gioco a cui ci siamo prestati più volte, come se fosse reale, aderendovi senza riserve.

È in quel punto che ho pensato a Dialogo di un automa e il suo creatore, quel componimento che scrissi e di cui ho accennato nel primo atto di questo trittico. E ho compreso la recondita, celata, terribile vertigine di Pathologic.

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Il corso del mondo è un bambino che gioca a dadi, è il regno sovrano di un bambino — Eraclito.

P.S. E infine l’ultima parte dell’articolo di Rock Paper Shotgun!

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.