Berni

Francesco Cisco Pota
inutile
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15 min readOct 1, 2018

Questo è il quarto appuntamento con storie dello sport che mi piacciono o mi hanno colpito, il titolo me lo ha suggerito Lina Wertmüller. Non potevo non toccare il calcio. Per questa scavo in un tema caro e a cui sono molto legato per tanti motivi. Grazie a Gloria Baldoni per avermi indicato la storia che state per leggere. Era una storia di cui avevo sentito parlare ma non mi ci ero mai dedicato. Nel caso foste interessati qui, qui e qui trovate i precedenti appuntamenti.

C’è stato un periodo della mia vita in cui ero uno sfegatato tifoso dell’Inter. Erano i tempi in cui non vincete mai, in cui al massimo la coppa Uefa ma di scudetti neanche a parlarne. In cui tifare Inter era davvero una questione di fede. Pian piano mi ci sono allontanato, fino a quando un pomeriggio di primavera Ronaldo, giocatore per il quale ho pianto quando si infortunò contro la Lazio, segnò in un derby con la maglia del Milan perculando i tifosi interisti che lo insultavano: in quel momento ho capito che quel mondo non era più il mio e in generale che il mio approccio al tifo era di diverso tipo ma questo è un altro discorso.

Ad ogni modo il calcio continua ad avere come un richiamo: mi piace leggerne le storie. Dei risultati mi interessa tanto quanto dell’apertura di Starbucks o dei matrimoni dei vips, non conosco quasi nessun giocatore se non proprio quelli famosissimi ma quando posso mi piace leggere storie di calcio. Ma se ho deciso di seguire questa storia è stato prima di tutto perché parlava di Resistenza. La Resistenza e l’antifascismo sono due perni della mia vita. Fin dalla tesi ho sempre cercato l’aspetto più popolare della Resistenza, diciamo una visione dal basso. Ho sempre voluto scrivere di Resistenza ma non trovavo mai il giusto spunto. Poi è arrivato l’indizio di Gloria: un tweet che citava Bruno Neri, calciatore e partigiano. Nella stragrande maggioranza degli articoli che ho letto Bruno Neri è il calciatore partigiano che si rifiutò di fare il saluto romano prima di una partita nel 1931. Ma poi approfondendo la lettura ho scoperto che era molto più che un uomo coraggioso.

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Neri era un uomo del suo tempo ma anche un uomo un po’ atipico. Crebbe nell'Italia fascista ma non sostenne il regime, era calciatore quando esserlo stava iniziando a diventare un lavoro redditizio. La distanza tra lo stipendio di un calciatore e quello di un lavoratore non era ancora quella di oggi ma Neri a fine carriera riuscì a rilevare una piccola fabbrica. Sono quelli gli anni del Beppìn Giuseppe Meazza e delle vittorie dei due Mondiali, quello casalingo un po’ chiacchierato. In quegli anni Meazza partecipava a spot pubblicitari e gli venivano dedicate canzoni, forse è la prima star italiana del pallone. Fare il calciatore stava iniziando a essere una professione che dava fama e soldi.

Neri nacque nel 1910 a Faenza e iniziò a giocare nelle squadre locali. La sua carriera è costellata di allenatori che gli lasciarono grandi insegnamenti, calcistici e di vita. Esordisce nel Club Atletico Faenza. Qualche anno prima la squadra si chiamava F.B.C. Faenza, FootBall Club Faenza, ma l’inglese non è lingua amata dal regime e quindi negli anni venti verrà rinominata Club Atletico Faenza. L’italianizzazione della lingua voluta dal regime ha un che di comico nella nostra memoria. Ma la lotta sulla lingua è parte della trasformazione coatta in italiano di tutto ciò che veniva considerato straniero. L’obbiettivo non era tanto rimuovere inglese e francese con quei cambi di nome che oggi fanno sorridere. Sono le minoranze etniche e linguistiche a subirne le conseguenze più gravi. Per molti, penso sopratutto al confine orientale, significò vedersi cambiare di imperio nomi e cognomi, i nomi di luoghi come Redipuglia sono italianizzazioni, ridicole nella loro arroganza e non divertenti. Fu il tentativo di cancellare, omologare e negare l’eterogeneità italiana, il tentativo di fissare un’identità astorica basata su un falso mito. Le identità che non rispondevano a un concetto statico e immaginario di italianità dovevano essere eliminate. Il confine orientale è laboratorio di questo fin dai tempi del primo dopoguerra e segna una delle tante linee di prosecuzione tra Italia liberale e Italia fascista. Questa violenza portata avanti verso le minoranze è intrinsecamente razzista, lo è in maniera viscerale, seguendo questa storia diventa difficile affermare che il fascismo fu razzista solo dal 1938 e solo per convenienze politiche. Per altro trovo assai penoso questo tentativo di riduzione: condannare delle persone solo per motivi politici o propaganda è assurdo, criminale e bieco. Mentre scrivevo questa frase non pensavo alla nostra quotidianità e non sono un fan del facile paragone tra allora e oggi, detto questo il riferimento mi pare evidente e rivendico la frase anche nella sua contemporaneità.

Si può seguire nella vita di Bruno un filo scandito dai crimini e dalle prepotenze del fascismo nei confronti dei non italiani. Nei primi anni ‘20 il C.A. Faenza era allenato da Adalberto Bala Balassa, allenatore ungherese che per un periodo fece anche il giocatore. Balassa lasciò il C.A. Faenza perché le sue pretese economiche erano ritenute eccessive dai fascisti entrati nel gruppo dirigente della squadra. Erano eccessive essendo lui uno straniero. Ma Balassa diede i primi insegnamenti a Neri e lo fece esordire in prima squadra nel 1926–27, quando giocava terzino. Fu un altro allenatore ungherese, Lajos Czeizler, a spostarlo nel ruolo con il quale diverrà famoso: il mediano. Un ruolo che oggi se esiste non ha più questo nome. Come vi ho detto la mia passione per il calcio giocato è andava via via affievolendosi. Ma se c’è un giocatore dei miei tempi a cui paragonerei Neri quello è Javier Zanetti, anche per il ruolo che ricoprì a tratti nel centrocampo interista. Interdire e rilanciare, fermare l’avversario e cercare di uscirne a testa alta. Non con foga, sempre composto. Ecco Neri lo immagino così in mezzo al campo. L’Ungheria di quegli anni è fucina di grandi giocatori e allenatori, Balassa e Czeizler non furono gli unici ungheresi in Italia. Neri fu allenato anche da Ernő Erbstein che dalla Lucchese lo portò con se al Torino alla fine degli anni ’30. Erbstein tornò con i granata dopo la fine della guerra, dopo essere fuggito dall’Italia per evitare le conseguenze delle leggi razziali essendo di origini ebraiche, e morì nello schianto sulla collina di Superga. C’era anche Arpad Weisz che giocò e allenò in Italia dal 1924 al 1938 passando da Ambrosiana Inter e Bologna tra le altre. Anche lui era ebreo e morì ad Auschwitz nel gennaio del 1944. La scuola Danubiana fu davvero rivoluzionaria e gli allenatori segnarono un’epoca.

La carriera da calciatore professionista di Neri prese definitivamente il via nel 1929, quando la Fiorentina di un fascistissimo presidente con grandi ambizioni lo acquistò dal Faenza per 10mila lire. Rispetto alla storia del calcio questo ci dice che: si era già in epoca di professionismo; c’era chi vedeva nel calcio un investimento; la Fiorentina aveva ambizioni. A chiarirlo è il valore di quelle dieci mila lire. Lo stipendio medio mensile di un impiegato statale è di 650 lire mentre mediamente un lavoratore guadagna in un anno 2200 lire. Per un giocatore di buone prospettive come Neri la Fiorentina, che in quell’anno gioca in B, è disposta a spendere quasi cinque volte quello che un lavoratore guadagna in un anno.

A Firenze Neri si mise in mostra come un mediano forte e di classe, aiutò la Fiorentina a raggiungere la serie A nel 1931. Era parte di una linea mediana di davvero alto livello. Il trio Neri, Bigogno e Pizziolo era tra i più forti d’Italia e i viola ottennero anche importanti piazzamenti nella serie maggiore. Neri arrivò alla Nazionale nel 1932, in quella goliardica però. Giocò anche i mondiali goliardici di Torino del 1933, qui trovate un filmato dell’epoca sull’inaugurazione dei giochi. Goliardici significava universitari. Quindi non era tipo la nazionale cantanti ma tipo l’Under 21 dell’epoca. Dopo il raggiungimento del quarto posto con la Fiorentina nella stagione 1932-’33, Neri è fenomenale nella stagione 1934–’35 e anche grazie a lui la Fiorentina arriva terza in campionato. Grazie a queste prestazioni riesce ad ottenere la convocazione per 3 partite della Nazionale A, non venendo però convocato per le Olimpiadi del 1936 e per i mondiali di due anni dopo. Ma Neri era un uomo particolare con interessi oltre il mondo del calcio e frequentava anche locali come Il Caffè Giubbe Rosse dove si radunavano intellettuali di vario tipo e anche antifascisti. Neri non fu mai un fascista convinto e forse maturò in quell’ambiente alcune convinzioni, non ci sono testimonianze, ma sicuramente i suoi interessi andavano al di là del calcio e dello sport. Anche a fine carriera, mentre era a Torino, frequentava ambienti intellettuali e umanisti. Insomma mostrò sempre e fin da giovane una certa sensibilità che esula un po’ dall’immaginario collettivo che abbiamo dei calciatori, immaginario un po’ stereotipato e classista a dire il vero.

Dopo la grande stagione del 34/35 la squadra iniziò un periodo di declino e l’anno successivo Neri passò alla Lucchese, squadra ambiziosa. Siamo nel 1936, l’anno della vergognosa conquista dell’Impero e dell’inizio della guerra di Spagna. Neri era già antifascista convinto? Oppure stava maturando una sensibilità? in fin dei conti era giovanissimo al suo arrivo a Firenze e nel ’36 ha 24 anni. Non mi è chiaro. Eppure ci sarebbe quella foto del 1931 nel quale lui si rifiuta di fare il saluto romano prima di una partita con il Montevarchi. Ma nella biografia di Neri scritta da Massimo Novelli questo episodio non è riportato. L’autore, che ho contattato, dice che ai tempi della sua ricerca quella non era un’informazione nota. In tutta sincerità c’è qualcosa in quella foto che non mi torna. Nelle brevi ricerche che ho svolto, senza muovermi da Milano e quindi limitate, nonostante il gesto attribuito a Neri ritorna in praticamente tutti gli articoli on line nei quali però non è mai riportata la fonte dell’informazione. Ho chiesto all’archivio Lotti di Firenze, sul cui sito ho trovato la foto con la didascalia che recita Il saluto romano della Fiorentina in campo con l’unica defezione del giocatore Bruno Neri, e mi hanno indicato come fonte un articolo riportato nel libro Fiorentina 80 anni di storia di Sandro Picchi. Non sono riuscito a contattare l’autore, almeno fino ad ora, ma anche sul libro non è citata la fonte dell’informazione. Neri nella foto non è chiaramente riconoscibile e quando ho chiesto a Novelli cosa ne pensasse anche lui ha espresso qualche dubbio.

Non sto negando l’antifascismo di Neri, da quel che ho letto sicuramente era distante dal regime, il punto è che non mi pare fosse così convinto da esporsi in prima persona in quel modo. In più non ho trovato traccia di eventuali conseguenze e anzi giocò le partite in nazionale successivamente a quel gesto, perché il regime avrebbe fatto correre? In tanti in quegli anni vivono quello che è stato definito antifascismo esistenziale ovvero un’opposizione al regime interiore, irriducibile ma mai palesata chiaramente. Penso ad esempio alle cosiddette le canzoni delle fronda, canzoni che venivano usate dagli autori o dalla popolazione per poter sfogare l’antifascismo senza eccessivi pericoli. Leggendo e conoscendolo mi è sembrato che Neri appartenesse più a questa categoria che però stride con i gesti plateali. Non voglio negare la veridicità di quella foto ma non trovando fonti che la confermino totalmente mi limito a palesare qualche dubbio che mi è sorto.

Un compagno di squadra a Torino, quindi a fine anni ’30 quasi dieci anni dopo la foto, ricorda che quando andava al campo di allenamento in bicicletta insieme a Neri: la parola libertà c’entrava ogni dieci parole. Credo che questa sia una piccola dimostrazione di quel che ho detto: il regime colpì il movimento antifascista, lo perseguì, ne uccise i leader ma non poté distruggere il sentimento antifascista di parte della popolazione italiana che ciclicamente tornava alla luce, come con gli scioperi del ’33. Ma molti lo palesavano solo in contesti sicuri. Neri era antifascista nel senso che era lontano dal regime, anche se avesse dovuto sottostare ad alcuni rituali che erano imposti dal regime vittorioso come il fascio littorio sulla maglia della nazionale. Neri divenne un militante antifascista e in questo percorso io credo stia una delle bellezze della Resistenza.

Mi sono chiesto se fosse il caso di scrivere questi miei dubbi, avrei potuto glissare ma ho notato che è proprio quello il gesto per il quale è più ricordato. Sicuramente quello è un beau geste e anche molto evocativo ma mi pare che annebbi e offuschi il resto della storia, un po’ come per Johan Rukeli Trollmann un gesto o un momento finisce per assorbire tutta la storia e non renderne il contesto e finendo anche un po’ per normalizzarla. Credo la bellezza della storia di Neri stia anche in un percorso interiore che lo portò alla militanza nella Resistenza. Forse iniziato a Firenze in forma di riflessioni personali, finì con un fucile in spalla a combattere per la liberazione. Molti italiani erano antifascisti ed ebbero paura per tanto tempo a mostrarlo, a un tratto sentirono la necessità di riscattare quella paura, di riscattare ciò che era stato fatto anche in loro nome a causa di quella paura. Una paura legittima, non tutti possono o devono essere eroi, una paura da persone comuni che a un tratto quelle persone comuni superarono, vinsero e decisero di correre ogni rischio, dalla morte alla tortura. Perché questo furono i partigiani: non eroi mitici ma donne e uomini comuni.

Se si dice che la Resistenza iniziò l’8 settembre 1943 è perché in molti, tra i quali Bruno Neri, avevano iniziato a organizzarsi prima di quella data. L’8 settembre non è soltanto l’inizio della Resistenza ma anche il definitivo di affrancamento della popolazione dal regime iniziato con l’inizio della guerra nel ’40. Grazie a chi aveva mantenuto attive delle forme di resistenza sotterranea e clandestina, è in quel momento che molti italiani e italiane iniziarono un percorso di avvicinamento all’antifascismo politico. Il peggiorare delle condizioni lavorative, le sconfitte, l’inasprirsi della repressione del regime acuirono questo percorso che esplose in tutta la sua evidenza con gli scioperi del marzo ’43. Era chiaro a molti che la caduta di Mussolini non era la fine. Il duce e il fascismo non erano certo gli unici responsabili e i loro alleati, la monarchia e i comandi militari, rimasero al loro posto. I giorni tra il 25 luglio e l’8 settembre furono fervidi di organizzazione e preparativi. Se le brigate vennero formate da ragazzi che scappavano dal bando Graziani , spesso chi organizzava gli sbandati erano persone che avevano aderito al movimento antifascista prima dell’8 settembre 1943. C’erano ad esempio i reduci dalla guerra civile spagnola ma anche chi aveva partecipato negli anni precedenti agli incontri del movimento, approfondendo le relazioni politiche e umane, la conoscenza, superando le paure che prima gli avevano impedito di agire. Come nel caso di Bruno Neri.

Quando l’Italia entrò in guerra Neri aveva smesso di giocare da pochi mesi. La carriera di un giocatore professionista era più breve e a 28 anni era già verso la fine, nel caso di Neri gli infortuni fecero il resto. Concluse la sua carriera nel Torino. Tornò a Faenza ma comprò anche una piccola azienda a Milano e si divise tra le due città. A Faenza si dedicò all’allenamento cercando di insegnare ai giovani quanto aveva imparato sui campi: il calcio è un gioco di squadra, si vince e si perde tutti insieme, vince o perde la squadra non il singolo giocatore. Allenò per un anno. Ed è quello in momento in cui si avvicina definitivamente al movimento antifascista. Fu suo cugino, Virgilio Neri notaio di Milano, a introdurcelo. Vicino agli ambienti liberali e a Giustizia e Libertà, il notaio organizzò alcuni incontri tra i rappresentanti delle varie anime dell’antifascismo a cui partecipò anche Bruno, che poi a sua volta ne ospitò alcuni nella sua casa a Faenza.

Le notizie sulla vita di Neri non sono sempre facili da recuperare. Secondo Massimo Novelli, la militanza semiclandestina vera e propria di Bruno Neri inizia nel 1942 ma è in Sicilia nel luglio del ’43 perché richiamato sotto le armi quando vi sbarcarono gli alleati. Non si sa esattamente come ma riuscì a tornare a Faenza dopo l’8 settembre. Qui trovò attiva la brigata partigiana Scansi organizzata dal cugino Virgilio e vi aderì subito con il nome di battaglia di Berni. In quei mesi nel Regno del Sud, alcuni volontari italiani e l’Office of Strategic Service, la futura C.I.A., crearono l’Organizzazione Resistenza Italiana. L’ORI è un servizio di informazione, sabotaggio e collegamento tra esercito alleato e formazioni partigiane. Gli agenti dell’ORI dopo un periodo di addestramento vennero paracadutati nell’Alta Italia.

Bruno Neri è partigiano combattente dal settembre ‘43 e per tutto il ’44 è molto attivo, inizialmente con circospezione per via della sua discreta fama, ma piano piano divenne un punto di raccordo per le varie brigate, organizza incontri clandestini, raccoglie informazioni, distribuisce il materiale recuperato attraverso gli aviolanci. E l’8 marzo 1944 aderisce alla missione Zella dell’ORI. Sono tre le missioni che arrivarono sulla costa romagnola ma solo una riesce a installare la radio nella cappella di una villa vicino Faenza di proprietà della famiglia Neri e dove vivono i genitori di Virgilio e Bruno.

Forse per dissimulare la sua attività partigiana, forse perché non riesce a stare lontano dal calcio Neri ritorna a giocare con il Faenza nel campionato regionale. Oggi sono considerati campionati di guerra, vennero declassati immediatamente dopo la fine togliendo il titolo di campioni di Serie A ai Vigili del Fuoco di La Spezia. Campionati fatti per distrarre dagli orrori della guerra e dai bombardamenti, a volte per creare trappole. Neri giocò fino a quando non venne individuato come partigiano combattente. L’ultima partita fu il 7 maggio 1944, sconfitta per 3 a 1 contro il Bologna. Era contemporaneamente giocatore e partigiano: furono 105 i messaggi inviati da Radio Zella con i quali informava dello spostamento delle truppe tedesche, della disposizione dei depositi e richiedeva aviolanci per le brigate partigiane della zona.

Sempre nel maggio del 1944 si formò il battaglione Ravenna di cui fu comandante Vittorio Nico Bellenghi e vice Bruno Berni Neri. I due, il 10 luglio dello stesso anno, sono in avanscoperta alla ricerca di un aviolancio vicino all’Eremo di Gamogna, una quarantina di chilometri a sud di Faenza. Il primo aviolancio, del 10 giugno, era stato un successo e quindi si decise di ritentare. Il 9 luglio si radunarono nella zona di Monte Lavane diverse brigate e i gappisti di varie città. Il 10 luglio, nei pressi dell’Eremo di Gamogna, Neri e Bellenghi hanno lasciato indietro i propri compagni, contravvenendo la regola che in avanscoperta non dovessero andare gli ufficiali, e stanno camminando all’aperto senza nessuna particolare precauzione sulla strada che conduce all’Eremo, si stanno dirigendo sul luogo dove sarebbe dovuto arrivare l’aviolancio di rifornimenti bellici da parte degli alleati. Il materiale sarebbe stato poi diviso tra le varie brigate.

Come riporta un testimone oculare, i due partigiani stavano scendendo con i fucili a tracolla, dall’altra parte stavano salendo un gruppo di tedeschi. Il testimone, un ragazzo che stava pascolando i suoi animali, poteva vedere entrambi dalla posizione in cui era ma i due gruppi non potevano perché erano divisi da una curva. Neri e Bellenghi erano nella posizione peggiore, non avendo niente dietro cui ripararsi e poi i due gruppi non si vedono fino all’ultimo. Lo scontro a fuoco non durò molto. I due partigiani vennero uccisi dai tedeschi e secondo la relazione del commissario di stato maggiore del battaglione Ravenna i loro corpi vennero colpiti da armi da taglio mentre erano agonizzanti.

La Resistenza è stata fatta dall’operaia tessile e dal professore, dalla giovane staffetta al più maturo reduce dalla Spagna, da politici di professione che avevano vagato per l’Italia in clandestinità a chi si era unito alle brigate partigiani per sfuggire alle rappresaglie nazifasciste. Erano donne e uomini comuni. A volte ho un moto di fastidio quando si dice persone così non ce ne sono più. Non è vero, ci sono, semplicemente siamo noi, sono la versione di noi che ha affrontato le proprie paure, limiti, difficoltà. Non che noi si debba fare la Resistenza, non ancora per fortuna, con una guerra in casa le cose sono molto diverse. Ma dietro quella frase sento come un che di messianico che finisce per essere immobilizzante. Bruno Neri mi sembra rappresentare proprio questo, pur nella sua particolarità di essere un calciatore famoso fu un uomo che seguì un percorso e vinse delle paure, delle resistenze interiori. Chissà forse prima pensò di aver troppo da perdere per opporsi in maniera netta e dura al regime, forse era semplicemente troppo giovane quando aveva un senso farlo e crebbe dentro un regime vittorioso, pur non cedendovi mai del tutto. La sua figura mi sembra più forte così che in quella un po’ annebbiata di quella foto. Un gesto onorevole, non è mai facile opporsi e non voglio sminuirlo, ma sarebbe stato un gesto isolato. Permettetemi una banale metafora calcistica: è come se la nostra squadra perdesse 10 a 1 ma noi avessimo fatto un gran gol in rovesciata. La vicenda di Bruno Neri nel suo complessi mi sembra racconti altro: ci responsabilizza. Con i nostri limiti, le nostre capacità, il nostro coraggio tocca a noi. Non arriverà nessun altro a fare il lavoro che dobbiamo fare noi.

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