Ruote d’acciaio

Francesco Cisco Pota
inutile
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7 min readMay 19, 2017
If there is a record I don’t Have, I haven’t heard it yet. Grandmaster Flash

There it is ladies and gentelman, the Bronx is burning.

La frase è attribuita a Howard Cosell, commentatore televisivo di una partita delle World Series del 1977, in diretta dallo Yankee Stadium, nel Bronx. Anche se non è mai stata pronunciata durante quella diretta, la sua invenzione dice molto del rapporto con gli incendi che avevano i newyorkesi di quegli anni.

Sette aree censuarie del Bronx persero il 97% dei loro edifici tra il 1970 e il 1980. In altre 44 più del 50%, il risultato è interi isolati di rovine. L’amministrazione aveva varato un piano di efficenza finanziaria e guardava con molta attenzione al bilancio e il sindaco John Lindsay aveva chiesto al capo del NY Fire Department di risparmiare diversi milioni di dollari. Ma stare attenti al bilancio significa licenziamenti e tagli e, nei quartieri più poveri, a un’esplosione di incendi incontrollati. Questa assenza di intervento fece più danni che gli incendi dolosi.

È a causa di uno di questi incendi che nei primissimi anni ’70 Clive Campbell, giovane giamaicano arrivato da poco nel Bronx, viene alloggiato al Plaza Hotel. Sotto l’hotel c’era una discoteca che gli piaceva molto frequentare perché venivano passati brani che da altre parti non si sentivano. Clive Campbell era conosciuto dai suoi compagni di scuola come Hercules, per le sue capacità atletiche, ma a lui non piaceva come soprannome. Quando si era unito alla crew di writer, gli Ex Vandals, prese il nome di Kool Herc.

Nella discoteca sotto al Plaza Herc rimase colpito da quanto alla gente piacessero le canzoni con lunghi break. Una di questi era Get Ready dei Rare Earth che ha venti minuti di assolo di batteria. Su quel break lunghissimo Herc vedeva la gente scatenarsi nel ballo eseguendo i passi più spettacolari. Una volta tornato nel Bronx, ebbe l’intuizione di creare dei breakbeat, ovvero delle sequenze di break, sulle quali la sua gente potesse ballare. Iniziò così a organizzare delle feste nella community room del suo palazzo al 1520 di Segdwick Avenue.

Interi isolati di sole macerie e in mezzo a questo cercare di costruire la propria vita. Alcuni giovani sceglievano le gang, altri il crack, altri ancora resistevano. E la resistenza poteva anche passare da una festa. Avere un luogo di socialità, per i giovani del Bronx di quegli anni, era impresa tutt’altro che semplice. LE discoteche e i locali del quartiere erano terreno di scontro tra le varie gang e frequentarli poteva rivelarsi tutt’altro che semplice. E sia i locali del centro che quelli di quartiere mettevano una musica lontana dai gusti dei ragazzi del Bronx. Per questo le feste nella community room del palazzone di Clive Campbell erano nel posto giusto al momento giusto.

Herc aveva trovato un sound che prendeva, lo rubava da altri brani, da James Brown e dal funky come dalla disco, ne prendeva pezzi e poi faceva ballare tutti. Chiamava il suo stile merry-go-round, una giostra di suoni, un loop di suoni su cui faceva salire chi voleva ballare e che poteva non fermarsi mai. I suoi party erano aperti a tutti, le bande non intervenivano, forse anche perché non li percepivano come un territorio di conquista.

Per lui e per tutti i primi dj hip hop la musica era ricerca del giusto sound. Herc cercava il break che facesse saltare la folla che riempiva la community room. Ma dopo aver scovato il brano bisognava recuperare il vinile e trovarlo era tutt’altro che facile. Per poter costruire un breakbeat bisognava possedere i vinili e bisognava avere i migliori, i più ricercati e le ultime uscite. Non bastava andare in un negozio a comprarlo: il costo poteva essere proibitivo e non tutti i negozi possedevano i dischi giusti. A volte era necessario andare su e giù per la città, cercare gli store con i prezzi migliori e i pezzi migliori.

Ogni dj era geloso del proprio sound, dei break che aveva scovato con fatica e per essere il dj più ricercato bisognava avere qualcosa in più degli avversari. Quel qualcosa che durante il party avrebbe portato i breakers, i ballerini, a scegliere di ballare sulla tua musica. Avere o non avere Give it up or Turn it loose di James Brown, Hihache della Lafayette Afro-Rock Band o ancora Hot Shot di Karen Young, faceva la differenza. Avere una nuova uscita prima di tutti gli altri era una gara.

Cercare e rovistare tra gli scaffali di un negozio, impossessarsi con ogni mezzo, legale o illegale, di un disco e poi esibirsi. I breakbeats non erano creati per essere incisi su dischi, erano pensati per essere suonati alle feste. Erano una parte centrale di quelle feste dove veniva passata una musica che prima non si era mai sentita, che portava a muoversi, a scatenarsi senza pensieri. Credo che una parte della forza di quei party fosse proprio questo senso di leggerezza e libertà. Stare per un momento lontano dalla distruzione della città e dalla violenza generalizzata che circondava i partecipanti.

La volontà di Herc e del gruppo di dj, writer e b-boy che assemblò, gli Herculords, era quella di creare un’alternativa alle macerie. Quando la community room divenne troppo piccola, si organizzò il primo block party. Veniva chiuso un isolato e per diverse ore si alternavano dj sulla console, breaker e gli Mcs si sfidavano e i writer disegnavano sui muri. Alcune ore in cui le gang non contavano più, la violenza quotidiana veniva allontanata e si rivendicava una vitalità che veniva negata dalle condizioni imposte ai quartieri.

I block party si diffusero a macchia d’olio e la cultura hip hop iniziò a diffondersi. Se i writer imponevano un’ondata di colore, i dj ne imponevano una di suoni. Non c’era mediazione. Per organizzare un party si occupavano zone del quartiere, si rubava l’elettricità, per avere un disco a volte lo si rubava, non si chiedeva il permesso alla comunità per dipingere un muro o per sparare musica dalle casse. Quell’illegalità era considerata come un passaggio senza il quale quelle feste non potevano avere luogo. Non era una questione morale da affrontare: si voleva qualcosa di meglio e lo si prendeva, by any necessary means.

Quel fermento ci mise poco ad evolvere. Nelle case abbandonate venivano organizzate feste e contest tra dj, writer, mc e breaker. Da questi iniziarono a nascere nuove figure, nuovi dj. Poco lontano dal 1520 di Sedgwick Avenue c’è Fox Street. Nelle feste di questa zona era Joseph Sadler a mettere i dischi. Se Herc è il padre fondatore di questo genere, Sadler ne è il primogenito. Joseph Sadler non è altro che Grandmaster Flash.

Anche Flash è un immigrato, nasce nelle Barbados e si trasferisce a New York da bambino. Di tre anni più giovane di Herc, aveva iniziato poco dopo di lui a fare il dj. Essendo un pioniere, lo stile di Herc era un po’ grezzo: non si preoccupava di passare da un break all’altro con fluidità, l’importante era far ballare la gente, in un certo senso era tutta sostanza e niente forma. Quello che fece Flash fu unire l’intuizione di Herc con lo stile di alcuni dj disco che passavano da un brano all’altro fluidamente quasi senza farlo notare. La mancanza di mezzi rendeva difficile copiare quello stile. Per farlo il dj deve sentire il brano in coda prima che venga fatto sentire al pubblico, in inglese si dice cueing. Flash riuscì a risolvere il problema grazie a una serie di marchingegni e sfruttando i suoi studi in elettronica.

Lo chiamavo sistema nascondino. Come facevi ad ascoltare prima che lo facesse la gente? Come mixer usavo un sony MX8, che aveva solo un ingresso per il microfono, perciò dovetti comprare due amplificatori esterni Radio Shack, per dare tensione alla cartuccia aumentandola fino a un millivolt. Così ottenni una tensione d’uscita: potevo quindi collegare la cartuccia al mixer e ascoltare il suono. Dovetti piantare due ponticelli tra il piatto destro e il sinistro per sentire la musica prima che uscisse nell’impianto, quindi realizzai un commutatore unipolare a due vie e lo incollai sul mixer

(Tratto da u.net, Renegades of funk, il bronx e le radici dell’hip hop, p.110–111, agenzia X, 2011)

Con grande impegno e l’invenzione di diverse tecniche, Flash riuscì nella sua impresa di rendere il mixaggio fluido. Si inventò la tecnica dell’orologio: segnando sul disco il punto dove iniziava il break e poi contando i giri, fu il primo a usare diverse parti del corpo per mixare dal vivo. Fece cose che fino a quel momento nessun altro dj aveva fatto, e questo gli valse la carica di Grandmaster, come nelle arti marziali.

Per avere un’idea di cosa significava per Flash il mixaggio, potete ascoltare questa sua versione di Apache degli Incredible Bongo Band, quello che viene definito l’inno nazionale dell’hip hop. Ma inizialmente quelle innovazioni non vennero capite. La gente smetteva di smuovere il culo e stava a guardare quel che faceva Flash e questo non gli piaceva. Per questo iniziò a portare un Mc sul palco che parlasse delle sue abilità e che facesse da showman. Nacquero così Grandmaster Flash and the 3 Mcs che poi diverranno Grandmaster Flash and the Furious Five.

Il fatto che sia il suo nome a dominare sugli Mc la dice lunga su quello che significava il dj in quei giorni. Anche la crew di Kool Herc si chiama Herculords, in evidente richiamo al nome del fondatore. Il dj era tutto in quegli albori, lui e le sue wheels of steel, senza il dj il resto non poteva esserci. I breaker non potevano ballare, gli Mc non potevano cantare: la musica non esisteva. Stava nascendo sotto le mani di quei ragazzi di 15–20 anni che si improvvisavano tecnici audio, studiavano, correvano su e giù per New York. E New York, che li aveva dimenticati, li sentì

Questo è un viaggio nella New York popolare degli anni ’70 qui trovate il prologo e la prima puntata.

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