Operazione Tokhla

Ovvero “sciacallo”. Una banda eritrea, smantellata nel dicembre del 2014, gestiva il traffico di esseri umani che dal Sudan arrivava fino in Europa. La stessa banda che ha imbarcato i 243 profughi sulla barca “fantasma” diretta verso l’Italia

cristina giudici
12 min readNov 16, 2015

Per la serie-inchiesta Ghost Boat pubblichiamo l’estratto del libro “Mare Monstrum, Mare Nostrum(Utet, 2015) della giornalista cristina giudici. Il capitolo 5 è dedicato all’Operazione Tokhla, l’indagine della procura e della Squadra mobile di Catania che conduce al naufragio della barca “fantasma” scomparsa con 243 profughi nel Mediterraneo, tra il 27 e il 28 giugno 2014.

di cristina giudici

A Catania, a Catania!

Oggi mi dirigo verso la dama nera, la città lavica di Catania, per partecipare al convegno internazionale L’immigrazione che verrà, e mi sento come le tre sorelle del dramma di Cˇechov, che invocano: «A Mosca, a Mosca!». Come loro, ho bisogno di un nuovo orizzonte, più vasto. È già troppo tempo che mi aggiro nei labirinti del gicic. Siracusa comincia a starmi stretta.

Finalmente il sole fa capolino dentro una settimana confusa. Piena di paradossi, di scene surreali, di storie tristi. In viaggio canticchio il rap di Fiorella Mannoia, che mi sembra adatto a questi miei giorni siciliani: «Non è un film e non sono comparse le persone disperse / sospese e diverse tra noi e lo sfondo / e il resto del mondo che attraversa il confine / ma il confine è rotondo».

E così eccomi qui, nello splendore quattrocentesco di palazzo Platamone, dove si svolge il convegno. Fra gli ufficiali della Marina militare e quelli della Guardia costiera, che hanno subito, durante la missione Mare Nostrum, il protagonismo della Marina.

Sullo schermo scorrono i dati, un resoconto dell’intera operazione. Statistiche di migranti divisi per nazionalità, percentuali, grafici e numeri, considerazioni sui profughi siriani, eritrei… Quando sento parlare degli eritrei, rizzo le antenne. Sono i profughi eritrei il vero motivo per cui sono qui, a Catania: voglio approfondire un’indagine giudiziaria, che mi aveva colpito anche per il nome: Tokhla, ovvero “sciacallo”. Una banda eritrea, smantellata nel dicembre del 2014, gestiva il traffico di esseri umani, che dal Sudan arrivava fino in Europa. In Italia era divisa per macroaree, fra la Sicilia, il Lazio, la Lombardia, e organizzava il viaggio degli eritrei e dei somali per portarli poi in Svizzera, Germania, Norvegia, Inghilterra. E, per via dei soliti paradossi, la banda aveva tenuto un gruppo di minorenni segregati in una soffitta, per giorni, proprio non lontano da questo palazzo, dove stiamo comodamente seduti a parlare di immigrazione.

Perché poi, nel backstage dell’immigrazione succede nche questo: si viene beffati da chi viene salvato e accolto. Credevo che grazie alla missione Mare Nostrum queste cose non accadessero più. E invece mi sbagliavo.

Poliziotti, magistrati, avvocati, volontari di associazioni umanitarie si alternano sul palco. Ciascuno cerca di dimostrare di essere stato più bravo degli altri e si lamenta di essere stato lasciato solo ad affrontare l’emergenza umanitaria. Tutti, d’accordo però, nell’elogiare le capacità sorprendenti di questa terra, che affronta uno sbarco ogni due giorni.

Ci si spella le mani per applaudire i volontari delle associazioni umanitarie, senza i quali sarebbe stato impossibile accogliere le oltre 170 000 persone sbarcate, in gran parte in Sicilia, tra l’ottobre del 2013 e la fine del 2014.

Gran cerimoniere e animatore del convegno è Giovanni Salvi, che guida la procura di Catania, considerata la migliore nel campo delle indagini: avendo una sezione della direzione distrettuale antimafia, può risalire più facilmente la filiera dei trafficanti.

È stato proprio il procuratore capo Salvi a parlarmi, qualche giorno fa, dell’operazione Tokhla, mentre mi elencava al telefono i successi dei suoi uomini: il numero dei trafficanti arrestati per reato associativo, le operazioni giudiziarie più eclatanti, la configurazione giuridica di nuovi reati imposta dalle circostanze, che hanno fatto annoverare la sua procura fra le eccellenze in Europa. Bravi, bravissimi, ho pensato, ma non l’ho chiamato per uno scambio di complimenti e di felicitazioni. Non sono venuta in Sicilia per dare la palma d’oro a una procura, io.

Ascolto svogliata le relazioni circa le nuove convenzioni internazionali sui minori non accompagnati, e intanto leggo sul mio profilo Facebook le raccomandazioni di alcuni amici. Mi suggeriscono di tornare a Milano, prima che arrivino i tagliagole dell’ISIS in Sicilia. «Se anche fosse, in questo momento sono piuttosto protetta. Praticamente in una botte di ferro », rispondo, e aggiungo una faccina sorridente per tranquillizzarli.

L’annuncio di una relazione del magistrato egiziano, venuto per promuovere una collaborazione più stretta con la procura di Catania, risveglia la mia attenzione. Mi interessa sentire che cosa può dirci, lui che viene dallo stato che ci ha procurato più guai, con i suoi trafficanti-pescatori dal viso scavato e segnato dal sole.

Purtroppo ha preparato un discorso in italiano di cui si capisce poco, se non che si tratta di un elenco di buone intenzioni. Gli preme aggiungere che l’Egitto non può essere lasciato solo a combattere il terrorismo delle milizie dell’ISIS. «È anche un vostro problema», sottolinea. E ha ragione da vendere. Ma in questo momento, ho altro a cui pensare. Per quanto sembri strano, se non assurdo, ora il mio problema non è l’offensiva dell’ISIS. Il mio tarlo, ora, sono gli eritrei.

M i alzo ed esco, raggiungo al bar il procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro. È stato Salvi a indirizzarmi verso di lui: quando, al telefono, avevo provato a chiedergli maggiori informazioni su Tokhla, il procuratore di Catania mi aveva congedato con gentilezza, invitandomi al convegno e suggerendomi di parlare con Zuccaro, coordinatore di un pool specializzato, creato nel 2013 per contrastare il traffico degli esseri umani.

Senza troppi giri di parole, Zuccaro mi racconta davanti a un caffè il modus operandi della banda eritrea, che aveva organizzato decine di viaggi dalla Libia.

L’operazione Tokhla è iniziata dopo lo sbarco di duecento migranti, a Catania, soccorsi dalla nave della Marina militare Grecale nel maggio 2014. L’avvio dell’indagine si deve alla testimonianza di una coppia — un ingegnere eritreo e la moglie — che aveva fatto il nome di Jamal Saudi, un eritreo soprannominato il saudita, che organizzava il traffico dal Sudan alla

Libia. E poi dalla Libia verso la Sicilia.

Mi spiega un dettaglio significativo: il sodalizio fra vittime e carnefici si rompe soprattutto quando un viaggio va male, quando c’è un naufragio, che spinge i parenti delle vittime ad uscire allo scoperto. E a denunciare i trafficanti, perché davanti alla morte dei loro cari non rimane che un’unica consolazione: la vendetta. E, infatti, è stato anche per una barca che sarebbe naufragata nel giugno del 2014, con a bordo, pare, 244 persone, che sono stati individuati alcuni basisti, in Italia. E arrestato il responsabile del naufragio, in Germania.

Zuccaro mi saluta, torna dentro ad ascoltare l’ultimo intervento, prima della pausa pranzo. Io, invece, decido di abbandonare il convegno, di evitare i professionisti delle tartine.

Voglio trovare un Parini catanese, un altro sbirro che lavori nell’ombra, nel sottosuolo, che possa raccontarmi di persona, perché li ha visti e conosciuti, questi giovani eritrei, fuggiti dalla leva obbligatoria permanente del loro paese e diventati scafisti, trafficanti, sequestratori. Non sono venuta quaggiù per assistere alla parata ufficiale delle autorità. Ho bisogno di sapere chi è davvero il carceriere eritreo che aveva tenuto quei ragazzi segregati a poche centinaia di metri da qui. Perché conoscerne il nome, Yemane Andemariam, non mi basta.

Mi dirigo verso la sede della squadra mobile di Catania, sempre più impressionata da queste storie, che si susseguono e mi ossessionano.

Voglio incontrare i poliziotti che hanno arrestato alcuni membri della banda eritrea. Forse lì posso trovare uno sbirro che si sia sporcato le mani e mi racconti i dettagli dell’operazione Tokhla.

La banda di Jamal

L a sede della squadra mobile si trova nel pieno centro storico di Catania. Non lontano da palazzo Platamone e, paradossalmente, vicino a quella soffitta in cui erano stati sequestrati migranti e profughi, dopo gli sbarchi, nel bel mezzo della gloriosa operazione Mare Nostrum.

Sul pc del capo della squadra mobile, Antonio Salvago, scorrono le foto di giovani eritrei dalla faccia pulita, che sembrano studenti freschi di master. Si tratta della banda guidata da Jamal Saudi, il saudita, che sa tutto delle leggi italiane e sa come sfruttarle a suo favore. Raccomanda ai profughi di non farsi identificare, di rifiutare il fotosegnalamento per poter poi organizzare le fughe dai centri di accoglienza e trasferirli in altri paesi europei.

I soldati del saudita vanno e vengono dalla Libia, mescolati ai profughi, a far funzionare un’organizzazione capillare. Vi sono cellule in tutta Italia: vengono chiamate così dai magistrati, perché i basisti e gli scafisti di terra, presenti in Sicilia, a Roma, a Milano, sono da considerare alla stessa stregua dei terroristi, che per uccidere usano bombe d’acqua, al posto della dinamite.

Salvago è gentile, ma schivo. Si limita a mostrarmi le foto degli eritrei arrestati, dandomi però almeno delle facce da associare a quei nomi che già conosco, che popolano le carte dell’indagine Tokhla.

Nelle carte, per esempio, ho letto della donna eritrea, disperata, che aveva chiamato il trafficante ritenuto responsabile del naufragio avvenuto nel giugno del 2014. Voleva sapere che fine avesse fatto un familiare, partito dalla Libia su un barcone con altre duecentoquaranta persone a bordo, e mai arrivato. Adesso posso vedere la fotografia di quel trafficante: Measho Tesfamariam, classe 1985. Posso vedere anche il suo profilo Facebook, dove campeggia un selfie che lo ritrae con una camicia a quadri. E, sotto, un post con il video del suo cantante preferito: Michael Jackson. Dopo il naufragio era fuggito in Germania, dove aveva chiesto lo status di rifugiato, cercando di sottrarsi alla furia dei parenti delle vittime, che si erano rivolti alla polizia.

Tesfamariam è stato arrestato in Germania, nel dicembre scorso (2014, ndr). E prima di lui sono stati fermati i suoi complici, in Italia, guidati da un uomo che dalle foto sembra il vicino di casa gentile che vorresti avere per dimostrare di non essere razzista, anzi, e invece era quello che gestiva lo smistamento di tutti gli eritrei e i somali spediti in Sicilia dal saudita. Si chiama Abraha Filipos e ha vent’anni. Come Tesfamariam, Abraha ha un’espressione rassicurante perfino nelle foto segnaletiche, che sembrano fatte apposta per imbarbarire chiunque.

Metto in fila una serie di domande per conoscere la sua storia. Anche lui è fuggito dalla leva obbligatoria nel suo paese? E come è diventato un trafficante? Chi sono questi ragazzi, che dalle foto sembrano studenti e invece hanno lucrato sulle speranze dei salvati, beffando i salvatori? Era stato anche lui un migrante, un profugo? Anche lui aveva vissuto l’odisseadella traversata, stipato con centinaia di persone, con la paura di morire annegato, senza via di fuga? Come ha fatto a dimenticare tutto questo e a farsi, da vittima, carnefice?

Guardo la foto sulpc di Salvago, e cerco di far quadrare la sua faccia da bravo ragazzo della porta accanto con il suo cinismo, emerso dalle intercettazioni, in cui Abraha si lamenta perché il naufragio gli ha fatto perdere soldi e robba, creando in Libia qualche problema di reputazione alla sua organizzazione.

Le mie domande sono destinate a rimanere senza risposta: qui a Catania gli scafisti e i trafficanti li arrestano. Non sono mica pagati per capirli. Il compito delle forze dell’ordine è cercare di arginare il traffico degli esseri umani, non quello di interpretare l’esodo. Ma a me non basta sapere che questi giovani eritrei dalla pelle liscia e dall’espressione rassicurante sono professionisti dello schiavismo contemporaneo. Guardando le loro fotografie, li immagino mentre si aggirano con disinvoltura nei dintorni dell’enorme centro di accoglienza di Mineo, nella piana di Catania, in cui si mescolano etnie diverse e mantenere il controllo è compito arduo, se non impossibile. Abraha Filipos si intrufolava spesso all’interno del centro, per cercare clienti, con la pelle liscia come la sua, che vengono dal suo stesso paese, magari dallo stessa città, cui offrire i suoi servizi.

Ripenso a quella scena del video che mi aveva mostrato il commissario Ciavola, a Ragusa, in cui un gruppo di migranti si ribellava all’identificazione e al fotosegnalamento da parte dei poliziotti, per poter fuggire via, veloci, verso il Nord Europa con i trafficanti di terra. E poi magari finire in un casa di transito, oppure chiusi in una soffitta, segregati, in attesa del riscatto pagato dalle famiglie. Ancora non lo so, ma fra qualche mese, dopo un’altra strage nel Canale di Sicilia, scoprirò che altri eritrei come loro verranno arrestati per la stessa ragione. Per gli stessi reati, commessi con il medesimo modus operandi, presentandosi ai binari della stazione centrale di Milano per prendere in consegna la propria merce. E penserò che è sempre più difficile, con questi numeri, davanti a un’altra onda anomala di profughi, dividere i buoni dai cattivi, quasi impossibile ricostruire il puzzle della vita che si sono lasciati alle spalle, perché non ci sarà tempo per verificare la versione dei fatti che ci raccontano una volta sbarcati.

Dopo aver visto la photo gallery, chiedo al capo della squadra mobile di poter parlare con il poliziotto che ha arrestato Measho, in Germania. Lo stesso poliziotto che ha scoperto, in un sottotetto a poche centinaia di metri da qui, diversi minorenni segregati dietro una porta chiusa con un lucchetto, tenuti sotto sequestro dalla faccia pulita di Yemane Andemariam, il carceriere eritreo. Il poliziotto della squadra mobile che ho di fronte ascolta le mie domande e sgrana gli occhi. Forse non capisce bene che cosa vado cercando. Il suo racconto del blitz nella soffitta è scarno ed essenziale: ricorda di averli trovati smarriti, malconci, scalzi. C’era anche una donna, forse la moglie del carceriere. Intenta a cucinare, non aveva fatto una piega all’arrivo dei poliziotti.

Capisco che è inutile insistere. La conoscenza di questo esodo umanitario non si trova sui libri di criminologia, ma è frutto dell’esperienza, di anni vissuti rimanendo in bilico sul confine tra il mondo dei buoni e quello dei cattivi. Davanti al loro comprensibile riserbo, desisto. Li saluto, giro i tacchi e me ne vado. Tenendomi stretta la mia ossessione per questi trafficanti dalla pelle liscia, con i loro occhiali dalle montature leggere, che li fanno assomigliare a studenti universitari.

Decido di uscire da quell’ufficio ed entrare nel ventre del centro storico di Catania. Le facciate scure, laviche, degli edifici, sommate al grigiore di un’altra giornata di pioggia, in questo inverno siciliano che non vuole finire mai, mi danno un senso di oppressione.

Salita in auto, passo di nuovo davanti a palazzo Platamone, su cui Parini aveva elargito un’altra delle sue lectio magistralis non richieste appena prima della mia partenza per il convegno. Sul muro, uno dei manifesti pubblicitari dell’evento ha ceduto nell’angolo in alto, si è accartocciato da una parte. Adesso si legge soltanto: L’immigrazione che.

Il convegno è stato organizzato in un momento difficile, dove a una momentanea tregua degli sbarchi corrisponde la minaccia delle milizie dello Stato islamico in Libia, ma non ha aggiunto nulla alla mia conoscenza sulla catena di montaggio della gestione della crisi umanitaria.

E ancora non so cosa succederà mesi dopo, con l’avvento di Triton: gestita direttamente dall’Unione europea, l’operazione sarà molto criticata dopo l’ennesima strage nel Canale di Sicilia. Anche l’Unione europea, a quanto pare, è impotente, incapace di affrontare il problema dell’accoglienza dei profughi, che nessuno stato vuole.

Si parlerà di riformulare i criteri della ripartizione dei profughi, che nel frattempo continueranno a scappare dai centri di accoglienza, a riversarsi su Milano: le associazioni umanitarie, alle prese con il sovraffollamento, lanceranno un appello anche solo per avere sapone e pannolini da dare ai profughi, guarda caso tutti eritrei, arrivati da soli o con l’aiuto di scafisti di terra simili a Measho. Continueranno a muoversi come fantasmi, senza farsi identificare, fra una città e l’altra, fra un paese europeo e l’altro, in cerca della propria meta.

Ora però nulla di questo è ancora accaduto. Mi lascio alle spalle Catania, la dama nera, per recarmi nella bianca isola di Ortigia. La mia meta è un piccolo ristorante, dietro il tempio di Apollo. Vado a cercare risposte da un kebabbaro trasformato in detective, che forse può interpretare meglio ciò che rimane ancora nascosto ai miei occhi. Insomma, si torna al punto di partenza: «A Ortigia, a Ortigia!».

Mare Monstrum, Mare Nostrum di Cristina Giudici Utet, pp.160, 14 euro

Mare Monstrum, Mare Nostrum

Migranti, scafisti, trafficanti. Cronache dalla lotta all’immigrazione clandestina
(Utet edizioni, pp.160, 14 euro)

Della realtà complessa e sotterranea dei migranti che ogni giorno cercano una via di fuga attraverso il Mediterraneo, a noi arriva solo una minima parte e le scene drammatiche degli sbarchi e delle stragi in mare purtroppo finiscono per sovrapporsi e assomigliarsi (Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, Catania…).

Ma che cos’è che non vediamo? Che cosa succede dopo i salvataggi e gli atti di eroismo dei militari di Marina militare e Guardia costiera, che tentano di sottrarre i migranti al mare e alla morte?

Una trama intricata che la giornalista Cristina Giudici ha dipanato recandosi sulla costa orientale della Sicilia, tra Catania, Ragusa e Siracusa, e affidandosi a una coppia di testimoni d’eccezione: il sostituto commissario della Polizia di stato Carlo Parini, responsabile del Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina e inarrestabile “cacciatore di scafisti”, e il suo collaboratore più prezioso, l’interprete marocchino Aziz, estroso “detective kebabbaro”.

Così, in questo reportage originale e avvincente, alla ricostruzione del modus operandi dei trafficanti si alternano le storie dei carnefici e delle vittime dell’immigrazione clandestina, attraverso i ricordi, le vittorie e le sconfitte di chi ogni giorno lotta in prima linea in quest’emergenza umanitaria che ha assunto ormai quasi i tratti di una guerra.

cristina giudici, giornalista, vive e lavora a Milano. Dal 2000 scrive per Il Foglio reportage e inchieste su temi di attualità. Collabora anche con Grazia, Il Venerdì di Repubblica e il giornale online Linkiesta. Si occupa di costume, politica, crisi economica, questione settentrionale, fondamentalismo islamico e immigrazione. Tra i suoi libri ricordiamo Leghiste (Marsilio, 2010), Padania perduta (Marsilio, 2012) e L’Italia di Allah (Bruno Mondadori, 2005), con cui ha vinto il Premio Maria Grazia Cutuli.

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cristina giudici

Journalist. Economy, politcs, society. il Foglio, Venerdi di Rep. Linkiesta. Grazia. Mare e Opera. Mi piace risalire i fiumi, come i salmoni. RT is endorsement