Ghost Boat

“243 persone scomparse: giovani, donne e bambini. A nessuno importa”

Episodio 1: Come si ritrova una barca scomparsa nel nulla senza lasciare traccia?

Monica Cainarca
20 min readOct 7, 2015

Di Eric Reidy, fotografia di Gianni Cipriano
Traduzione di Monica Cainarca

Parte 1 dell’inchiesta del team di Ghost Boat (successive: 23456 • 7 • 8)

Si chiamava Segen. Nelle prime ore del mattino del 28 giugno 2014, era salita a bordo di una barca in Libia, insieme alla figlia più piccola, Abigail. Segen aveva 24 anni e un fisico esile; la piccola Abigail, quasi due anni, le guance paffute e una chioma di capelli ribelli. Non erano sole su quel barcone: in tutto c’erano almeno 243 persone a bordo, tutte stipate insieme, come merce umana.

Come la maggior parte degli altri passeggeri, anche Segen era in fuga dall’Eritrea, la “Corea del Nord dell’Africa”, uno dei regimi più repressivi del mondo. Tutti speravano di arrivare fino in Italia, lontano dalle difficoltà della vita nel loro paese.

Segen telefonò al marito, Yafet, il giorno prima di imbarcarsi. Non si vedevano da quattro settimane. Mentre Segen aveva attraversato la Libia con Abigail al seguito di un trafficante, percorrendo migliaia di chilometri per arrivare alla costa, Yafet era rimasto in Sudan. Avrebbe raggiunto la moglie e la figlia dopo il loro arrivo in Europa. Quello era il piano.

Il trafficante non li lasciò parlare a lungo, solo un paio di minuti. Non importa, pensò Yafet: avrebbero avuto tempo di sentirsi con calma più avanti, una volta che Segen fosse arrivata in Italia.

Non si sarebbero risentiti mai più.

Yafet e Segen si erano conosciuti nove anni prima in un bar ad Asmara, la capitale dell’Eritrea. Lui era al secondo anno delle superiori, lei era al primo, il baretto locale era il luogo di ritrovo abituale tra i compagni di scuola.

Non era visto di buon occhio che ragazze e ragazzi si frequentassero troppo, così gli adolescenti si trovavano spesso in gruppo per dare una copertura alle coppie di fidanzatini. Fu così che si conobbero Yafet e Segen: accompagnando una coppia di amici che si vedevano di nascosto. E quando la coppia aveva bisogno di un po’ di privacy, Yafet e Segen passavano il tempo chiacchierando tra loro. Pian piano, lui cominciò a innamorarsi di lei.

“Quando iniziammo a parlare… non in un solo giorno, ma nel corso di mesi, iniziai a notare molte cose di lei che mi piacevano: il suo modo di parlare, di ridere, il suo sorriso”, dice Yafet. “Mi innamorai e le chiesi di diventare la mia fidanzata”.

Le fotografie di Gianni Cipriano ritraggono gli oggetti abbandonati dai profughi che hanno compiuto il difficile viaggio dal Nord Africa alla Sicilia.

Yafet è nato nel 1987, il più giovane di sette figli. Il padre era insegnante di fisica al liceo e la madre insegnava dattilografia. Abitavano in una casa con quattro camere da letto in un quartiere benestante di Asmara. All’epoca, l’Eritrea era alla fine di una guerra di trent’anni per l’indipendenza dall’Etiopia e le famiglie della borghesia istruita come quella di Yafet erano destinate a formare la spina dorsale della nuova nazione.

La libertà giunse nel 1993, ma l’ottimismo non durò a lungo. Dal 1998, un nuovo conflitto sempre più aspro con l’Etiopia provocò nel giro di due anni ben centomila vittime. La leadership del presidente Isaias Afewerki fu messa in discussione e la sua risposta fu reprimere ogni dissenso, vietando anche i giornali nazionali di proprietà privata e facendo imprigionare ogni suo oppositore. È ancora al governo da allora.

Oggi, l’Eritrea è uno dei regimi più repressivi del mondo: sono documentati molti casi di torture, lavori forzati, arresti arbitrari, detenzione in isolamento, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. Il meccanismo di controllo primario del regime è il servizio militare nazionale, obbligatorio per tutti: i cittadini sono arruolati per un periodo indeterminato, spesso per tutta la vita adulta, costretti a lavorare in imprese del governo, praticamente senza retribuzione. Ci sono pesanti limitazioni della libertà di espressione, di associazione e di culto.

Anche se allora Yafet era solo un adolescente, i primi tempi della repressione gli sono rimasti ben impressi nella memoria. Dopo aver capito cosa stava succedendo, non riusciva a smettere di pensarci.

“Chiedevo a mia mamma: mamma, perché sta succedendo tutto questo?”, racconta oggi. “Mia madre mi diceva di stare zitto, di non parlare così quando ero fuori casa. Ma sono nel mio paese, sto solo facendo una domanda su quello che succede, perché non posso dire niente? Poi ho visto cosa accadeva a chi faceva domande del genere.”

Oggi, più di 400.000 persone – un cittadino eritreo su 16 – hanno lasciato il paese.

A settembre del 2007, Yafet e Segen stavano insieme da due anni. Come tutti gli altri cittadini eritrei, Yafet ha dovuto fare sei mesi di addestramento militare dopo il terzo anno alle superiori, prima di tornare a scuola. Dopo il diploma, solo un paio di giorni prima dell’arruolamento ufficiale, prese da parte Segen per dirle che stava per andarsene, stava per lasciare l’Eritrea.

Yafet e Segen

Lei non prese bene la notizia. Non perché non vedesse l’oppressione: lei stessa aveva abbandonato la scuola dopo il secondo anno di superiori per evitare il servizio militare. Il suo timore era che non avrebbero mai avuto la possibilità di costruirsi un futuro insieme. Ma entrambi si resero conto che nemmeno restare avrebbe dato loro quella possibilità.

“Non potevamo immaginarci un futuro lì, con quel governo. È per questo che lei accettò la mia decisione di partire. Le promisi che non l’avrei dimenticata. Lei mi disse che avrebbe pregato per me... e che un giorno saremmo stati di nuovo insieme e avremmo avuto dei figli”.

Il confine tra l’Eritrea e il Sudan è un deserto di terra screpolata, dove le temperature arrivano a superare i quaranta gradi. L’unica caratteristica distinguibile che segna il confine tra i due paesi è una bassa dorsale montuosa che si estende all’orizzonte.

“Oltre la montagna c’è il Sudan, di fronte c’è l’Eritrea”, dice Yafet. Raggiungere la montagna significava raggiungere la libertà.

Dopo aver salutato la famiglia e Segen, Yafet si presentò a rapporto al campo militare nell’ovest del paese. Ci restò per tre giorni, mentre faceva gli ultimi preparativi prima di partire per il deserto con otto amici. Aveva vent’anni e sapeva che non avrebbe più avuto la possibilità di tornare a casa.

“Sapevo dov’era l’ovest e sapevo che se fossi andato verso ovest [avrei raggiunto il Sudan]”, racconta Yafet. Ma ci volevano due giorni di cammino dal campo al confine e il governo non riservava un trattamento clemente ai disertori.

In una zona senza alberi né cespugli, non c’era modo di nascondersi, quindi viaggiarono soprattutto di notte. Ma anche dopo il tramonto la luna era così luminosa che non avevano molta protezione. Così decisero di procedere con questo sistema: ognuno di loro, a turno, avrebbe fatto da avamposto camminando varie centinaia di metri davanti agli altri. In questo modo, se si fossero imbattuti in una pattuglia militare, solo uno di loro sarebbe stato catturato e il resto del gruppo avrebbe avuto una possibilità di fuga.

Ma non erano solo le pattuglie del governo eritreo a costituire una minaccia. C’era anche la possibilità di imbattersi in bande criminali o nelle forze di sicurezza sul lato sudanese che li avrebbero riconsegnati alle autorità eritree in cambio di denaro.

Dopo aver camminato per due notti e un giorno nel deserto, il gruppo raggiunse la montagna. Giunti dall’altra parte, non fu facile trovare la strada: nessuno nel gruppo parlava arabo, solo la lingua dell’Eritrea, il tigrino, oltre a un po’ di inglese. Ma ebbero un piccolo colpo di fortuna: un sudanese gentile li accolse a casa sua. “Ci ​​diede da mangiare, da bere, persino il latte. Avevamo ancora addosso le divise militari e ci portò abiti civili”.

L’uomo diede al gruppo indicazioni per raggiungere un campo profughi vicino. Yafet ce l’aveva fatta. Ora poteva iniziare la sua nuova vita.

“Era il posto peggiore che avessi mai visto. Non c’era distribuzione organizzata di cibo. Non c’erano case… C’erano solo tende donate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma non erano abbastanza per tutti. Non c’era acqua potabile per i profughi, non c’erano servizi di assistenza medica, c’era solo un’infermiera e i profughi nel campo all’epoca erano almeno duemila o tremila. Se avevi soldi potevi comprarti qualcosa da mangiare, ma tanti lì erano senza soldi. Erano in serie difficoltà”.

Yafet era a Wad Sherife, un campo profughi a circa 15 km dal confine. Era illegale andarsene dal campo, così, tre mesi più tardi, pagò a un trafficante una somma di cento dollari per portarlo a Khartoum, la capitale del Sudan, da dove pensava di poter proseguire, verso l’Europa o gli Stati Uniti.

Ma anche Khartoum fu un altro shock terribile, una città implacabile, violenta e instabile, dove Yafet era costantemente esposto a pericoli. All’inizio fece affidamento sull’aiuto degli altri: un parente negli Stati Uniti gli mandò dei soldi, un altro che viveva nella zona gli offrì un posto dove stare. Condivideva una piccola stanza con altre cinque persone. Era una stanza spoglia e calda e non c’erano letti, eppure Yafet era felice. Era la prima volta che poteva apprezzare il fatto di non trovarsi più in Eritrea.

“Fu un bene per noi trovare quel posto. Avevamo la libertà. Ci rendemmo conto che potevamo iniziare a rilassarci. Potevamo parlare di quello che desideravamo... di cose che non avrei osato dire in Eritrea. Parlavamo del nostro paese. Parlavamo del nostro futuro. Erano cose che non avevamo mai detto apertamente”.

Le cose però iniziarono a mettersi male e andarono sempre peggio. La rete di sostegno di Yafet svanì, lasciandolo senza soldi. Quasi tutte le sere riusciva a mettere insieme abbastanza per dormire in alloggi clandestini, allestiti in case private; a volte dormiva all’aperto, mescolandosi con altri senzatetto e tenendosi alla larga dalla polizia. Alla fine, trovò lavoro in una panetteria: il proprietario lo pagava 3 dollari e mezzo al giorno e lo lasciava dormire la notte nel retro del negozio. Era una situazione che offriva un po’ di stabilità, ma non abbastanza per costruirsi un futuro.

Così, quando Segen disse a Yafet che sarebbe arrivata in Sudan nell’estate del 2009, Yafet non si rallegrò della decisione della fidanzata.

“Le dissi di portare ancora pazienza, di aspettare prima che trovassi una situazione migliore”, spiega. “Non volevo farla arrivare lì e vederla in difficoltà, non volevo nemmeno trovarmi io in maggiori difficoltà”.

Segen decise comunque di raggiungerlo. Non aveva molti soldi, ma suo cugino, un trafficante, accettò di aiutarla a fuggire dall’Eritrea se Segen avesse trovato altre tre persone disposte a fare il viaggio con lei e a pagare.

Segen e Yafet si sposarono finalmente nel settembre 2010: un matrimonio in chiesa, con circa trenta invitati.

“Ero felice quel giorno: il giorno del mio matrimonio con la ragazza dei miei sogni”, dice Yafet.

Le cose stavano iniziando a migliorare. Andarono a vivere insieme e Yafet trovò lavoro per un’azienda che vendeva prodotti agricoli online, con il suo ufficio, il suo computer e uno stipendio di 500 dollari al mese.

Essere finalmente insieme, però, non aveva ridotto lo stato di insicurezza. Avevano discussioni costanti sull’alternativa tra rimanere lì o tentare di andarsene. La famiglia di Segen la incoraggiava a lasciare l’Africa, per andare o in Israele, attraversando il deserto del Sinai, o in Europa, in barca attraverso il Mediterraneo. Entrambe le opzioni erano pericolose.

“Non volevo mettere le nostre vite a rischio per la possibilità di avere una vita migliore”, dice Yafet. “Le dicevo che se trovavamo un modo migliore, un modo sicuro di andarcene, se riuscivamo a ottenere il reinsediamento o un visto per poter partire in aereo, allora bene, saremmo partiti, altrimenti, no, non dovevamo rischiare la vita”.

Poi l’azienda dove lavorava Yafet chiuse lasciandolo senza lavoro. La prima figlia, Shalom, nacque un mese dopo, il 16 luglio 2011. Yafet prese ogni lavoro che riusciva a trovare: pulizie in casa, lavori manuali, lavoro nei ristoranti, qualsiasi cosa. Poi, pochi mesi dopo la nascita di Shalom, Segen restò di nuovo incinta. La seconda figlia, Abigail, nacque il 29 ottobre del 2012.

Niente era stabile e Segen era più ansiosa che mai. Trovare un modo di andarsene era diventato il principale argomento di discussione. Era troppo.

“Non riusciva a dormire, a mangiare, a occuparsi delle bambine… Scoppiava a piangere senza un motivo preciso. Si arrabbiava per piccole cose. Non era tranquilla. Cercavo di farla sentire libera, di farla rilassare. Ma stava sempre peggio”.

Poi, un giorno, lei gli disse che non poteva più aspettare.

Segen e Yafet valutarono bene le loro opzioni. Alla fine presero una decisione: Segen avrebbe attraversato il deserto libico e si sarebbe imbarcata su una delle barche dei trafficanti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Una volta lì, si sarebbe diretta verso la Norvegia, che ha una delle procedure di asilo e ricongiungimento familiare più veloci in Europa. Yafet l’avrebbe raggiunta in seguito. In un primo momento, voleva che entrambe le figlie restassero con lui a Khartoum, ma Segen era convinta che avere Abigail con sé l’avrebbe aiutata a tenere entrambe al sicuro da abusi e violenze durante il viaggio, e magari anche a ottenere una qualche forma di trattamento preferenziale, come un po’ di cibo e acqua in più – cose che possono fare una grande differenza durante la lunga traversata del deserto che si prospettava. Yafet alla fine acconsentì.

Quando ti fanno passare di nascosto per confini internazionali, i trafficanti non ti danno una data e un’ora precisa per la partenza. Ti telefonano e basta, senza preavviso, e via, si parte.

Quando il trafficante finalmente avvisò Segen che era giunto il momento di partire, Yafet si stava già preparando da una settimana. Eppure, quel momento lo colse alla sprovvista: era al lavoro quando Segen lo chiamò per dirgli che stava partendo. Non ebbe tempo di tornare a casa per salutarla.

Quando Yafet riuscì a parlare di nuovo con Segen, lei era appena arrivata alla sua prima destinazione in Libia. C’erano voluti quindici giorni di cammino nel Sahara, un percorso senza strade, in mezzo al deserto. Ora era al sicuro, gli raccontò, ma non tutti erano stati fortunati. Il viaggio avrebbe dovuto durare sei giorni, ma il camion che li trasportava aveva avuto un guasto e avevano dovuto aspettare quattro giorni fino all’arrivo di un altro camion per proseguire oltre.

Quattro persone erano morte di disidratazione durante l’attesa.

Segen piangeva al telefono.

“Le chiesi di passarmi Abigail... di farmi sentire la sua voce”, ricorda Yafet. “Mi disse che [Abigail] era troppo stanca e dormiva già. Ebbi davvero paura quando rispose così. Pensai subito che fosse successo qualcosa ad Abigail”.

Yafet non perde facilmente la calma. Ma quel giorno si mise a urlare al telefono con Segen insistendo per sentire la voce della piccola Abigail, finché Segen non andò a chiamare la figlia e gliela passò.

La paura di Yafet non era infondata. L’itinerario attraverso il deserto è insidioso e un gran numero di rifugiati e migranti perdono la vita senza mai raggiungere la costa libica, tantomeno l’Europa. È difficile dire esattamente quanti muoiano ogni anno nel Sahara, ma con i trafficanti che fanno stipare fino a cento persone in un vecchio camion, il numero è alto.

“Tutti avevano poco cibo e poca acqua. Quando l’acqua è finita hanno iniziato a bere la loro urina”, mi dice Younes Abdi, un ventinovenne somalo arrivato in Sicilia, raccontandomi il suo viaggio attraverso il deserto. Venti persone del suo gruppo di circa cento sono morte perché alcune complicazioni con il carburante e il camion su cui viaggiavano avevano rallentato il viaggio.

Anche chi sopravvive affronta il rischio di rapimenti, torture, pestaggi e violenze sessuali.

Mohammed Ali, un profugo somalo ventottenne che vive in Sicilia, mi ha raccontato di essere stato preso a bastonate dai trafficanti, accoltellato e derubato. Altri vengono rapiti da trafficanti o milizie e torturati fino a quando le loro famiglie pagano i soldi del riscatto; le donne sono spesso violentate o vittime di abusi sessuali prima che sia loro consentito di continuare il viaggio.

La situazione non migliora quando i profughi raggiungono la loro prima destinazione all’interno della Libia. Le milizie e la polizia locale spesso prendono i rifugiati e li mettono in carcere o nei centri di detenzione, o addirittura li tengono prigionieri nelle case e chiedono soldi per liberarli. Se i profughi non pagano la tangente, finiscono vittime di lavoro forzato e altri abusi, inclusa la tortura.

Dopo aver attraversato il deserto, Bahousmane, un senegalese di trentatré anni poi arrivato come richiedente asilo in Sicilia, era stato chiuso a chiave in una casa per un anno insieme ad altre centocinquanta persone. Riuscirono a fuggire solo dopo che due di loro avevano scavato un buco nel muro esterno.

Anche fuori dalle prigioni e dai centri di detenzione, i profughi sono sottoposti a sfruttamento e abusi nel viaggio attraverso la Libia e lavorano per mettere da parte i soldi per permettersi la traversata verso l’Italia.

“Non amano i neri. Ci usano come schiavi”, dice Osarwetin Ugingbe, un nigeriano trentacinquenne che ora vive in Sicilia.

Quando finalmente riescono a raggiungere la costa e pagare la quota per il viaggio (circa 1.500 dollari), sono tenuti in case gestite dai trafficanti per un periodo che può andare da due giorni a vari mesi, a seconda delle condizioni meteorologiche e di quante persone il traffficante è riuscito a radunare per la traversata. I trafficanti non forniscono molto cibo o acqua e la violenza è diffusa.

L’ultima volta che Yafet parlò al telefono con Segen fu circa un mese dopo che era partita dal Sudan. Era arrivata sulla costa dopo un viaggio faticoso e pericoloso e ora si trovava nella casa di un trafficante, in attesa di partire per l’Italia.

“Ricordo l’ultimo giorno che sentii la sua voce: era il 27 giugno”, dice Yafet. “Mi disse che sarebbe partita il giorno dopo, il 28, o quello dopo ancora. Le dissi di essere forte, di avere cura di sé e della nostra bambina”.

Yafet richiamò il 28 giugno ma nessuno rispose al telefono. Continuò a chiamare.

Fu solo il mattino dopo che finalmente qualcuno rispose, un uomo, che chiese a Yafet chi stesse cercando. “Gli dissi: Segen”, racconta Yafet. “Mi chiese se era la ragazza con la bambina piccola. Gli dissi sì, era lei… L’uomo mi disse che erano partiti il giorno prima e mise giù il telefono”.

Nella mente di Yafet, il viaggio attraverso la Libia era più pericoloso della traversata in mare. Una volta arrivate sulla costa libica, Segen e Abi erano già al sicuro: quella era la sua convinzione. Tutto quello che doveva fare era aspettare la loro telefonata.

Dopo una settimana, iniziò a preoccuparsi.

“Richiamai il trafficante qualche giorno dopo, il 4 luglio”, dice Yafet. “Mi disse che aveva parlato con loro al telefono e che erano arrivate. Mi disse: congratulazioni”.

“Gli ho creduto”.

L’uomo all’altro capo del telefono era Measho Tesfamariam, un ventinovenne anche lui eritreo. Oggi è detenuto in un carcere italiano, accusato di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in attesa del processo che inizierà a dicembre. Avrebbe fatto parte di un giro di trafficanti che ha organizzato almeno ventitré traversate dalla Libia all’Italia tra maggio e settembre 2014. La barca su cui si trovava Segen era una di quelle che Tesfamariam, secondo il pubblico ministero italiano, avrebbe contribuito a inviare nel Mediterraneo.

Anche se le autorità considerano l’organizzazione responsabile di quanto successo a quelle 243 persone, non hanno idea di che fine abbiano fatto. È del tutto possibile che la barca sia affondata, ma in quel caso, per un singolo tragico incidente in mare di quella portata, ci sarebbero quasi sicuramente delle prove, almeno secondo gli esperti.

“È davvero strano”, dice Othman Belbeisi, responsabile nazionale per la Libia dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). L’OIM, che tiene documentazione dettagliata delle attività nel Mediterraneo, non ha traccia di operazioni di salvataggio che corrispondano alla descrizione della barca su cui viaggiava Segen.

“Stiamo parlando di più di duecento persone: è un numero difficile da nascondere per un anno intero. È davvero strano che non ci sia stata un’inchiesta ufficiale”.

Tesfamariam, intanto, dice di essere solo un profugo e di aver lavorato per un trafficante di nome Ibrahim, occupandosi di rispondere al telefono come suo intermediario, solo per potersi guadagnare il passaggio verso l’Europa.

Sostiene addirittura che anche suo fratello fosse sulla “barca fantasma”. Dice di non avere idea di cosa sia successo alla barca.

“Lo sanno solo Ibrahim e Dio”, ha detto a un giornalista italiano, non molto tempo prima di essere arrestato in Germania ed estradato.

Incontro Meron Estefanos per la prima volta in Tunisia all’inizio di quest’anno. È un punto di riferimento per la comunità di rifugiati di Eritrea: una giornalista e attivista che si è trovata al centro dell’esodo. Come Yafet, ha lasciato il suo paese da giovane, anche se nel suo caso la partenza era legale. Oggi, a 40 anni, vive a Stoccolma, in Svezia, ed è ancora impegnata ad aiutare i rifugiati e lottare contro la dittatura eritrea.

Il suo impegno ruota intorno al programma radiofonico settimanale che conduce, Voices of Eritrean Refugees. È un programma molto seguito dagli eritrei della diaspora. Ogni settimana, racconta una serie di storie di persone in fuga dal regime di Asmara e riceve regolarmente telefonate sui tentativi di fuga che non sono andati a buon fine.

A volte sono messaggi in segreteria lasciati da voci ansiose di cugini o genitori o sorelle e fratelli preoccupati. Quando qualcuno viene rapito o finisce disperso, Meron Estefanos fa ricerche e indagini di persona. Ma a volte è una chiamata d’emergenza, una richiesta d’aiuto da qualcuno che si trova proprio su una barca che sta affondando: in questi casi, la giornalista contatta subito le autorità per sollecitare i soccorsi. Tutto ciò l’ha resa un punto di contatto per molte persone che scappano dal regime di Afewerki. “Tutti hanno il mio numero”, dice.

Meron Estefanos aveva sentito parlare per la prima volta della barca scomparsa da un gruppo di parenti dei dispersi che, come Yafet, erano rimasti senza risposte.

Non era chiaro che cosa fosse successo, ma la giornalista era certa di una cosa: quello che il trafficante aveva detto ai parenti era una bugia. Le autorità europee non avevano nessun riscontro che i passeggeri fossero arrivati sulle loro coste; se la barca avesse raggiunto l’Italia, ci sarebbe stata traccia del suo arrivo e le persone a bordo sarebbero state in grado di chiamare i loro parenti. Ma nessuno di loro l’ha mai fatto.

“Ho capito subito che c’era qualcosa di storto in tutta questa storia”, mi dice Meron. “L’unica cosa che sappiamo è che nella casa del trafficante ci sono state altre persone dopo la partenza dei profughi scomparsi, quindi di sicuro non sono mai tornati lì. Dopo essere stati portati via dal trafficante, non sono più tornati indietro”.

Anche se trovare qualcuno ancora vivo sembrava una possibilità molto remota, Meron è stata in Tunisia per seguire una pista molto particolare e molto strana. La famiglia di uno dei dispersi aveva ricevuto una telefonata, in Eritrea, da un numero di telefono tunisino. La persona all’altro capo della linea sosteneva di essere una guardia carceraria e che i profughi fossero detenuti nel suo carcere, nel sud della Tunisia. Meron era venuta a indagare.

All’epoca ero a Tunisi per lavoro da circa cinque mesi. Un mio amico che stava aiutando Meron mi raccontò del caso e ne fui incuriosito.

Ci sediamo per un caffè in uno dei numerosi bar all’aperto lungo il viale alberato di Avenue Habib Bourguiba, la principale arteria pedonale che attraversa il cuore di Tunisi, nel centro dominato dall’architettura del periodo coloniale francese. Meron è appena uscita dall’imponente edificio del Ministero dell’Interno dall’altra parte della strada, una costruzione di cemento grigia, circondata da un cordone di filo spinato e barricate. Le hanno detto che non c’è traccia che la gente su quella barca sia mai stata in Tunisia.

Meron ha trascorso gli ultimi quattro giorni a consultare archivi giudiziari e visitare carceri, ma le sue ricerche sono state inconcludenti.

Ma sono emerse altre piste da seguire: una guardia carceraria le ha detto di aver sentito di un grande gruppo di africani detenuti in una prigione nella città di Sfax a sud, all’epoca della telefonata. Qualcuno al tribunale di Sfax ha sentito una storia simile, ma non c’è niente di documentato.

“Potrebbe anche essere un’opzione. Potrebbe essere vero. Non credo di poterlo escludere con assoluta certezza”, mi dice Lorena Lando, responsabile per la Tunisia dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. “Credo che non possiamo escludere nessuna opzione”.

Nonostante le voci e gli indizi sparsi e le storie sentite, Meron non ha nulla di concreto, nessuna risposta per le famiglie dei dispersi. “È davvero triste quello stanno passando queste famiglie... Vorrei poter dare loro qualche certezza, ma purtroppo non posso”, mi dice. La sua voce si spegne.

Oggi è passato più di un anno dalla scomparsa della barca. Il destino di Segen e degli altri passeggeri resta un mistero. Quasi nessuno ha fatto qualcosa per cercare di capire davvero cosa sia successo.

“Pensavamo che fossero arrivati in Italia, ma non era vero”, mi dice Yafet. “Pensavamo che fossero rimasti in Libia, ma niente nemmeno lì. E ora crediamo che possano essere finiti in Tunisia, ma non abbiamo le prove”.

Tutto quello che abbiamo è una serie di possibilità, strani eventi e informazioni mancanti. Dove sono le prove?

Fausto Melluso, un attivista ed esperto di migrazione che lavora per l’Arci in Sicilia, mi dice: “È inconcepibile che una barca con così tante persone a bordo possa andare dispersa nel 2014 e nessuno ne sappia nulla”.

Inconcepibile.

Per Yafet e per i parenti delle altre persone che erano su quella barca, l’assenza di certezze è un nuovo tipo di tortura. Shalom, l’altra figlia di Yafet e Segen, oggi ha quattro anni e chiede dove sia sua madre, perché non si fa sentire, perché non chiama. Yafet le dice che Segen è all’estero e che un giorno si ritroveranno tutti insieme. Non sa nemmeno lui a questo punto se sta mentendo o no.

“Duecentoquarantatré persone, scomparse nel nulla. Giovani, donne, bambini… Non importa a nessuno. Al resto del mondo non importa ”, mi dice Yafet al telefono.

È arrabbiato, frustrato.

“Se penso all’attacco al Charlie Hebdo a Parigi, 14 o 15 persone, uccise dai terroristi… Il mondo si è fermato per 14 persone, ma erano bianchi, europei. Lo stesso per l’aereo della Malaysia Airlines”, continua Yafet. Un volo con 239 persone a bordo scompare nel nulla e “tutto il mondo, in ogni nazione, tutti vogliono sapere cosa sia successo, ma nel nostro caso, niente… perché siamo neri? Non lo so. È davvero dura. Cosa posso dire?”

Yafet sospira.

“Siamo esseri umani”.

Vogliamo trovare quella barca e tutti voi potete aiutarci

Vogliamo scoprire cosa è successo a Segen, a sua figlia Abigail e alle altre persone su quella “barca fantasma”. E chiediamo anche a voi lettori di partecipare, esaminando le teorie, analizzando i dati e proponendo altre piste da seguire per le indagini. Forse riuscirete voi a scoprire o sapere qualcosa, o anche a vedere qualcosa che a noi è sfuggito finora.

Per questo stiamo raccogliendo prove, esaminando i resoconti e preparando guide pratiche su come cercare risposte. Vogliamo la vostra collaborazione.

Ecco come iniziare.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy e rivista da Bobbie Johnson. La verifica dei fatti è stata curata da Rebecca Cohen e la revisione finale da Rachel Glickhouse. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografie di Gianni Cipriano.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia